IL BORGO DI ONETA
di Angelo Gaccione
Oneta. A destra "La Casa di Arlecchino" |
Il minuscolo Borgo di Oneta è compreso
nel comune di San Giovanni Bianco, non molto lontano da San Pellegrino Terme.
Lo si trova lungo quella che viene denominata Via Mercatorum, salendo verso
l’Alta Valle Brembana. Incastonato dentro una corolla di montagne, il silenzio
è il suo dono più prezioso, oltre ad una buona e fresca acqua, ai formaggi strepitosi,
ai casoncelli, alla polenta taragna. Tra l’altro dista solo una mezzoretta da
Cornello dei Tasso, il borgo più blasonato da cui trae origini la famiglia del
poeta Torquato e da cui il borgo prende il nome. Ci approdai in una giornata
piovosa e fredda e non si era offerto in tutta la sua luminosità, ma il disagio
era comunque valso il viaggio. Oneta invece mi ha accolto col sole domenica 28
aprile. L’intento è stato quello di andare a vedere assieme al piccolo borgo,
la casa che la tradizione popolare indica come dimora di Arlecchino. La Casa
Museo, proprietà del Comune, è all’interno del Palazzo Grataroli, un tempo
famiglia potente di queste contrade, ed infatti il Salone d’onore, conserva
tuttora pregevoli affreschi del XV secolo. Sulla parete d’ingresso della Casa è
raffigurato un uomo che tiene in mano un bastone; è un uomo dall’aspetto
piuttosto rozzo, o per meglio dire, selvatico. Forse è il simbolo della
protezione della casa, di qualcuno che vigila sulla sua sicurezza, e quel
bastone è esibito per mettere in guardia. Una scritta sopra l’affresco, del
resto, non lascia dubbi in proposito: “Chi
no è de chortesia, non intrighi in casa mia”. Si presti attenzione agli
echi veneti della frase; i Grataroli erano stati oramai abbondantemente
contaminati dall’idioma della città lagunare dove avevano a lungo vissuto. Ma
il curioso è che di questo homo selvadego
resta traccia persino nell’imponente castello di Malpaga, segno che la funzione
di vigilanza contro gli importuni o i malintenzionati, doveva essere molto diffusa.
È noto che
molti sono stati i bergamaschi, soprattutto delle Valli, ad emigrare a Venezia
in cerca di lavoro. Le fonti ci dicono che nella metà del Quattrocento una
cospicua comunità bergamasca era presente sul suolo della Serenissima. Erano
perlopiù contadini, uomini di fatica, addetti a lavori umili e duri. Il loro
linguaggio e i loro modi erano motivo di canzonatura, e non è un caso che la
Commedia dell’Arte attingesse a man bassa, per il suo repertorio, dentro questo
universo. Il passo dall’homo selvadego allo Zanni e da questo alla maschera di
Arlechino potrebbe essere stato quasi naturale. Nessun documento storico e
tanto meno atto notarile, dà conferma, tuttavia, di un ipotetico Alberto
Ganassa (o Zan Ganassa) comico bergamasco che come altri comici aveva percorso
alcune delle più note capitali europee del tempo per interpretare la maschera
dello Zanni Arlecchino, fosse rientrato ad Oneta ricco e famoso comprando la
casa ora sede del suo Museo. I documenti attestano che proprietaria della casa
è rimasta la famiglia Grataroli (da gratarola, grattugia, stemma impresso sul
loro scudo) almeno fino all’inizio dell’Ottocento. Ad ogni modo, comunque siano
andate realmente le cose, è da queste valli che il personaggio è uscito, e a
noi piace pensare che il bastone con cui viene raffigurato nelle immagini e
fatto agire sulla scena, sia quello stesso dell’homo selvadego, tanto diffuso
nelle comunità montanare. Pronto per essere usato contro la malagrazia, contro
chi non pratica la buona creansa, o
gli scocciatori.