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lunedì 30 settembre 2019

IN MEMORIA DI EUGENIO GRANDINETTI
di Ennio Abate
Eugenio Grandinetti

Conobbi Eugenio Grandinetti nell’anno scolastico 1976-’77 all’Istituto Tecnico di Sesto S. Giovanni. Entrambi insegnanti di lettere, in quei mesi passati insieme colsi tre tratti fondamentali della sua personalità: la sua provenienza, come me, dal Sud (Calabria); le sue competenze eccezionali in educazione linguistica; l’essere compagno impegnato in una CGIL Scuola da poco nata e allargata anche agli “extraparlamentari”. Avemmo colloqui fruttuosi, ma circoscritti e sommari (mi confidò, tra l’altro, che non aveva mai fatto a botte in vita sua), perché ogni giorno assillati dai problemi della disorganizzata sezione staccata di quell’Istituto a Cinisello. Che dalla sua prima sede - addirittura un ordinario appartamento al primo piano di un condominio popolare in Via Monte Grappa riadattato alla meglio e suddiviso in classi-loculi - era stata appena trasferita in un nuovo edificio a più piani in Via Lincoln, dove si coabitava con una scuola professionale e un liceo scientifico in un clima di sospetti e diffidenze. Ogni poco succedevano episodi comici o drammatici, impensabili da chi avesse in mente la scuola prima del ‘68. Nel frattempo, fuori, per le strade di Milano e dell’hinterland, scorrevano ancora, di tanto in tanto, manifestazioni di operai; e, per questo o quel problema, qualche delegazione di insegnanti o studenti scendeva dalla metropolitana in Piazza Duomo per andare a protestare davanti al Provveditorato di Piazza Missori. L’anno dopo, il 1978, Eugenio ottenne il trasferimento a Milano (al Giorgi, mi pare). Non si ruppe il legame appena iniziato tra noi. Le occasioni d’incontro, però, non erano più tante né quotidiane. E soprattutto, proprio in quell’anno, il clima sociale e politico mutò di colpo. Quello che ancora chiamavamo gergalmente il movimento - un calderone nel quale, dopo l’esplosione inaspettata del ‘68-’69, malgrado la bomba a Piazza Fontana e la strategia della tensione, continuavano a ribollire i bisogni e le idee politiche di quegli anni, orientate qua in senso riformista là in senso rivoluzionario o reazionario - arrivò sfiancato e quasi da paralitico di fronte allo shock del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Chi, come Eugenio, pensava di «poter modificare l’organizzazione sociale attraverso la modificazione della scuola» o, come me, scommetteva sulla possibilità di una rivoluzione socialista/comunista differente dai modelli proposti da PCI e PSI o da quello stalinista sovietico, fu brutalmente ammutolito e spazzato via dalla scena politica a causa della militarizzazione del conflitto sociale imposta sia dai lottarmatisti che dallo Stato e dalla feroce stretta repressiva che ne seguì.



