di Fulvio Papi
Aveva certamente ragione Umberto Eco quando
affermava che nel medio evo attraverso le Università (immaginiamo, per esempio
la linea Bologna, Parigi, Oxford) si era formata una unità europea. A condurre
a questo risultato non era certamente un proposito politico, ma piuttosto la
materia stessa dell’insegnamento europeo che aveva al suo centro, come
esplicazione, commento e confutazione, l’opera di Aristotele. Fu un insegnamento
europeo che durò per secoli, sino alla soglia dell’Illuminismo. Un elemento
unificante era certamente il latino come lingua “scientifica” dell’istituzione
universitaria che coesisteva con le lingue “nazionali”, le quali avevano la
loro diffusione nelle opere letterarie e politiche i cui lettori, una minoranza
alfabetica, parlavano e leggevano in volgare, in contrasto tuttavia con la
liturgia religiosa che manteneva il latino per tutte le sue pratiche. Come
esempio del rapporto, durato a lungo, tra latino “scientifico” e lingua
nazionale si può ricorrere a Kant la cui opera scientifica giovanile di
carattere cosmologico era scritta in tedesco, mentre le dissertazioni
universitarie erano rigorosamente compilate in latino.
Queste considerazioni sull’esistenza di fatto di un’area
scientifica europea, non hanno niente a che vedere con la problematica di
un’unità politica europea. Lo sviluppo storico avrebbe segnato il conflitto
permanente tra le grandi unità statali come la Spagna, la Francia,
l’Inghilterra e le interminabili guerre di religione. Anche quando fu trovato
con la formula “cuius regio, eius religio” una pacificazione religiosa era
esattamente l’opposto di un’unità politica europea. Se poi passiamo al periodo napoleonico
e alla sua sconfitta storica, la Restaurazione era costituita da potenze
alleate reciprocamente riconosciute come legittimi Stati monarchici. Sarà nel
successivo periodo delle rivendicazioni istituzionali che i principi del
liberalismo politico ebbero una dimensione europea senza peraltro che l’azione
politica varcasse i confini degli Stati nazionali, almeno dal punto di vista di
un’azione politica che potesse andare oltre i limiti di un proposito
intellettuale.
Nel famoso periodo della “lunga pace” - tra il 1870 e il 1914 -
nei bilanci di grandi stati europei dopo l’unificazione tedesca, le spese
militari erano molto rilevanti, e, anche in Austria, se si sta al racconto di
Musil, un generale dello stato maggiore - interprete di un’opinione comune -
auspicava un allargamento della spesa pubblica per ammodernare l’apparato
militare dell’artiglieria. La lunga latenza riguardo a una aperta
conflittualità aveva un freno pacifista nel notevole sviluppo economico e
sociale che era comune ai grandi stati europei. E aveva però due punti molto
importanti di conflittualità: l’uno relativo alla competizione per una egemonia
europea; l’altro per l’estensione del proprio dominio coloniale, comunque, in
ogni caso, inferiore all’impero britannico costruito con l’assoluta prevalenza
sui mari. Un’unità europea c’era certamente, ma non riguardava lo statuto politico
delle potenze europee, quanto il modo schiavistico e razzista con cui dalle
centrali europee si guardava all’Africa, una terra e una popolazione che acquistavano
un senso storico una volta che fosse realizzato il dominio colonialista,
considerato politicamente come uno “spazio vitale” e ideologicamente come
un’espansione della civiltà. Una terra e una popolazione (se pure con strategie
diverse) che erano considerate più prossime all’universo naturale come luogo di
sfruttamento, che alla forma elaborata dai riti della civiltà. Nella
competizione imperialistica vi era dunque una solidarietà eurocentrica
rappresentata ideologicamente come processo di civilizzazione. Il vecchio Kant
pensava che lo sviluppo economico commerciale dei paesi europei avrebbe
consentito di raggiungere la pace. Ma la sua previsione era sbagliata poiché in
ogni potenza europea vi era stato nell’Ottocento lo sviluppo della conoscenza
scientifica, una vasta applicazione tecnica, un aumento della produzione e una
trasformazione della vita sociale. Lo spirito e le prassi positivistiche
univano l’Europa nella medesima direzione verso uno sviluppo simile. Ma questa
omogeneità non escludeva affatto una sotterranea, e pure esplosiva,
competizione degli stati come potenze. Rispetto alla famosa analisi degli stati
nazionali come realtà storico-etiche in potenziale conflitto, si univa
storicamente un nuovo decisivo aspetto materiale.
