di Arturo Calaminici
Non sono i sette veli di Salomè, né quelli che
pudicamente coprono la verità del corpo sognato e delle membra struggenti di
una dolce e sinuosa berbera; sono i veli che avvolgono la vergogna del
torturato corpo naturale del fiume Seveso e di un progetto misero sotto ogni
riguardo che, con l’ausilio di una comunicazione corriva e velinara, è
presentato invece come la più naturale e conveniente soluzione ad un vecchio ed
ignorato male: l’inzuppamento sistematico di Niguarda.
Il primo
velo
copre le piaghe di una lunga e perdurante storia di abbandono e di abuso a cui
da molti decenni è sottoposto il fiume Seveso. Il Seveso è una terra di nessuno, oggetto di una
devastazione senza scrupoli: le aree golenali quasi inesistenti, mangiate dalla
crescita urbana, le distanze di sicurezza e di salvaguardia totalmente
ignorate: molti edifici si spingono fino a fare da sponda al fiume; la legge è
totalmente inapplicata e vige la piena libertà di inquinare e di lordare. La
procura di Milano ha censito 1.420 scarichi abusivi su 1.505, ma sono passati
quattro anni da allora e nessun potere costituito è intervenuto e nessuno
scarico è stato riportato nell’ordine della legalità. Il sistema fognario,
oltre che generalmente vecchio e inadeguato, è in alcune zone addirittura
inesistente, e ci sono quindi zone ove i liquami dei caseggiati e delle fabbriche
scaricano direttamente nel fiume; il sistema di depurazione in diverse parti,
soprattutto nel Comasco, è addirittura mancante. Il risultato è che il Seveso è
uno dei fiumi più inquinati e sporchi d’Italia e d’Europa, e che nei suoi
confronti sono state comminate (seppur per il momento sospese) salatissime
sanzioni economiche da parte della Commissione Europea.
Il fiume Seveso è un sistema idraulico inaudito. Nel tratto
scoperto, fino alle porte di Milano, ha una portata di circa 140 mc/s (metri
cubi al secondo), ma nella parte tombata ne possono passare (si vuole che ne passino)
massimo 40: una sproporzione clamorosa. Inoltre, le acque del Seveso, dopo aver
attraversato parte della città di Milano, vengono confuse con quelle della
Martesana e tutte quante immesse nel canale Redefossi, che a sua volta ha una
portata ancora più limitata, determinando una seconda strozzatura. Così, per
evitare esondazioni e allagamenti nel centro di Milano, in piazza 5 Giornate e dintorni,
si preferisce, si vuole, che le esondazioni avvengano nel Nord Milano, in periferia,
a Niguarda e dintorni.
Il
secondo velo copre la miseria culturale, tecnica e politica del
Piano per la prevenzione delle esondazioni del fiume. Approvato nel 2014, il
Piano è composto da quattro vasche (inizialmente cinque) di laminazione. Il
ricorso alla soluzione delle vasche è avvenuto in seguito alle pesanti difficoltà
incontrate dal piano precedente, che si basava sulla costruzione di canali
scolmatori. Durante i lavori di raddoppio del canale di Nord-Ovest, unico
canale esistente, giunti a Senago, dopo 3 km e dopo aver speso 12 milioni di
euro, l’opera è stata improvvisamente interrotta per la ribellione e sollevazione
delle popolazioni e delle amministrazioni dell’Abbiatense e del Ticino, giustamente
allarmate per l’ulteriore apporto di veleni e di sporcizie che il raddoppio
avrebbe comportato ai danni del Fiume Azzurro (sito di interesse comunitario). È allora,
siamo a poco più di dieci anni fa, che è stata cambiata spalla al fucile e si è
pensato, invece che avviare finalmente un’opera di riqualificazione e bonifica
del fiume, di fare dei buchi nel terreno, riempiendoli di enormi quantità di
acqua sporca. Il Piano prevede lo stoccaggio di 4,5 milioni di mc in vasconi
grandi fino ad alcune decine di ettari, in stridente contrasto con la natura di
questo territorio: la provincia di Milano, come abbiamo detto, è la seconda più
urbanizzata e costruita d’Italia e la provincia di Monza addirittura ne detiene
il non invidiabile primato. Perciò le aree per le vasche, non si sono potute
reperire che dentro ai parchi regionali! Dov’è lo scandalo? Innanzitutto nel
fatto di disfare i parchi. Dopo cinquant’anni di impegno e di lotte, arriva,
per mano pubblica, l’ora della loro “decostruzione”? Si abbattono boschi con
migliaia di piante per creare mostruose voragini, da riempire con acque
avvelenate e melmose. Seconda aberrazione: le acque inadatte ad entrare nel
Ticino, sono invece buone per essere stoccate addosso alle città, nel vivo del
tessuto urbano, semmai a poche decine di metri da case, scuole, asili nido,
come avverrebbe a Bresso con la costruzione della vasca nel Parco Nord. In
terzo luogo è proprio la scelta delle vasche - di queste particolari vasche, in
questo territorio così com’è e per questo fiume, non in generale - che è
scandalosamente sbagliata, arretrata. C’è l’impiego di una idraulica fin troppo
scontata e primitiva: faccio un buco e lo riempio d’acqua! Di acqua
necessariamente sporca, perché i buchi li faccio a valle, per scaricare il fiume
che si è gonfiato d’acqua piovana (che abbiamo prima mandato nelle fogne e poi
nel fiume), creando le onde di piena e gli allagamenti… Per evitare di allagare
Milano, costruiamo le vasche! C’è in questo una cultura dell’acqua, soprattutto
quella piovana, che dire arretrata è poco: l’acqua piovana è concepita come un
rifiuto (complicato da smaltire) e non come la più preziosa delle risorse
naturali. Soprattutto, c’è una cultura anacronistica, sfasata, stridente coi
tempi, non solo per l’evoluzione tecnico-scientifica e disciplinare
dell’idraulica, ma anche rispetto alla insorgenza dei cambiamenti climatici e delle
siccità sempre più ricorrenti… anche nella verde pianura padana.
