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domenica 24 marzo 2019

I SETTE VELI DEL FIUME SEVESO
di Arturo Calaminici



Non sono i sette veli di Salomè, né quelli che pudicamente coprono la verità del corpo sognato e delle membra struggenti di una dolce e sinuosa berbera; sono i veli che avvolgono la vergogna del torturato corpo naturale del fiume Seveso e di un progetto misero sotto ogni riguardo che, con l’ausilio di una comunicazione corriva e velinara, è presentato invece come la più naturale e conveniente soluzione ad un vecchio ed ignorato male: l’inzuppamento sistematico di Niguarda.
Il primo velo copre le piaghe di una lunga e perdurante storia di abbandono e di abuso a cui da molti decenni è sottoposto il fiume Seveso. Il Seveso è una terra di nessuno, oggetto di una devastazione senza scrupoli: le aree golenali quasi inesistenti, mangiate dalla crescita urbana, le distanze di sicurezza e di salvaguardia totalmente ignorate: molti edifici si spingono fino a fare da sponda al fiume; la legge è totalmente inapplicata e vige la piena libertà di inquinare e di lordare. La procura di Milano ha censito 1.420 scarichi abusivi su 1.505, ma sono passati quattro anni da allora e nessun potere costituito è intervenuto e nessuno scarico è stato riportato nell’ordine della legalità. Il sistema fognario, oltre che generalmente vecchio e inadeguato, è in alcune zone addirittura inesistente, e ci sono quindi zone ove i liquami dei caseggiati e delle fabbriche scaricano direttamente nel fiume; il sistema di depurazione in diverse parti, soprattutto nel Comasco, è addirittura mancante. Il risultato è che il Seveso è uno dei fiumi più inquinati e sporchi d’Italia e d’Europa, e che nei suoi confronti sono state comminate (seppur per il momento sospese) salatissime sanzioni economiche da parte della Commissione Europea.
Il fiume Seveso è un sistema idraulico inaudito. Nel tratto scoperto, fino alle porte di Milano, ha una portata di circa 140 mc/s (metri cubi al secondo), ma nella parte tombata ne possono passare (si vuole che ne passino) massimo 40: una sproporzione clamorosa. Inoltre, le acque del Seveso, dopo aver attraversato parte della città di Milano, vengono confuse con quelle della Martesana e tutte quante immesse nel canale Redefossi, che a sua volta ha una portata ancora più limitata, determinando una seconda strozzatura. Così, per evitare esondazioni e allagamenti nel centro di Milano, in piazza 5 Giornate e dintorni, si preferisce, si vuole, che le esondazioni avvengano nel Nord Milano, in periferia, a Niguarda e dintorni.


Il secondo velo copre la miseria culturale, tecnica e politica del Piano per la prevenzione delle esondazioni del fiume. Approvato nel 2014, il Piano è composto da quattro vasche (inizialmente cinque) di laminazione. Il ricorso alla soluzione delle vasche è avvenuto in seguito alle pesanti difficoltà incontrate dal piano precedente, che si basava sulla costruzione di canali scolmatori. Durante i lavori di raddoppio del canale di Nord-Ovest, unico canale esistente, giunti a Senago, dopo 3 km e dopo aver speso 12 milioni di euro, l’opera è stata improvvisamente interrotta per la ribellione e sollevazione delle popolazioni e delle amministrazioni dell’Abbiatense e del Ticino, giustamente allarmate per l’ulteriore apporto di veleni e di sporcizie che il raddoppio avrebbe comportato ai danni del Fiume Azzurro (sito di interesse comunitario). È allora, siamo a poco più di dieci anni fa, che è stata cambiata spalla al fucile e si è pensato, invece che avviare finalmente un’opera di riqualificazione e bonifica del fiume, di fare dei buchi nel terreno, riempiendoli di enormi quantità di acqua sporca. Il Piano prevede lo stoccaggio di 4,5 milioni di mc in vasconi grandi fino ad alcune decine di ettari, in stridente contrasto con la natura di questo territorio: la provincia di Milano, come abbiamo detto, è la seconda più urbanizzata e costruita d’Italia e la provincia di Monza addirittura ne detiene il non invidiabile primato. Perciò le aree per le vasche, non si sono potute reperire che dentro ai parchi regionali! Dov’è lo scandalo? Innanzitutto nel fatto di disfare i parchi. Dopo cinquant’anni di impegno e di lotte, arriva, per mano pubblica, l’ora della loro “decostruzione”? Si abbattono boschi con migliaia di piante per creare mostruose voragini, da riempire con acque avvelenate e melmose. Seconda aberrazione: le acque inadatte ad entrare nel Ticino, sono invece buone per essere stoccate addosso alle città, nel vivo del tessuto urbano, semmai a poche decine di metri da case, scuole, asili nido, come avverrebbe a Bresso con la costruzione della vasca nel Parco Nord. In terzo luogo è proprio la scelta delle vasche - di queste particolari vasche, in questo territorio così com’è e per questo fiume, non in generale - che è scandalosamente sbagliata, arretrata. C’è l’impiego di una idraulica fin troppo scontata e primitiva: faccio un buco e lo riempio d’acqua! Di acqua necessariamente sporca, perché i buchi li faccio a valle, per scaricare il fiume che si è gonfiato d’acqua piovana (che abbiamo prima mandato nelle fogne e poi nel fiume), creando le onde di piena e gli allagamenti… Per evitare di allagare Milano, costruiamo le vasche! C’è in questo una cultura dell’acqua, soprattutto quella piovana, che dire arretrata è poco: l’acqua piovana è concepita come un rifiuto (complicato da smaltire) e non come la più preziosa delle risorse naturali. Soprattutto, c’è una cultura anacronistica, sfasata, stridente coi tempi, non solo per l’evoluzione tecnico-scientifica e disciplinare dell’idraulica, ma anche rispetto alla insorgenza dei cambiamenti climatici e delle siccità sempre più ricorrenti… anche nella verde pianura padana.