Francesco Albani "Il ratto d'Europa" |
Gli stati europei miravano ad una propria dimensione imperiale
che dava all’età la connotazione di una rivalità politica nel dominio del
mondo: la nuova epoca in cui la solidarietà eurocentrica (come nel caso della
guerra alla Cina di fine Ottocento) si trasformava in un conflitto
imperialistico.
La Prima guerra mondiale fu l’epilogo tragico di questa
precedente storia: gli stati-potenza parlarono il loro linguaggio militare e
le stragi della guerra venivano simbolizzate dall’affermazione di un
nazionalismo sfrenato nel quale eran travolti tutti i valori internazionali, a
cominciare da quello socialista che, nell’alleanza della classe operaia
europea, poneva una garanzia di pace fondata sul lavoro. Ma l’Europa non
esistette nemmeno più a livello della comunità intellettuale che si trovò
schierata accanto al potere degli stati, sostenendone le ragioni politiche. Su
un celebre libro di Julien Benda questo schieramento fu denunciato come “il
tradimento dei chierici”: la cultura aveva rinnegato il suo valore “spirituale”
per il quale non valgono i confini, per divenire - al contrario - una voce di propaganda
nazionalista.
In Italia Croce, che aveva sostenuto la libertà filosofica,
pur dichiarando la sua fedeltà di cittadino allo stato, fu accusato da qualcuno
di sentimenti filo-tedeschi. A Romain Rolland con il suo celebre saggio Al di
sopra della mischia costò l’accusa di tradimento. In Germania l’Università
tedesca, salvo alcune rare eccezioni, diede un totale appoggio alla politica
del Kaiser sostenendo l’identità tedesca con il famoso termine di “Kultur”
opposto alla società pragmatica ed esteriore degli altri paesi europei, un
radicale nazionalismo che, come è noto, ebbe persino la sua eco nel libro di
Thomas Mann pubblicato nel 1918. E poi fu molto difficile, nel dopoguerra,
ristabilire una corrispondenza tra le due culture, francese e tedesca. Negli
anni Venti furono piuttosto gli intellettuali americani da Gertrude Stein a
Hemingway a rivalutare lo “spirito” della cultura europea al di là del loro
ambiente d’origine negli Stati Uniti, troppo condizionato dal potere e dalla
cultura economica.
Quale immensa catastrofe con 60 milioni di morti sia stata la Seconda
guerra mondiale, è noto a tutti, se pure con una memoria che appare un poco
appannata. Non c’è dubbio che il conflitto sia stato la distruzione dell’Europa,
dovuta all’aggressività del regime autoritario e razzista della Germania. Solo
il pacifismo cieco della Francia e dell’Inghilterra poteva ritenere che l’equilibrio
europeo rimanesse stabile dopo i trattati del 1919. L’Europa, al contrario, era
destinata a una strage ancora molto più grave di quella della guerra mondiale
1914-1918. Ma la distruzione, l’azzeramento selvaggio delle nostre risorse
umane e civili produceva, a sua volta, un nuovo inizio. Nella Resistenza
all’occupazione nazista vide impegnate nuove energie combattive dalla Norvegia
alla Francia, dalla Francia all’Italia, alla Slovenia, alla Grecia. Ogni
formazione combattente aveva certamente un suo particolare alone ideologico, ma
in tutta la Resistenza europea appariva sempre in primo piano la parola
‘libertà’. Forse la celebre poesia di Éluard sulla libertà può rievocare lo spirito
che questa parola aveva in ogni forza insorta contro il nazismo. Si può dire,
un poco letteralmente, che nella guerra di liberazione l’idea (trascendentale)
di libertà segnava spontaneamente un’unità dell’Europa. Naturalmente poi, in
periodo di pace, la libertà assunse le forme politiche, costituzionali e
giuridiche che erano possibili secondo le tradizioni e le condizioni effettuali
in cui si trovava ogni singolo paese. Quello che nella resistenza al nazismo
era stato una uniformità europea, ritornava ad essere il problema politico
dell’unità europea secondo disegni e propositi che erano maturati prima e
durante la guerra. Per l’Italia il famoso “Manifesto di Ventotene”.