Il terzo
velo
nasconde la realtà con una comunicazione manipolatoria e ingannevole. La vasca
nel Parco Nord (è di essa che sono maggiormente informato) viene presentata, anche
su autorevoli giornali, come un “ameno laghetto”, che solo poche volte all’anno
e per pochi giorni svolgerebbe l’ingrato compito a cui è destinata, restando
per il resto del tempo una piacevole realtà, che, come tutti gli altri laghetti
esistenti, andrebbe ad inserirsi armoniosamente nel contesto del parco. Questa
miasmatica vasca di laminazione, piccola rispetto alle altre, ma grande quanto
quattro campi di calcio, è, così come prevede il progetto definitivo approvato,
un buco profondo dieci metri, con pareti d’una pendenza del 66%, coperto al
fondo da un solo metro d’acqua. Immaginate,
in pieno Parco Nord un’immane voragine con al fondo un metro d’acqua e sopra nove
metri di vuoto: un baratro! Anche nei periodi diciamo buoni, non solo in quelli
monsonici, l’ameno laghetto è un obbrobrio patentato!
Il quarto velo riguarda la politica. Quando funziona e vuole fare le cose (e in questo caso si tratta
appunto di “buona” politica, perché vuole impedire, come tutti vogliamo
impedire, i disastrosi allagamenti di Niguarda e del Nord Milano), le fa comunque
male, perché cerca soluzioni semplici e vecchie a problemi nuovi e complessi. E
oltretutto le fa senza convinzione. Come ci hanno ripetuto in molti, tecnici e
politici (mi riferisco ai numerosi incontri fatti dall’Associazione Amici Parco
Nord, che ho l’onore di presiedere da molti anni): “Voi avete ragione, ma a noi
hanno chiesto questo, e noi questo facciamo. Abbiamo progettato e ora costruiamo
le vasche. Ci hanno detto di fare in fretta, e le vasche sono la cosa più
veloce”. È vero? Il
Piano avrebbe dovuto entrare in funzione, tutte assieme le cinque vasche, entro
la fine del 2018, ad oggi è stato impiantato, ma poi smontato completamente un
solo cantiere, quello per la vasca di Senago. Per il resto solo carte che sono
passate da un ufficio all’altro! La cosa peggiore è che oggi i politici ci
dicono: “È passato
troppo tempo! E come si fa? Abbiamo i progetti approvati e i soldi ci sono:
come possiamo tornare indietro?”. Allora, anche se ancora non una sola pietra è
stata spostata, spendetele queste decine e decine di milioni! Pazienza se la
medicina è sbagliata e ci fa ammalare di una malattia ancora peggiore; pazienza
se si creano più problemi di quanti non se ne risolvono! È la
politica bellezza!
Ma c’è anche un vecchio problema. Lo chiamavamo “Milanocentrismo”,
poi è stata fatta la Città Metropolitana e speravamo che Milano ne guarisse.
