di
Fulvio Papi
La
figura del sindacalista socialista Bruno Buozzi è ferma nella mia memoria in
una massima così lucida che posso ripetere la scena della notizia della sua
uccisione con la medesima emozione di allora.
Eravamo
ai primi di giugno del 1944 e radio Monteceneri (oggi radio Lugano) aveva
diffuso la notizia che i tedeschi avevano dovuto abbandonare precipitosamente Roma.
La nostra speranza è che fossero costretti a una fuga precipitosa per tutta
l’Italia, desiderio comprensibile e vano perché Kesserling aveva già preparato
una seconda linea di difesa con una armata di ben 22 divisioni tra cui le
migliori dell’esercito tedesco. Quando poi si diffuse la notizia che gli
alleati, con una operazione imponente, erano sbarcati in Normandia, lessi nel
viso di mio padre, che da pochi mesi era stato congedato dal servizio militare durato
tre anni, la felice speranza che questa volta per la Germania di Hitler fosse
proprio la fine. Questo orizzonte mostrò uno sfondo maligno e oscuro quando la
stessa radio informò che i tedeschi in fuga da Roma avevano fucilato alla
Storta, non lontano dalla città, alcuni prigionieri prelevati dalle carceri
romane, tra i quali Bruno Buozzi.
Non
ricordo con chi mio padre stesse parlando mostrando tutta la sua costernazione.
Certamente con una persona fidata, com’erano ormai quasi tutte, in odio ai
tedeschi il cui arrivo, dopo l’8 settembre sulla sponda piemontese del Lago
Maggiore, coincise con l’uccisione di tutti gli ebrei. Mio padre, con quel tono
dimesso e un poco fatale, come di chi nella vita ha dovuto sopportare
prevalentemente momenti difficili, ripeteva “hanno ammazzato Bruno Buozzi” con
il suo sguardo dai miti occhi azzurri, un poco smarrito tra l’orizzonte estivo
del lago e il parco fiorente del Grand’ Hotel sulla nostra sinistra. Credo che
la memoria di mio padre corresse al Bruno Buozzi che era stato segretario della
C.G.I.L., quando egli, ultimo impiegato del suo ufficio postale, era iscritto
alla grande organizzazione operaia. Furono giorni oscuri di una giovinezza
sopraffatta dalle bande fasciste, e tuttavia mio padre non me ne parlò mai;
sono convinto per prudenza, temendo che a un ragazzo, quale io ero, potesse
sfuggire qualche parola pericolosa dato che il paese lacustre era in mano alle
brigate nere. Io, senza bisogno di ulteriori racconti, ma cogliendo al volo il male e il dolore, tra stupefatto e inattivo, che
tormentava mio padre, moltiplicai in una ira solitaria e impotente, il mio desiderio
di colpire l’esercito tedesco. Impresa
simile a un sogno per quanto mi riguardava, ma molto difficile anche per chi
avesse avuto la capacità e il coraggio, perché i tedeschi si muovevano con una
sicura abilità militare e, poi, avevano sempre l’arma indegna della
rappresaglia. Così mi accontentavo della mia crudele felicità, quando nel
limpido cielo lacustre vedevo scintillare i quadrimotore americani che si
dirigevano verso la Germania del sud per bombardare non so quale città. Era una
felice gioia interiore che, per lo più, tenevo nascosta nel mio repertorio
adolescenziale. Il lutto di mio padre non si medicava mai, con questo spirito
di vendetta.