di Franco Astengo
In un paese socialmente
lacerato, privo di credibili riferimenti politici , dove oltre il 60%
desidererebbe l’uomo forte “che mette le cose a posto” ricorrono i 100 anni
dalla fondazione dei Fasci di Combattimento e c’è chi, nell’occasione, richiama
il “diciannovismo”.
Sulle
colonne del “Manifesto” (30 gennaio) il sociologo De Masi, un pentito tra i
molti che hanno tirato - in certi casi per pura vanagloria - la volata al M5S,
si sofferma sul tema del ritorno al fascismo e dichiara: “...Umberto Eco elenca
14 elementi per riconoscere la propensione all’autoritarismo, all’Ur- fascismo,
al fascismo eterno”. Salvini li ha tutti. E così gli elementi che Adorno
individua nella personalità autoritaria. E quelli di Talcott Parsons..”
“...Il
decreto sicurezza vieta gli assembramenti e punisce i mendicanti: altri
fascismi lo hanno fatto dopo la presa del potere. Qui prima”.
Tornando
al centenario dei fasci di combattimento e al “diciannovismo” è interessante,
proprio nella situazione di oggi, rievocare un passaggio assolutamente
fondamentale per comprendere come si arrivò, da quel momento di fondazione nel
giro di tre anni all’avvento del fascismo(la fondazione dei Fasci avvenne
mentre era già in atto il biennio rosso e in Germania erano stati appena
stroncati i moti spartachisti).
Decisivo dunque sotto quest’aspetto fu il passaggio
dall’interventismo al fascismo.
Un
passaggio che avvenne lungo tre direttrici:
1)La critica al sistema
giolittiano che si trasformò in critica alla democrazia rappresentativa tout
court;
2)Alla democrazia come
mediazione venne contrapposto il ruolo rivoluzionario della violenza;
3)La contrapposizione di
classe sul piano interno di radicali di sinistra confluì nella contrapposizione
indiscriminatamente frontale portata avanti dai radicali di destra sul piano
europeo.
Antidemocrazia
più nazionalismo e imperialismo di ritorno furono le convergenti premesse
culturali di un processo politico ed anche partitico che determinò l’esito di
quella fase.
In
precedenza alla guerra mondiale l’alternativa nazionalista era priva di veri e
propri canali di partito che la portassero avanti: le giuste intuizioni del
fatto che si era entrati nell’età delle masse e che si potevano conquistare le
masse anche da destra non erano sorrette, in quel momento, da un’adeguata
strumentazione organizzativa in termini di partito.
Infatti
grande industria, Chiesa,, esercito servono a inquadrare le masse in uno stato
autoritario, dopo l’eventuale conquista del potere da parte di una forza
politica omogenea.
Il
fascismo rappresentò appunto il “partito nazionale” capace di inquadrare le
masse, dopo averne distrutto i partiti tradizionali con la violenza delle
squadre.
Nacque
così il “diciannovismo”.
Allo
scopo di rammentare al meglio quel tragico passaggio storico e, nello stesso
tempo, lanciare un segnale d’allarme per l’oggi, si è pensato di ripubblicare
di seguito la prima parte del celebre
articolo scritto da Piero Gobetti sul “Fascismo autobiografia della Nazionale”
e comparso sulla rivista “Rivoluzione Liberale” del 23 novembre 1922, meno di
un mese dopo la Marcia su Roma.
Per
non dimenticare e per riflettere.
Tratto
da “Il Fascismo come autobiografia della
nazione” di Piero Gobetti
Il fascismo vuole
guarire gli Italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto
l'appello nominale, tutti i cittadini abbiano dichiarato di credere nella
patria, come se col professare delle convinzioni si esaurisse tutta la praxis
sociale. Insegnare a costoro la superiorità dell'anarchia sulle dottrine
democratiche sarebbe un troppo lungo discorso, e poi, per certi elogi, nessun
migliore panegirista della pratica.
L'attualismo, il
garibaldinismo, il fascismo sono espedienti attraverso cui l'inguaribile
fiducia ottimistica dell'infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo
le proprie misure.
La nostra polemica
contro gli italiani non muove da nessuna adesione a supposte maturità
straniere; né da fiducia in atteggiamenti protestanti o liberisti. Il nostro
antifascismo prima che un'ideologia, è un istinto.
Se il nuovo si può
riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antichi, il nostro vorrebbe
essere un pessimismo sul serio, un pessimismo da Vecchio Testamento senza
palingenesi, non il pessimismo letterario dei cristiani delusione di ottimisti.
La lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio.
Bisogna diffidare delle
conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il nostro
lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo
divulgarsi.
C'è un valore
incrollabile al mondo: l'intransigenza e noi ne saremmo, per un certo senso, in
questo momento, i disperati sacerdoti. Temiamo che pochi siano così
coraggiosamente radicali da sospettare che con queste metafisiche ci si possa
incontrare nel problema politico. Ma la nostra ingenuità è più esperta di
talune corruzioni e in certe teorie autobiografiche ha già sottinteso un
insolente realismo obbiettivo. Noi vediamo diffondersi con preoccupazione una
paura dell'imprevisto che seguiteremo a indicare come provinciale per non
ricorrere a più allarmanti definizioni. Ma di certi difetti sostanziali anche
in un popolo "nipote" di Machiavelli non sapremmo capacitarci, se
venisse l'ora dei conti. Il fascismo in Italia è un'indicazione di infanzia
perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'entusiasmo. Si può
ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d'ordinaria amministrazione.
Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l'autobiografia della nazione.