Questi brevi cenni storici, del resto ampiamente noti, possono
spiegare come il desiderio confuso, ma reale, intorno ad un’unità europea che
fosse la garanzia di un futuro di pace, costituisse un sentimento diffuso, nel
mentre nei paesi occidentali, destinati all’influenza americana da precedenti
accordi internazionali, la libertà come movimento di liberazione, prendeva la
forma di strutture statali di natura liberaldemocratica, anch’esse da
interpretare secondo le concrete condizioni storiche che davano un costume
sociale vivente alle strutture politiche di natura formale. Come vedremo sarà
lo sviluppo economico e tecnologico mondiale con i suoi plurali effetti
sociali, a creare le condizioni di crisi di questo assestamento politico e dei
suoi elementi costitutivi.
Il problema di un’unità europea prendeva corpo come era
possibile in una scena mondiale dominata dalla guerra fredda e dalle pericolose
tentazioni che essa provocava nello spazio mondiale, con circostanze di guerra
tradizionale come nel caso del conflitto in Corea. Se non si tiene presente lo
scenario internazionale con la collocazione politica dell’Europa occidentale
già nel 1949 nell’alleanza atlantica, non si possono capire i primi passi verso
l’unità europea e la modernità intellettuale che ne voleva garantire
l’attualità in una rievocazione di una radice culturale comune.
Infatti a livello della argomentazione politica il Trattato di
Roma del 1954, la cui importanza non va affatto sottovalutata, comunque siano
accaduti i fatti successivi, si presentò soprattutto come una interpretazione
politica di una unità culturale europea. Essa si andava lentamente
ricostruendo, sulla base sottintesa di un’unità dalla spinta europea, come
eredità della complessa tessitura della sua storia. Tant’è che il Trattato fu
preceduto dalla “Convenzione culturale europea”. Naturalmente vi furono non
pochi tentativi di precisare quale tradizione fosse in posizione preminente: la
cultura religiosa, illuminista, storica o scientifica. Iniziative, anche dal
punto di vista teorico piuttosto futili se si ha un’immagine corretta e
problematica dei processi storici, ma soprattutto ignare che la rivendicazione
di uno spazio ‘spirituale’ era l’unica risorsa politica spendibile per
un’identità europea nel quadro politico dominante. Non è qui il luogo (e non vi
è nemmeno la competenza) per esaminare gli sviluppi di quello che appariva come
un processo progressivo di unificazione europea. Ma è certo che l’Europa
occidentale per molti anni continuò a rappresentare la linea avanzata per il
contenimento di una possibile espansione sovietica, caso molto poco probabile,
per il contrasto della sua possibile influenza nel mondo occidentale. In questa
situazione l’Europa fu il territorio nel quale si dislocarono alcune
fondamentali misure militari americane. Era l’equilibrio della reciproca minaccia
atomica con un vantaggio economico europeo che forse non è stato considerato in
tutta la sua importanza. Le rovine della guerra e le sue condizioni di vita
alla fine degli anni Quaranta erano già superate, e si aveva l’impressione che
la vita economica e sociale stesse già superando i livelli che erano propri
degli anni Trenta. A consentire questa rapida ricostruzione, come sanno tutti,
fu il Piano Marshall che fornì i mezzi finanziari indispensabili, insieme
all’insediamento politico e militare in Europa da parte degli Stati Uniti.
Contemporaneamente nacque quella situazione che fu considerata come la difesa
europea tramite l’ombrello atomico americano. Per quanto riguarda l’Europa
questa situazione comportò la circostanza economica che le spese militari
fossero ridotte al minimo, e una parte rilevante del bilancio statale garantiva
una spesa pubblica in direzione di un ammodernamento della produzione nelle
infrastrutture e nei consumi di un paese, si diceva, a economia mista, ma in
realtà indirizzato verso un generalizzato stile capitalistico.
