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venerdì 1 marzo 2019

LA FORZA DEL DIALETTO
di Gianni Zambianchi


Gianni Zambianchi

In che lingua, in che perso dialetto?
Mario Luzi

Socrate nel Teeteto di Platone racconta che Talete, mentre mirava le stelle e gli occhi aveva rivolti ad esse, cadde in un pozzo. Una servetta spiritosa che lì si trovava lo motteggiò dicendogli che delle cose del cielo si dava pena d'indagare ma di quelle che aveva davanti e sotto i piedi non si curava. Per molti ancor oggi il dialetto è un incespo; un qualcosa di sconosciuto, di basso non meritevole d'attenzione. Poco importa se una moltitudine di poeti neodialettali, anni Settanta-Ottanta, l'hanno innalzato a poesia, andando oltre i modelli bozzettistici e d'occasione; Raffaello Baldini, Ferdinando Cogni, Mirco Maffini, Tonino Guerra, Biagio Marin, Franco Scataglini, Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini, per citarne alcuni. Da lingua del fare a lingua della poesia. Il vernacolo è il gergo degli umili, dei diseredati, la lingua del latte, della terra e delle radici; appartiene alla terrigna franchezza del volgo. Il poeta siciliano Buttitta sosteneva che: «un popolu, diventa poviru e servu,  quannu ci arrobbanu la lingua...». Il dialetto appartiene all'inconscio collettivo di un popolo, è la ramazza del quotidiano, la misura della disperazione e della gioia, della mortificazione e della ribellione; idioma delle origini e gran sarto che veste su misura. Strappato all'oralità cui esso appartiene per natura e riproposto come scrittura era inevitabile che si contrapponesse alla lingua nazionale - il fiorentino letterario trecentesco - lingua estranea, artefatta ed imposta, seppur bella. Chi ha frequentato la scuola di Stato ben sa quanto sui dialetti si mantenessero gravi forme di pregiudizio, in quanto ritenuti idiomi inferiori alla lingua, sia esteticamente che espressivamente; il suo uso, seppur limitato in qualche scritto, comportava la sottolineatura con lapis rosso e penalizzazione di mezzo voto. Il ventennio fascista evidenziò ulteriormente il contrasto fra lingua nazionale e dialetti, fra prosopopea, grondante retorica di regime, e la cruda schiettezza dei secondi.
Tradurre la parlata piacentina in scrittura non è facile, e pure la lettura presenta difficoltà; occorre conoscere i grafemi - segni - che servono a riprodurre i suoni - fonemi - della lingua; l'uso delle dieresi sulle vocali e l'accento grave e acuto per declinare l'apertura o la chiusura delle stesse. I poeti locali che si sono cimentati nella scrittura della parlata piacentina, da Vincenzo Capra a Valente Faustini, da Egidio Carella a Ferdinando Cogni, presentano notevoli difformità di scrittura; ma in ognuno v' è un sistema  coerente e dirimente che non si contraddice. La polemica sugli strafalcioni - errori di pronuncia - poco interessano; interessano dettato, orientamento e sostanza. Se mancano poco servono pronuncia e scrittura.

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Catulu     
                                                             
Végna vóia a un puéta                                        
tradüs un puéta c'agh piès,                                    
vurìsal sáital ind la sò láigua natèl.                      
Necesèri 'l mumáit, ma l'é trop rèr!                      
Fenumenèl difàti,                                                  
epür mè ò pruè e 'g l'ò fàta!                                    


Catullo

Viene vòglia a un poeta
tradurre un poeta che gli piace,
volérselo sentire nella sua lingua natale.
Necessario il momento, ma è troppo raro!
Fenomenale infàtti,
eppure io ò provato e ce l'ò fatta!

[Ferdinando Cogni]