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mercoledì 17 aprile 2019

PARIGI, OH CARA!
di Angelo Gaccione


Ci sono luoghi e simboli che in alcuni di noi si sono radicati, solidificati persino, come fossero creature vive più vive di persone fisiche, di persone vive. E non importa neppure esserci stati fisicamente in certi luoghi, averli visti di persona. Che cosa sia e da cosa dipenda questo legame così forte, razionalmente non sappiamo spiegarlo. È qualcosa che attiene ad un “impulso” (non trovo una parola adeguata e me ne scuso) primordiale, ancestrale, sentimentale. Forse anche la trasmissione di simboli e di luoghi - per averne letto, sentito parlare, viste le immagini in un film - diventano parte della biologia. Oppure nei recessi più oscuri della nostra mente esiste un ambito dove la memoria e l’immaginazione hanno fissato da sempre degli archetipi, delle “idee innate” di civiltà e di bellezza la cui corrispondenza con la realtà oggettiva, fuori di sé, diventa immediatamente riconoscibile. Forse è tutto inscritto in un ritaglio del nostro Dna ed è del tutto naturale questa riconoscibilità, questa empatia “sentimentale” con le cose.
Mi rendo conto che è un discorso difficile e per molti aspetti insostenibile. Ma da che cosa nasceva in me la gioia immensa di sapere che ad Orvieto esisteva un Duomo carico di meraviglie e di provarne felicità ed orgoglio per il mio Paese senza avervi ancora messo piede? Avrebbe potuto capitare di non vederlo mai, come alla maggioranza di noi capita di non vedere mai un luogo del vasto mondo o un simbolo della civiltà umana. Eppure se avviene la loro distruzione per guerre, attentati, terremoti o altre calamità naturali, noi ne siamo addolorati, feriti; sentiamo nell’intimo che qualcosa di importante è morto anche in noi per sempre. Ci sentiamo più fragili, più soli, più desolati. Quel luogo non è più lo stesso e quella città meno ricca. Ci sentiamo umanamente vicini a quanti hanno subito quella perdita e comprendiamo tutto il loro dolore. Forse è questo che definiamo senso di umanità. Si rimane annichiliti per il crollo della Casa dello Studente a l’Aquila e la morte di tante giovani vite, come si rimane annichiliti per la perdita dei tesori architettonici che quella città custodiva. Quelle “pietre”, quei “mattoni”, non sono semplici pietre, non sono solo mattoni.

L’incendio che ha colpito la cattedrale di Notre Dame ha lasciato il mondo sgomento. Finché ci sarà questa compartecipazione, questa com-passione, negli uomini e nelle donne, si può ancora sperare. Il pianto mi ha serrato la gola mentre le fiamme cancellavano guglie e pennoni, e devo confessare di non avere quasi chiuso occhio la notte dell’incendio. Una grande rabbia nei confronti di quanti non avevano predisposto un sistema antincendio adeguato, in tempi tanto ricchi di mezzi; una rabbia per la consapevolezza della vulnerabilità cui il patrimonio mondiale è esposto. Mi sentivo come paralizzato, e non mi sarebbe stato possibile esprimere in un solo rigo tutta quella rabbia e tutta quella impotenza.  

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Ma ricordiamola quella cattedrale e la sua piazza con dei versi di un’età giovanile, un’età piena di sogni e di suggestioni letterarie, che ci faceva percorrere chilometri per innamorarci di ciò che non erano, ai nostri occhi, solo pietre, ma “musica pietrificata” come ha scritto Goethe.

Notre Dame

In questa piazza a festa
rullano i tamburi 
sotto mani ascetiche
e corpi indifferenti esposti al sole
Poiché la vita fugge
ne catturano gli attimi per ubriacarsene
- La bevono a gran sorsi -
dice Annie citando Brecht
- Non ci sono pezzi di ricambio per gli uomini-
aggiunge citando un autore che non conosco.

Angelo Gaccione
[Parigi, 1980]

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TRE IMMAGINI ELABORATE DAL PITTORE
GIUSEPPE DENTI
Notre Dame brucia