In questo quadro comune ai paesi europei si manifestarono due
fenomeni importanti e, in certo senso connessi tra loro: all’interno della vita
nazionale aumentava il peso pubblico e sociale della componente socialdemocratica,
in politica estera nasceva il problema di un coordinamento del mercato europeo
attraverso una razionalizzazione dei vari fattori che ne costituiscono la
realtà economica. Iniziava un processo che veniva spesso interpretato come la
strada per l’unificazione europea. Cattaneo, sulla base della sua esperienza
sosteneva che era più facile federare degli stati che dei singoli paesi. La storia europea - che questa nota non può
certamente evocare - non fu così. E l’immaginazione di un’Europa come soggetto
politico unitario con una regolamentazione comune degli elementi che regolano
la vita sociale e una propria politica estera, rimase appunto una
immaginazione. L’unificazione della moneta che favoriva (chi più chi meno) le
condizioni di stabilità del mercato fu una misura importante, man non cambiò
per nulla, come era ovvio, la possibilità europea di affrontare i fenomeni che
caratterizzavano una nuova epoca: il processo di globalizzazione economica che
metteva in crisi rapporti economici e sociali stabilizzati, la crisi che
derivava dal processo ben noto di una finanziarizzazione del capitale di contro
al suo impiego produttivo, gli effetti sociali della trasformazione tecnologica
del lavoro, il fenomeno epocale dell’emigrazione. Una situazione che non aveva
più nulla in comune con l’inizio degli anni Cinquanta e che mostrava come
l’unità europea non fosse diventata affatto una struttura storica, ma soltanto
un insieme di accordi legislativi che interessavano i singoli stati. Tant’è che
di fronte ai problemi mondiali che abbiamo ricordato rinascevano le figure
storiche e le convinzioni politiche relative agli stati nazionali. Rinascevano
forme culturali e socialmente identitarie che, probabilmente, avevano
costituito il sottosuolo, mai scomparso, della propria storia. Nel momento in
cui l’intelligenza politica mostrava, nell’astrazione, del resto corretta, dei
suoi propositi, che solo un’Europa unita avrebbe potuto esistere come realtà
storica, nel mondo contemporaneo ormai minacciato definitivamente da un
collasso del sistema naturale (colpa d’origine dell’ideologia economica della
nostra storia).
Se qualcuno avesse dubbi su quello che temo come il tramonto
dell’Europa (le civiltà si costituiscono con i mezzi materiali che esistono)
cercherò di richiamare facilmente come in generale funziona questo organismo
che tuttavia è una forma dell’unità europea. Le leggi che vengono approvate a
livello europeo derivano tutte dalle decisioni della Commissione europea, un
organismo dominato da una seria competenza burocratica, culturalmente liberista
per solida educazione, operativamente onnipotente. Questo organismo delibera
norme che possono essere in contrasto con le norme di stati che fanno parte
dell’unità europea. Sono leggi importanti che riguardano per lo più i rapporti
commerciali e alcune istituzioni sociali, ma che sono altresì impositive per
quanto riguarda l’equilibrio di bilancio degli stati. Sono temi complessi i
quali, in attesa (un po’ immaginaria) di modifiche, richiedono competenze molto
rigorose e non chiacchiere forse degne del mercato ittico e dei suoi
frequentatori.
In ogni caso il Parlamento europeo, nonostante i Trattati di
Lisbona modifichino in parte quelli originari di Maastricht, ha una possibilità
modestissima di cambiare le leggi varate dalla Commissione europea, e sempre
attraverso procedure così complesse da renderne quasi impossibile una
correzione parlamentare. Per capire quale sia il rapporto tra la Commissione e
il Parlamento basti pensare che dal 2001 al 2017 su 545 leggi proposte dalla
Commissione il Parlamento europeo ne ha contestate solo l’1,1%. Una costituente
europea avrebbe certamente mutato questo stato di cose e avrebbe ritrovato la
strada maestra per una soluzione politica dell’identità europea. Ma è stata
bocciata nel 2007 in Francia (che forse sognava Napoleone) e in Olanda (che
forse sognava il tempo delle 7 province unite). Il risultato è che i Trattati
sono la sola forma costituzionale europea con tutte le conseguenze che ne
derivano. L’Europa non riesce ad affrontare un problema fondamentale del nostro
tempo come quello di rimettere la finanza nel quadro produttivo delle imprese,
noi sappiamo, anche a livello dell’esperienza comune, che gli aspetti sociali
della trasformazione tecnologica del lavoro sociale (la robotica va considerata
ben al di là di una prova riuscita dell’intelligenza) pongono il problema di
una redistribuzione del reddito, dato l’impiego di una minore forza lavoro e,
come è stato giustamente osservato, la modalità della produzione tende a
trasformare il capitale variabile (il lavoro umano) in capitale fisso (le
macchine).
