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martedì 14 maggio 2019

Taccuino
IL BORGO DI ONETA
di Angelo Gaccione


Oneta. A destra "La Casa di Arlecchino"

Il minuscolo Borgo di Oneta è compreso nel comune di San Giovanni Bianco, non molto lontano da San Pellegrino Terme. Lo si trova lungo quella che viene denominata Via Mercatorum, salendo verso l’Alta Valle Brembana. Incastonato dentro una corolla di montagne, il silenzio è il suo dono più prezioso, oltre ad una buona e fresca acqua, ai formaggi strepitosi, ai casoncelli, alla polenta taragna. Tra l’altro dista solo una mezzoretta da Cornello dei Tasso, il borgo più blasonato da cui trae origini la famiglia del poeta Torquato e da cui il borgo prende il nome. Ci approdai in una giornata piovosa e fredda e non si era offerto in tutta la sua luminosità, ma il disagio era comunque valso il viaggio. Oneta invece mi ha accolto col sole domenica 28 aprile. L’intento è stato quello di andare a vedere assieme al piccolo borgo, la casa che la tradizione popolare indica come dimora di Arlecchino. La Casa Museo, proprietà del Comune, è all’interno del Palazzo Grataroli, un tempo famiglia potente di queste contrade, ed infatti il Salone d’onore, conserva tuttora pregevoli affreschi del XV secolo. Sulla parete d’ingresso della Casa è raffigurato un uomo che tiene in mano un bastone; è un uomo dall’aspetto piuttosto rozzo, o per meglio dire, selvatico. Forse è il simbolo della protezione della casa, di qualcuno che vigila sulla sua sicurezza, e quel bastone è esibito per mettere in guardia. Una scritta sopra l’affresco, del resto, non lascia dubbi in proposito: “Chi no è de chortesia, non intrighi in casa mia”. Si presti attenzione agli echi veneti della frase; i Grataroli erano stati oramai abbondantemente contaminati dall’idioma della città lagunare dove avevano a lungo vissuto. Ma il curioso è che di questo homo selvadego resta traccia persino nell’imponente castello di Malpaga, segno che la funzione di vigilanza contro gli importuni o i malintenzionati, doveva essere molto diffusa.



È noto che molti sono stati i bergamaschi, soprattutto delle Valli, ad emigrare a Venezia in cerca di lavoro. Le fonti ci dicono che nella metà del Quattrocento una cospicua comunità bergamasca era presente sul suolo della Serenissima. Erano perlopiù contadini, uomini di fatica, addetti a lavori umili e duri. Il loro linguaggio e i loro modi erano motivo di canzonatura, e non è un caso che la Commedia dell’Arte attingesse a man bassa, per il suo repertorio, dentro questo universo. Il passo dall’homo selvadego allo Zanni e da questo alla maschera di Arlechino potrebbe essere stato quasi naturale. Nessun documento storico e tanto meno atto notarile, dà conferma, tuttavia, di un ipotetico Alberto Ganassa (o Zan Ganassa) comico bergamasco che come altri comici aveva percorso alcune delle più note capitali europee del tempo per interpretare la maschera dello Zanni Arlecchino, fosse rientrato ad Oneta ricco e famoso comprando la casa ora sede del suo Museo. I documenti attestano che proprietaria della casa è rimasta la famiglia Grataroli (da gratarola, grattugia, stemma impresso sul loro scudo) almeno fino all’inizio dell’Ottocento. Ad ogni modo, comunque siano andate realmente le cose, è da queste valli che il personaggio è uscito, e a noi piace pensare che il bastone con cui viene raffigurato nelle immagini e fatto agire sulla scena, sia quello stesso dell’homo selvadego, tanto diffuso nelle comunità montanare. Pronto per essere usato contro la malagrazia, contro chi non pratica la buona creansa, o gli scocciatori.