Il terzo velo nasconde la realtà con una comunicazione manipolatoria e ingannevole. La vasca nel Parco Nord (è di essa che sono maggiormente informato) viene presentata, anche su autorevoli giornali, come un “ameno laghetto”, che solo poche volte all’anno e per pochi giorni svolgerebbe l’ingrato compito a cui è destinata, restando per il resto del tempo una piacevole realtà, che, come tutti gli altri laghetti esistenti, andrebbe ad inserirsi armoniosamente nel contesto del parco. Questa miasmatica vasca di laminazione, piccola rispetto alle altre, ma grande quanto quattro campi di calcio, è, così come prevede il progetto definitivo approvato, un buco profondo dieci metri, con pareti d’una pendenza del 66%, coperto al fondo da un solo metro d’acqua.  Immaginate, in pieno Parco Nord un’immane voragine con al fondo un metro d’acqua e sopra nove metri di vuoto: un baratro! Anche nei periodi diciamo buoni, non solo in quelli monsonici, l’ameno laghetto è un obbrobrio patentato!
 Il quarto velo riguarda la politica. Quando funziona e vuole fare le cose (e in questo caso si tratta appunto di “buona” politica, perché vuole impedire, come tutti vogliamo impedire, i disastrosi allagamenti di Niguarda e del Nord Milano), le fa comunque male, perché cerca soluzioni semplici e vecchie a problemi nuovi e complessi. E oltretutto le fa senza convinzione. Come ci hanno ripetuto in molti, tecnici e politici (mi riferisco ai numerosi incontri fatti dall’Associazione Amici Parco Nord, che ho l’onore di presiedere da molti anni): “Voi avete ragione, ma a noi hanno chiesto questo, e noi questo facciamo. Abbiamo progettato e ora costruiamo le vasche. Ci hanno detto di fare in fretta, e le vasche sono la cosa più veloce”. È vero? Il Piano avrebbe dovuto entrare in funzione, tutte assieme le cinque vasche, entro la fine del 2018, ad oggi è stato impiantato, ma poi smontato completamente un solo cantiere, quello per la vasca di Senago. Per il resto solo carte che sono passate da un ufficio all’altro! La cosa peggiore è che oggi i politici ci dicono: “È passato troppo tempo! E come si fa? Abbiamo i progetti approvati e i soldi ci sono: come possiamo tornare indietro?”. Allora, anche se ancora non una sola pietra è stata spostata, spendetele queste decine e decine di milioni! Pazienza se la medicina è sbagliata e ci fa ammalare di una malattia ancora peggiore; pazienza se si creano più problemi di quanti non se ne risolvono! È la politica bellezza!  
Ma c’è anche un vecchio problema. Lo chiamavamo “Milanocentrismo”, poi è stata fatta la Città Metropolitana e speravamo che Milano ne guarisse. Non pare. Se non sono stato chiaro preciso che stiamo parlando di un Piano Vasche per il Seveso che vale un po’ meno di un milione di mq, tipo scali ferroviari o Expo, da realizzare distruggendo aree di parchi regionali e mettendo in ballo più di 150 milioni di euro. Se non si trattasse del Far Nord, delle “remote” periferie e del “profondo” Hinterland, forse qualcosa e qualcuno si sarebbe mosso, uno straccio di dibattito si sarebbe aperto, qualche domanda si sarebbe sollevata. Invece niente, c’è solo un silenzio assordante, come si dice. Ma non mi riferisco soltanto all’insensibilità dell’Amministrazione comunale: basti pensare che nessuno dei comitati e associazioni, che da anni si battono contro questo scempio, ha avuto l’onore di essere ricevuto e ascoltato né dal precedente né dall’attuale sindaco di Milano! Mi riferisco però anche al mutismo, anzi alla indifferenza e distrazione di quella società civile che a Milano pur c’è e si fa sentire e temere; mi riferisco a quel ceto medio cosiddetto istruito, cognitivo, che si batte, dall’alto delle sue competenze e della sua influenza, come sta succedendo sulla questione dei Navigli e su altri temi. Io penso che questo narcisismo sia inaccettabile e che la questione che sollevo abbia uguale valenza culturale, urbanistica, politica delle altre, che sia insomma una grande questione e che meriterebbe ben altra attenzione.