In teoria non è difficile indicare soluzioni diverse, quelle
che l’Europa non ha realizzato, e che invece sono sollecitate dalla moralità
collettiva. In pratica la vera globalizzazione è data da un intrigo a livello
mondiale che coinvolge le forme della riproduzione sociale, produttive,
tecnologiche, simboliche, immaginarie che nessun “soggetto” è in grado di
dominare, e che rischiano, ancora una volta, l’incontro maligno e imprevedibile
di potere. Come il ritorno di esibizioni nazionalistiche secondo i livelli
della loro potenza, ridicole o pericolose, sembra un possibile annuncio. E
confesso di temere che oggi la possibilità di una unità europea, nonostante
fondamentali esigenze pubbliche e buone volontà politiche, sia più difficile che
cinquant’anni fa.
Ma c’è sempre l’imprevedibile.
Dal punto di vista della cultura la smetterei con la
testimonianza, un poco forzata, intorno ad uno “spirito” europeo. Bisognerebbe
non aver capito niente delle lezioni che pure ci ha dato l’antropologia
contemporanea per ripetere prospettive che a suo tempo, come ho mostrato, avevano
un loro valore strategico. Cercherò in qualche modo di trovare una risposta al
tema dell’ “intellettuale superfluo” che pure è stato sostenuto con argomenti
intellettualmente molto raffinati. Comincerò con l’affermare che nel nostro
tempo coesistono forme culturali differenti che non possono e non devono essere
omologate. Nella narrazione storica, per lo più, vengono prese in
considerazione le forme elevate della cultura in genere in un rapporto tra la
ricerca e le circostanze materiali che la comprendevano, il lavoro filosofico,
letterario, artistico o di altra natura. In questa direzione è stata molto
importante la storiografia che ha preso in considerazione aspetti della vita
quotidiana, come le forme del lavoro dell’agricoltura o dell’artigianato, le
forme culturali che davano un orizzonte simbolico alla vita sociale, come ad
esempio i matrimoni e la loro celebrazione religiosa. Credo che questa lezione
vada considerata anche per la nostra epoca, anche se sono certamente valide
quelle considerazioni sociologiche e filosofiche che mettono in luce un
elemento predominante lo stile sociale di un’età, come quando si parla di una
società liquida o di una società dello spettacolo.
Oggi vi è certamente l’uniformità di una cultura di massa che
deriva dalla prassi capitalistica dello scambio e dalle forme dominanti della
comunicazione, cartacea o digitale che decade a informazione esteriore perché
non consente quasi mai di collocare la “notizia” su un reticolo relazionale,
che è il solo a poter consentire la traduzione di un fatto nel senso del fatto.
Sappiamo tutti che questo effetto deriva anche dalle forme più avanzate della
comunicazione stessa che costituiscono la forma della nostra relazione con il
mondo. Rifiuterei però a pieno la sprezzante definizione di Nietzsche del “gregge”,
perché all’eguaglianza del “pensiero comportamentale” si contrappongono spesso importanti
- e forse inattese - rivolte pubbliche che potrebbero assumere forme politiche
che interpretano, sviluppano e trasformano le nostre norme istituzionali. È
un’apertura importante rispetto a quella situazione che molti anni fa venne
chiamata “mare dell’essere”.
Che la cultura tecnologica sia oggi fondamentale in ogni forma
della vita sociale o personale, è un’ovvietà. E, con il mutare delle generazioni,
si tace anche la protesta passatista. Il che non significa tacitare la critica
in una volgare rinascita dell’uguaglianza hegeliana tra reale e razionale. La
cultura tecnologica mostra due aspetti tra loro connessi. C’è una cultura
tecnologica, pressoché inconscia, che costituisce la nostra vita quotidiana
nella sua generalità ed è, di fatto una prospettiva che abbandona la classica
intersoggettività idealistica. E c’è una cultura tecnologica fondamentale per
l’apparato produttivo (che non ha niente a che vedere con l’intelletto
averroista e con la fine del lavoro “alienato”). È in questa direzione che in
Europa si sono sviluppate prevalentemente le lauree triennali che tendono a una
formazione professionale: decisione didattica che da noi pare coerente. In ogni
caso un’unità europea a livello del mercato che nasce da una cultura efficiente
(quando lo è) a livello economico.
