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domenica 7 aprile 2019

IL RIGORE DI UNO STILE

A destra il filosofo Fulvio Papi
Foto: Fabiano Braccini
(Milano, 7 luglio 2014)

Non capita di frequente, anzi è alquanto raro di questi tempi, che qualcuno si prenda la briga di leggere e rileggere più volte il libro di un autore e di annotarlo, commentarlo, soffermarsi su ogni verso, e addirittura su ogni singola parola, con la curiosità di carpirne non solo il significato più profondo, la radice, ma di assaporarne il suono, l’eco dei suoi molteplici rimandi, le contaminazioni. Perché qui si tratta di un testo in versi, ma di versi scritti in lingua dialettale, in lingua mater, come è detto nel titolo, nella mia lingua mater calabrese, e dunque poco invitante o di non facile accesso, ed il lettore non è per nulla originario di quella terra, tutt’altro. Il lettore in questione è fondamentalmente un filosofo, anche se di interessi molteplici, e alla letteratura e ai suoi protagonisti ha dedicato non pochi preziosi studi. Sto parlando di Fulvio Papi, forse il più anziano dei nostri filosofi, e di sicuro il più lucido e acuto. Questa che segue è solo una delle sue minuziose letture critiche inviatemi, ed era doveroso per me pubblicarla, anche per dare conto di uno stile e di una civiltà intellettuale, in gran parte scomparsi.  
[Angelo Gaccione] 


UNA LETTERA DI FULVIO PAPI SU LINGUA MATER

La copertina del libro
Macabor Edizioni


Carissimo Angelo,

ho riletto le tue poesie. Tutte le tue osservazioni che fai nella “ouverture” le conosco bene, l’orale è ancora più difficile dello scritto che ha un codice di superficie che, per esempio, a una lettura non difficile, si può tradurre bene. La poesia orale è soggetta alle mutazioni dell’orale che non è riducibile a un dizionario. L’orale ha una sua consistenza, ma anche una sua contingenza, proprio perché è un “flatus vocis”. Per esempio: in triestino posso dire: “ma va là mona”. E “mona” vuol dire “illuso”; ma se dico “te xe un mona”, mona in milanese viene bene con “pirla”. Eppure il significato (alla Sansoni) è lo stesso.
La lingua nella quale scrivi le poesie non ha scrittura e quindi non ha regole codificate che derivano dalla tradizione e dalla contemporaneità e che, nell’astrazione, definiscono il significato. Ma, com’è ovvio, una lingua non è mai chiusa, come non sono chiusi i significati. Una lingua orale ha processi simili ma con un ritmo temporale diverso, a meno che da altre influenze linguistiche non venga sollecitata. Lo scritto in una prosa non poetica può essere sbagliato poiché ha conformità. L’orale non sbaglia mai perché il suo controllo è sociale, sta nello scambio. La tua poesia ovviamente non sbaglia mai, non può sbagliare e tuttavia, sebbene abbia la sua verità nello scambio delle forme di esistenza dominanti, è pur tuttavia soggetta a una memoria.
Tu scrivi in un sapere linguistico che ha una memoria, supponi (per lo più giustamente) che il destinatario della tua lingua, comprenda. E pure è un tesoro linguistico che appartiene alla tua storia: basta che fai la prova con eventuali somiglianze di significato. Se questa “realtà” della lingua di partenza è sempre difficile, in teoria bisognerebbe tentare la simulazione della lingua di partenza, ma questo è impossibile. Non ci sono vite uguali e nemmeno lingue. Bisogna ricorrere alla lingua d’arrivo così codificata e lavorarla sulle possibilità di significato che si avvicinino all’originale. La lingua di puro “servizio comunicativo” perde necessariamente la poesia, questa è la ragione per cui Quasimodo e molti altri sostengono che la traduzione di una poesia è un’altra poesia.
Nel caso tuo (rispetto ai lirici greci di Quasimodo) c’è il vantaggio che prevede la direzione gnomica e quindi è più facile trovare il livello di transito linguistico. In ogni caso bisogna diffidare rispetto a quello che “viene in mente” che è sempre facile e riduttivo. E volta per volta, studiando lo spessore significante della partenza e quello possibile dell’arrivo, cercare la soluzione più idonea, non dimenticando nemmeno l’effetto sonoro che fa parte della trasmissione del significato poetico.
È con tutte queste certezze che ho letto le tue poesie, per di più con l’ostacolo che metti innanzi a tutte queste osservazioni, quando dici: ho scelto un linguaggio “alla Gaccione”. Va bene, eppure una parola ha una sacralità: “se io dico che due ministri sono dei volgari imbecilli”, devo suppore che chi ascolta ne tenga conto. La parola è costretta ad illuminare, “alla Gaccione” è la selezione poetica che viene a galla nel contesto poetico, al di là di ogni codice orale dialettale.
Fulvio Papi