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giovedì 30 maggio 2019

L’AFORISMA ITALIANO: UNA STORIA ANTICA
di Antonio Castronuovo
 
Antonio Castronuovo

Iniziamo con una delimitazione del senso di aforisma, e lo facciamo assieme a un cittadino milanese illustre: Giuseppe Pontiggia, un fuoriclasse dell’aforisma. La parola delimitazione ha già detto tutto: il verbo greco genetico, aforizein, è appunto delimitare. Ma, ci fa notare Peppo, in aforizein c’è la radice horizo, orizzonte: il cerchio del nostro sguardo, il limite cui esso giunge. Per Pontiggia l’aforisma è la possibilità di racchiudere, entro i limiti di una definizione, il flusso altrimenti inafferrabile dell’esperienza. [Scrittori italiani di aforismi, Meridiani, 1, p. XVI] Dunque aforisma come definizione di una esperienza, cioè espressione di una esperienza e suo contenimento in una formula breve. La brevità è carattere dell’aforisma, anche se non se ne può dare una misura certa: da una riga a una pagina. In tal senso, accogliendo il senso di aforisma come forma breve, la storia di quello italiano è quasi millenaria: Ruozzi parte nella sua antologia da testi del Duecento, dimostrandoci subito che i primi confronti con la forma breve, e per secoli, non sono compiuti da letterati, ma da militari, medici, politici, maestri, uomini di religione. Non persone che scrivono per letteratura ma per impegno pratico: uomini che lavorano, che hanno un ruolo attivo nella società. Se solo guardiamo a Dante, egli è testimone della parola aforismi in due sedi, e in entrambi i casi riferite alla scienza medica: nel Convivio, alludendo al titolo dei precetti medici di Ippocrate, scrive «li Aphorismi d’Ipocràs» (I, viii, 5); e in un verso del Paradiso, per esprimere la vanità delle cure terrene: «Chi dietro a iura e chi ad amforismi / sen giva, e chi seguendo sacerdozio» (XI, 4). C’è insomma chi segue la strada delle scienze giuridiche, chi quella degli «amforismi», cioè delle scienze mediche. Possono dunque rientrare nel genere i Fioretti di San Francesco e i Motti e Facezie del Piovano Arlotto; i Pensieri di Leonardo o Paolo Sarpi e i Libri dei dubbi di Ortensio Lando; i Ricordi di Guicciardini e gli Aforismi politici di Tommaso Campanella. Fino al Seicento viene privilegiata la trasmissione di saperi, la riflessione, la descrizione di fatti della medicina, politica, arte militare. 

Tommaso Campanella

Un solo esempio dagli Aforismi politici di Campanella del 1601: 
Il dominio d’uno buono si dice regno e monarchia; d’uno malo si dice tirannia. Di più buoni si dice aristocrazia; di più mali si dice oligarchia. Di tutti buoni si dice politìa; di tutti mali si dice democrazia.
Poi lungo il Seicento - grazie anche alla nascita della massima francese - appare qualcosa di nuovo: una certa leggerezza, il teatrino - anche pungente - delle umane passioni. Tutte qualità che andranno ad abitare lussuosamente nell’aforisma moderno. 

Salvator Rosa (autoritratto)

Ed è così che un Salvator Rosa, pittore, scrittore, poeta, musicista, attore, moralista, figura pienamente seicentesca in questo suo enciclopedismo biografico, può annotare aforismi di acuta modernità:
Dove son molte leggi, vi son molte ingiustizie.
Due solo giorni felici toccano colui che prende moglie: quello delle nozze e quello del funerale.

Francesco Algarotti

La linea perdura, arricchendosi del motto di spirito e colorandosi di illuminata ironia lungo il Settecento, quando nei Pensieri diversi un Francesco Algarotti, amico di Voltaire, uomo curioso e pungente, nemico dell’ignoranza e dell’affettazione, può scrivere:
Gli epigrammisti in poesia sono come i fioristi in pittura.
Chi non sa viver solo morirà in compagnia.
La donna non pone tanto studio nel vestirsi se non perché l’uomo meglio desideri di vederla spogliata.