L’Università attuale, soprattutto nella sua dimensione
umanistica, ha le caratteristiche di un ambiente chiuso, dominato da regole
metodiche che fondamentalmente garantiscono la propria riproduzione, tolto il
prestigio etico di una necessità professionale. L’Università non è stata in
grado di provocare l’accademia che rinnovava il contenuto culturale, come è
accaduto in altre epoche. Tende invece a diffondersi un atteggiamento ostile ad
ogni elemento riflessivo, pago dell’emotività che accompagna un basso
atteggiamento pragmatico, a questo stile spesso si accompagna la legittimazione
del potere politico, quale che sia la cornice culturale e giuridica, che
perduto il suo senso storico per mantenere solo la sua efficacia operativa.
E in questa dimensione va cercata buona parte della crisi
politica contemporanea che comprende la diffidenza e l’opposizione nei confronti
di un’istituzione superiore, obiettivo di un progetto intellettuale lontano
dalla valorizzazione individualistica della propria vita.
Nei nostri anni però si è formata una cultura che affronta
problemi molto seri della nostra epoca attraverso le modalità espressive della
musica, del canto, della rappresentazione, con un coinvolgimento etico soprattutto
giovanile. È una cultura, come sappiamo che ha giustamente raggiunto il premio
Nobel, e che, forse, costituisce una risorsa oggettiva molto rilevante a
livello di una educazione fortemente reattiva nei confronti del linguaggio
popolare che deriva dalle forme del potere dominante e dalle sue conseguenze
identitarie.
Vi è, infine, una “alta cultura” che dall’Ottocento sino ad
una buona parte del Novecento investe la letteratura, la storia, la filosofia,
la poesia, la critica sociale, la musica e altre arti. Essa costituisce
intuitivamente la forma dello “spirito europeo” un’eredità che appartiene ad
una minoranza sociale che, tuttavia mantiene una sua consistenza, anche se
sarebbe stolto ritenere che, nella sua totalità, questo sapere costituisca una
sicura trasmissione storica di valori simbolici collettivi. È in questa
prospettiva che mi accade di leggere la figura dell’“intellettuale superfluo”
all’ombra di un “bene” che storicamente decade come sono già decadute culture
religiose, architettoniche, urbanistiche, politiche, artistiche ecc. Parlare di
cultura europea credo voglia dire, al di là di ogni retorica, parlare di questa
crisi, e riuscire a viverla con una misura intellettuale consapevole del
proprio valore e della più che modesta influenza culturale. Quale giovane
potrebbe identificarsi con Hans Castorp o quale sognare con Madame Chauchat?
Certamente stiamo parlando di un “tramonto” che non ha
tuttavia nulla in comune con quello celebre di Spengler, che nella sua tesi sul
declino vitalistico finiva talora con l’essere assimilato a forme
dell’irrazionalismo più violento. Il “tramonto” è da leggere nella forma
sociale e materiale della cultura, niente a che vedere con la morte della
filosofia.
Tuttavia, prima di far cenno a questo problema “epocale”,
vorrei ricordare la sorte della comunicazione linguistica surrogata oggi, da
strumenti elettronici pubblici e privati. Il linguaggio ha perduto quella
caratteristica importante per cui il suo stesso scorrere apre nuovi piccoli
spazi di traducibilità del mondo, che si rifletteva nello stesso orizzonte di
senso di chi è nel linguaggio. Oggi il lessico dominante è costituito da qualche
centinaio di parole o di sigle sufficienti per riprodurre la forma di esistenza
dominante.
La crisi del tessuto linguistico, la sua perdita di valore
metamorfico, è un sintomo rilevante di quella mutazione (o degrado) che non può
essere misurata solo al livello della retorica, ma che investe l’insieme delle
modalità di esistenza. Questa situazione inibisce di fatto una comunicazione
filosofica, non sfiora nemmeno il senso del silenzio, dopo Heidegger è contrastata
dalla memoria di una filosofia presocratica, dalla poesia cui è assegnato il
luogo di rivoluzione dell’essere, al punto da divenire una poetica di
“mestiere”, più che una rivelazione un manierismo collettivo.
La cultura del nostro tempo è segnata a livello alto dalla
forza della interpretazione che è, nei casi più elevati, la costruzione della
propria verità, non certo la memoria oggettivata del passato, direi piuttosto
al limite della propria temporalità.