Il quinto velo nasconde l’uso e l’abuso della legge. Il fiume Seveso è l’epitome di ogni sfregio alla legge: chiunque da decenni è libero di fare passare una canaletta nel terreno e sversare quel che gli pare, qualsiasi veleno, senza limiti, senza controlli e senza il benché minimo timore di essere chiamato a risponderne. La stessa Procura di Milano, quattro anni fa, indagando sulle responsabilità per disastro colposo, a seguito delle peggiori esondazioni del Seveso, ha accertato, come abbiamo detto, l’esistenza di un abusivismo assoluto, che, nel laissez faire più totale, non registra alcun intervento della pubblica amministrazione per porre un limite anche alla propria scandalosa inerzia. La magistratura, neppure essa è intervenuta. Così, oggi, come ieri, come sempre, restano ignoti i nomi dei responsabili dei 1.420 scarichi abusivi. Si badi che, come dice la stessa relazione tecnica del consulente del magistrato, l’apporto degli scarichi abusivi è del tutto significativo e incide per il 2o/25% sulla formazione delle piene. Peggio ancora, la Regione Lombardia fin dal 2005, con la legge urbanistica n. 12, è intervenuta contro il rischio idraulico introducendo una specifica normativa per l’applicazione della Invarianza Idraulica. Dopo undici anni, con l’articolo 7 della legge 4/2016, ha ribadito in modo ancora più chiaro e preciso l’obbligo della pratica dell’Invarianza. Se non che la Regione è essa stessa la titolare del Piano delle Vasche, cioè di qualcosa che è la negazione antitetica, per metodo e concetto, del principio dell’Invarianza. La mano destra non sa cosa fa la sinistra. Il primo a non applicare, ignorandole, le sue leggi è lo stesso Ente che le ha emanate! L’Invarianza idraulica è il principio secondo cui chi fa un intervento edilizio deve fare in modo di non scaricare a valle, cioè nelle fogne e quindi nel fiume, una quantità di acqua piovana maggiore rispetto a prima dell’intervento. La normativa ne disciplina, in modo più articolato, l’applicazione anche al tessuto urbano consolidato, alle case già costruite.
Le vasche di laminazione sono megaimpianti, che si costruiscono a valle del fiume, e si riempiono di acque comunque sporche, anche se il fiume fosse pulito, perché, quando ci sono i grandi eventi meteorici, le acque di fogna non entrano nel depuratore, ma scaricano direttamente nel fiume. Con l’invarianza si rovescia il ragionamento: il territorio e le singole proprietà si fanno carico di trattenere, almeno fino alla fine della situazione di criticità, le acque piovane, che quindi vengono raccolte a monte, con micro-impianti di acqua pulita (che eventualmente può essere riutilizzata) e perciò, evitando di mandare in fogna le acque piovane, viene evitata la stessa formazione delle onde di piena. Il problema si risolve alla radice. C’è da aggiungere che è consono al concetto dell’Invarianza, la necessità di avviare nelle aree urbane un processo di deimpermiabilizzazione e decementificazione, causa vera e prima del rischio idraulico. Insomma, forse esagerando, potremmo dire civiltà (una moderna cultura di governo delle acque) contro barbarie (la cultura dei padelloni indecenti).
Il sesto e settimo velo, per ovvie ragioni di spazio, per non approfittare sadicamente dei nostri eventuali lettori e, all’inverso, per non assecondarne troppo il voyeurismo, potremmo, se il direttore è d’accordo, sollevarli in un prossimo articolo.