Non pare. Se non sono stato chiaro preciso che stiamo parlando di un Piano
Vasche per il Seveso che vale un po’ meno di un milione di mq, tipo scali
ferroviari o Expo, da realizzare distruggendo aree di parchi regionali e mettendo
in ballo più di 150 milioni di euro. Se non si trattasse del Far Nord, delle “remote” periferie e del
“profondo” Hinterland, forse qualcosa e qualcuno si sarebbe mosso, uno straccio
di dibattito si sarebbe aperto, qualche domanda si sarebbe sollevata. Invece
niente, c’è solo un silenzio assordante, come si dice. Ma non mi riferisco
soltanto all’insensibilità dell’Amministrazione comunale: basti pensare che nessuno
dei comitati e associazioni, che da anni si battono contro questo scempio, ha
avuto l’onore di essere ricevuto e ascoltato né dal precedente né dall’attuale
sindaco di Milano! Mi riferisco però anche al mutismo, anzi alla indifferenza e
distrazione di quella società civile che a Milano pur c’è e si fa sentire e
temere; mi riferisco a quel ceto medio cosiddetto istruito, cognitivo, che si
batte, dall’alto delle sue competenze e della sua influenza, come sta
succedendo sulla questione dei Navigli e su altri temi. Io penso che questo
narcisismo sia inaccettabile e che la questione che sollevo abbia uguale
valenza culturale, urbanistica, politica delle altre, che sia insomma una
grande questione e che meriterebbe ben altra attenzione.
Il quinto
velo
nasconde l’uso e l’abuso della legge. Il fiume Seveso è l’epitome di ogni
sfregio alla legge: chiunque da decenni è libero di fare passare una canaletta
nel terreno e sversare quel che gli pare, qualsiasi veleno, senza limiti, senza
controlli e senza il benché minimo timore di essere chiamato a risponderne. La stessa
Procura di Milano, quattro anni fa, indagando sulle responsabilità per disastro
colposo, a seguito delle peggiori esondazioni del Seveso, ha accertato, come
abbiamo detto, l’esistenza di un abusivismo assoluto, che, nel laissez faire più totale, non registra
alcun intervento della pubblica amministrazione per porre un limite anche alla
propria scandalosa inerzia. La magistratura, neppure essa è intervenuta. Così,
oggi, come ieri, come sempre, restano ignoti i nomi dei responsabili dei 1.420
scarichi abusivi. Si badi che, come dice la stessa relazione tecnica del
consulente del magistrato, l’apporto degli scarichi abusivi è del tutto significativo
e incide per il 2o/25% sulla formazione delle piene. Peggio ancora, la Regione Lombardia
fin dal 2005, con la legge urbanistica n. 12, è intervenuta contro il rischio
idraulico introducendo una specifica normativa per l’applicazione della
Invarianza Idraulica. Dopo undici anni, con l’articolo 7 della legge 4/2016, ha
ribadito in modo ancora più chiaro e preciso l’obbligo della pratica
dell’Invarianza. Se non che la Regione è essa stessa la titolare del Piano
delle Vasche, cioè di qualcosa che è la negazione antitetica, per metodo e
concetto, del principio dell’Invarianza. La mano destra non sa cosa fa la
sinistra. Il primo a non applicare, ignorandole, le sue leggi è lo stesso Ente
che le ha emanate! L’Invarianza idraulica è il principio secondo cui chi fa un
intervento edilizio deve fare in modo di non scaricare a valle, cioè nelle
fogne e quindi nel fiume, una quantità di acqua piovana maggiore rispetto a
prima dell’intervento. La normativa ne disciplina, in modo più articolato, l’applicazione
anche al tessuto urbano consolidato, alle case già costruite.
Le vasche di laminazione sono megaimpianti, che si
costruiscono a valle del fiume, e si riempiono di acque comunque sporche, anche
se il fiume fosse pulito, perché, quando ci sono i grandi eventi meteorici, le
acque di fogna non entrano nel depuratore, ma scaricano direttamente nel fiume.
Con l’invarianza si rovescia il ragionamento: il territorio e le singole
proprietà si fanno carico di trattenere, almeno fino alla fine della situazione
di criticità, le acque piovane, che quindi vengono raccolte a monte, con micro-impianti
di acqua pulita (che eventualmente può essere riutilizzata) e perciò, evitando
di mandare in fogna le acque piovane, viene evitata la stessa formazione delle
onde di piena. Il problema si risolve alla radice. C’è da aggiungere che è
consono al concetto dell’Invarianza, la necessità di avviare nelle aree urbane
un processo di deimpermiabilizzazione e decementificazione, causa vera e prima
del rischio idraulico. Insomma, forse esagerando, potremmo dire civiltà (una
moderna cultura di governo delle acque) contro barbarie (la cultura dei
padelloni indecenti).
Il sesto
e settimo velo, per ovvie ragioni di spazio, per non approfittare
sadicamente dei nostri eventuali lettori e, all’inverso, per non assecondarne
troppo il voyeurismo, potremmo, se il direttore è d’accordo, sollevarli in un
prossimo articolo.