Attraverso il lavoro dell’interpretazione nasce la
valorizzazione possibile del nostro patrimonio culturale, l’attualità vivente
del ricordare (che è il fare) e simboli della nostra esistenza, e, se proprio
vogliamo richiamare Nietzsche, il senso della nostra immanenza che, nel suo
essere, è costretta a ricordare e dimenticare la sua origine nell’epoca di Dio.
Attraverso l’elaborazione del ricordare si celebra il rito dell’inizio nella
personalità indefinita delle forme simboliche. L’interpretazione come compito
inconscio ma decisivo, vince sempre - se c’è - la caduta nell’oblio, non
ripete, ma costruisce una tradizione e assume la dignità di una forma che si
proietta nel mondo con il suo valore simbolico. Le cose migliori filosofiche,
inventano teoricamente la propria interpretazione, dei doni di una tradizione,
sono la sollecitazione di un compimento più lontano. C’è un geniale mettere
ordine in un territorio che ospita pensieri come germogli in attesa. Il
pensatore di talento forza la fioritura, vi spende il desiderio di verità che è
stata una consegna, il suo pensare, è far accadere la tradizione come
possibilità: proprio in quanto è nuova energia, viene da una cultura che è già
accaduta: resta l’autore di pagine che si aggiungono ad un racconto
nell’essenziale già scritto, parla con animata precisione perché non si spenga
una voce. La sua verità, che è la nostra verità umana nella sua luce più
accesa, è la vita dell’interpretare, la novità conservativa, che non ha nulla
in comune con un prezioso museo, poiché, nel limite, conserva l’ingenuità di
una propria destinazione.
Se mi sono spiegato bene posso tentare, senza scandalo, una
qualche somiglianza con il compito che si diedero i copisti medioevali. I
copisti attraverso la scrittura salvarono, come è noto, gran parte della
cultura classica che costituì il riferimento fondamentale dell’umanesimo, a
cominciare dal contradditorio Petrarca. Essi - i copisti - lavoravano con piena
convinzione senza poter dominare per nulla quell’orizzonte futuro che era
implicito nella riproduzione scrittoria. Il nostro lavoro compreso come
interpreti epocali della pluralità di accezioni della tradizione della cultura
europea, ci colloca in una situazione che - come dicevo - ha qualche
somiglianza con i copisti medioevali. Ci sono opere filosofiche che, con la
loro invenzione, appaiono come l’enciclopedia di un sapere simbolico che quivi
trova la sua sapiente trasfigurazione. Ma poiché non esiste alcuna forma di
pensiero che possa resistere alle mutazioni simboliche provocate dalle
condizioni materiali d’esistenza (tale è la forza del nostro destino), queste
filosofie tramandano, nella ricchezza del loro autunno, una civiltà
intellettuale che subisce il suo inevitabile deperimento. La forma di verità
che è implicita in questo lavoro non può sapere quale potrà essere il suo avvenire.
Avrà una archeologia? Conserverà una memoria, comprenderà la sua crisi?
Sono domande che aprono in direzione di un incognito “oltre”
e, se vogliono invece una risposta, stanno parlando del vuoto temporale con la
confidenza del proprio stile di percorso, senza fermare il proprio sguardo sui
segni materiali del tramonto della propria virtù egemonica.
Le difficoltà finora insormontabili (e, purtroppo, il “finora”
va compreso nella sua necessità, piuttosto che nella sua apertura) che hanno
impedito un’unità politica europea sembrano parallele alla debolezza materiale
e al valore simbolico della tradizione della cultura europea.
Quella cultura che avrebbe dovuto costituire un mondo
internazionalmente rilevante, al di là dei massacri, delle distruzioni, delle
follie ideologiche della storia europea, è in realtà poco più di una nostalgia,
che è estranea alle forme del sapere che fanno dell’Europa un’eco delle energie
prevalenti nel mondo. Capita di vedere l’Europa come un antico maniero, privo
del dono della giovinezza, al margine nel nuovo potente triangolo del mondo:
Usa, Cina Russia. Dove però esiste, custodita nell’immensa biblioteca, una
preziosa eredità della cui sorte, anche i copisti più preziosi, possono solo
fare ipotesi, come in un gioco senza alcuna certezza.