di
Franco Astengo
Nelle
prossime settimane si moltiplicheranno le analisi, le ricostruzioni, i ricordi
di quel Novembre ’89: trent’anni fa quando cadde il Muro di Berlino e la storia
deviò dalla strada che sembrava essere stata tracciata almeno per un periodo
altrettanto lungo da quando, settant’anni prima, si era avviato il ciclo delle
“rivoluzioni avvenute”.
Allo
scopo di tentare di fornire un contributo di indispensabile riflessione ho così
provato, pur non avendone alcun titolo e non disponendo delle sufficienti
qualità intellettuali e culturali, di sviluppare un primo ragionamento su quel
fatto epocale. In quel momento stava andando a concludersi quel Novecento
secolo degli impossibili sogni totalitari frutto di una visione comunque
“imperiale” del mondo. Il Novecento non poteva chiudersi che qui nell’Europa
anima e cuore delle grandi e contrapposte filosofie.
Terminava
in quei giorni di novembre di trent’anni fa la fase della “pace apparente” che
aveva seguito la fine del secondo conflitto mondiale.
L’Europa
aveva avuto bisogno di una ferita collocata proprio lì, laddove non solo era
situato il suo centro geografico, ma il suo “cuore” politico e culturale: in
quella Berlino dove non era stata sufficiente la bandiera rossa innalzata da un
ignoto soldato sul tetto del Reichstag per dire “tutto era finito”, si sarebbe
potuto ricominciare. Non era così: quella tragedia immensa che per cinque anni
aveva dilaniato le persone, le case, le piccole cose di tutti i giorni confuse
e distrutte nel rogo immane della guerra, non poteva considerarsi conclusa.
Quel
“muro” che, a un certo punto, divise la Città e separò l’Europa quasi come se
si trattasse del vallo di un antico fortilizio medievale, rappresentava ancora
la logica attualità di quegli anni terribili: di quelle sopraffazioni, di
quella “caccia” al nemico condotta fino al punto di estirparlo definitivamente,
di quel” non riconoscimento” del diverso. Era ancora la logica schmittiana a
farla da padrone: era ancora la paura a dominare la logica delle relazioni, da
quelle tra gli Stati a quelle tra gli uomini. Dietro queste considerazioni a
cavallo tra l’etico e il politico stavano poi le sofferenze quotidiane della
gente comune, che non possono essere dimenticate o considerate marginali.
La
sofferenza delle separazioni, l’impossibilità di ritrovare pezzi del proprio
passato e di progettare il proprio futuro, l’incombenza della costrizione,
l’impossibilità di essere liberi: questo è stato il muro di Berlino.
Il
simbolo di una prigione dentro la quale si trovava costretta tutta l’Europa.
Forse
la caduta non fu un atto spontaneo: ma sicuramente si trattò di un momento di
grande liberazione.
Si
poteva passare da una parte all’altra della Città- simbolo del martirio di un
secolo interno senza che alcuno intimasse l’altolà, senza sentire l’echeggiare
degli spari, senza immaginare il fratello come ostile.
È
stato questo il grande significato del Novembre’89, una data che può essere
presa a simbolo: ma come simbolo soltanto di un momento, del fugace apparire di
una diversa condizione umana.
Poi sono emerse contraddizioni enormi poste
sul piano planetario, la guerra non si è allontanata dalla scena della storia.
La
“logica del nemico” ha preso aspetti diversi anche oltre il terreno militare
puro e semplice anche se l’echeggiare dei cannoni non è mai mancato ed è
ritornato a farsi sentire addirittura ancora una volta in Europa.
Così
a molti può essere venuto da pensare che quel novembre’89 fosse stato inutile,
quasi dannoso. Oggi questo pensiero non può essere giudicato come sbagliato,
comprensivo di un’incapacità di comprendere l’evoluzione dei fatti del mondo e
dello stesso pensiero umano che aveva fatto scrivere enfaticamente di “fine
della storia”.
Per
questo motivi ripercorrere minuziosamente, come molti faranno nelle prossime
settimane, i “giorni del Muro” potrà essere utile: per capire e far capire come
le donne e gli uomini si muovano con la storia e come la storia stessa
costruisca, insieme, i grandi eventi epocali e la piccola vita di tutti i
giorni. Si tratta di non dimenticare mai questo intreccio: di comprendere
sempre come i piccoli dolori e le piccole gioie della nostra esistenza formano
il grande scenario sul quale l’intera umanità si affaccia.
Deve
essere costruita una memoria che faccia almeno argine al ripetersi di tragici
errori, considerando prima di tutto come sia fallace pensare che si sia arrivati
alla fine del capitolo scritto nel corso dei secoli dall’umanità intera.