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venerdì 13 settembre 2019

IN MEMORIA DI BRUNO BUOZZI
di Fulvio Papi
 
Bruno Buozzi
La figura del sindacalista socialista Bruno Buozzi è ferma nella mia memoria in una massima così lucida che posso ripetere la scena della notizia della sua uccisione con la medesima emozione di allora.
Eravamo ai primi di giugno del 1944 e radio Monteceneri (oggi radio Lugano) aveva diffuso la notizia che i tedeschi avevano dovuto abbandonare precipitosamente Roma. La nostra speranza è che fossero costretti a una fuga precipitosa per tutta l’Italia, desiderio comprensibile e vano perché Kesserling aveva già preparato una seconda linea di difesa con una armata di ben 22 divisioni tra cui le migliori dell’esercito tedesco. Quando poi si diffuse la notizia che gli alleati, con una operazione imponente, erano sbarcati in Normandia, lessi nel viso di mio padre, che da pochi mesi era stato congedato dal servizio militare durato tre anni, la felice speranza che questa volta per la Germania di Hitler fosse proprio la fine. Questo orizzonte mostrò uno sfondo maligno e oscuro quando la stessa radio informò che i tedeschi in fuga da Roma avevano fucilato alla Storta, non lontano dalla città, alcuni prigionieri prelevati dalle carceri romane, tra i quali Bruno Buozzi.
Non ricordo con chi mio padre stesse parlando mostrando tutta la sua costernazione. Certamente con una persona fidata, com’erano ormai quasi tutte, in odio ai tedeschi il cui arrivo, dopo l’8 settembre sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, coincise con l’uccisione di tutti gli ebrei. Mio padre, con quel tono dimesso e un poco fatale, come di chi nella vita ha dovuto sopportare prevalentemente momenti difficili, ripeteva “hanno ammazzato Bruno Buozzi” con il suo sguardo dai miti occhi azzurri, un poco smarrito tra l’orizzonte estivo del lago e il parco fiorente del Grand’ Hotel sulla nostra sinistra. Credo che la memoria di mio padre corresse al Bruno Buozzi che era stato segretario della C.G.I.L., quando egli, ultimo impiegato del suo ufficio postale, era iscritto alla grande organizzazione operaia. Furono giorni oscuri di una giovinezza sopraffatta dalle bande fasciste, e tuttavia mio padre non me ne parlò mai; sono convinto per prudenza, temendo che a un ragazzo, quale io ero, potesse sfuggire qualche parola pericolosa dato che il paese lacustre era in mano alle brigate nere. Io, senza bisogno di ulteriori racconti, ma cogliendo al volo il male e il dolore, tra stupefatto e inattivo, che tormentava mio padre, moltiplicai in una ira solitaria e impotente, il mio desiderio di colpire l’esercito tedesco. Impresa simile a un sogno per quanto mi riguardava, ma molto difficile anche per chi avesse avuto la capacità e il coraggio, perché i tedeschi si muovevano con una sicura abilità militare e, poi, avevano sempre l’arma indegna della rappresaglia. Così mi accontentavo della mia crudele felicità, quando nel limpido cielo lacustre vedevo scintillare i quadrimotore americani che si dirigevano verso la Germania del sud per bombardare non so quale città. Era una felice gioia interiore che, per lo più, tenevo nascosta nel mio repertorio adolescenziale. Il lutto di mio padre non si medicava mai, con questo spirito di vendetta.