Di tanto in tanto prendevo il metrò da Cologno Monzese, dove abito dal ‘64, e andavo da Eugenio, in Via Meda 14, a Milano. A prendere un caffè e a chiacchierare con lui e Franca, sua moglie, anche lei insegnante ma di inglese. Per qualche ora i miei resoconti sulle peripezie scolastiche dei miei due primi figli o sul respiro sempre più affannoso della mia vita di periferia (ora che non potevo più fare politica assieme ad altri, essendo appena uscito dal fallimento di Avanguardia Operaia) s’intrecciavano con le notizie che lui e Franca mi davano sugli amici frequentati a Milano: i pittori Migneco e Occhipinti; Rosa, la vedova di Birolli; Franco Loi; Ruth Leiser Fortini, di cui Franca era amica (e seppi anche che la tesi di laurea di Eugenio sulla poesia di Galeazzo di Tarsia era stata letta dallo stesso Fortini), Aldo Giobbio, Totò, Giovanna. O di quelli che avevamo in comune (Gigi Lanza, Lidia Gavinelli, Carlo Oliva, Nuccia Pelazza). Raccontandoci delle vacanze estive - Eugenio e Franca le trascorrevano di solito in Inghilterra o a Belsito, che seppi essere il suo paese d’origine - spuntavano anche i ricordi delle nostre infanzie povere o storie bizzarre di parenti e conoscenti. Qualche volta, al margine delle conversazioni, parlammo anche delle poesie che scrivevamo. Lo facevamo entrambi da isolati e lontano dai cenacoli poetici attivi nella Milano d’allora. In primo piano c’era l’esperienza assorbente dell’insegnamento. Accanto a quella e alla militanza sindacale, comunque esterna ai partiti e ai “gruppi extraparlamentari”, dai quali si era tenuto alla larga, Eugenio continuava a coltivare assiduamente le sue passioni giovanili: scienze naturali e cultura umanistica. Aveva accantonato la poesia, pur continuando a scrivere versi, come ha ricordato nella Premessa a «La gabbia della luna» (youcanprint 2015). Oltre a queste visite saltuarie (ero sempre io che andavo da loro e mai il contrario), ci si vedeva a volte in sempre più rari incontri di insegnanti ormai ripiegatisi a trattare i “problemi della scuola” nei vecchi modi corporativi o dilaniati e reticenti nel giudizio sulla vicenda Moro. (Ne ricordo uno all’Umanitaria; e un altro alla Scuola per il Turismo del 17 maggio 1978 sul caso Granata, una insegnante vicina ad Autonomia Operaia, che si era rifiutata pubblicamente di condannare il rapimento di Moro). Per tutti gli anni Ottanta, in quei nostri tentativi occasionali e improvvisati di riflettere a caldo sulla cronaca convulsa e tragica di quegli anni, Eugenio era sicuramente poco o niente coinvolto dai discorsi “rivoluzionari”, che io invece avevo assorbito e messo in pratica nella militanza in Avanguardia Operaia dal ’68, come ho raccontato. Era distaccato e guardingo sia nel giudicare gli eventi sia nel dar troppa importanza alle discussioni teoriche sulla “crisi del marxismo”, della quale io affannosamente leggevo su il manifesto. E non mostrò molta curiosità verso i nuovi rapporti - con Giancarlo Majorino, Attilio Mangano, il gruppo milanese della rivista Primo Maggio e poi con lo stesso Fortini, che avvicinai per la prima volta, nel 1983, per presentare con me a Cologno, in un clima quasi catacombale per la repressione in corso del lottarmatismo, il libro Le nude cose. Lettere dallo “speciale”di Del Giudice, insegnante anche lui all’Itis di Sesto San Giovanni e finito in carcere “per partecipazione a banda armata” - che intessevo per orientarmi in una situazione scombussolata. Certo, era stata messa fuori gioco sia l’ipotesi rivoluzionaria di Avanguardia Operaia (la mia) sia la sua prospettiva riformistica. Ma era come se Eugenio pensasse e fosse preso da altro. E cosa poteva essere quest’altro? Qualcosa di lontano dalla cronaca, dalla politica e dalla storia da falsa guerra civile (Fortini) di quegli anni. Era l’attenzione di Eugenio verso la natura. Che in me, con il trasferimento a Milano da Salerno, s’era invece del tutto rattrappita. O che, nei miei ricordi giovanili del Sud, si presentava soprattutto come una ferita, una malattia (Salernitudine). Essa, invece, in Eugenio era amorosa e dotta allo stesso tempo. Sia - ritengo - grazie ai suoi ritorni costanti a Belsito e sia per la conoscenza scientifica della botanica e della zoologia, che a me era mancata. Me n’ero accorto con ammirazione sempre nel 1978, quando io e la mia moglie d’allora passammo le vacanze estive a Capo Vaticano assieme ad Eugenio, a Franca e ad altri loro amici. In alcune passeggiate osservai attentamente Eugenio. Era davvero a suo agio. Era nel suo ambiente. Capace non solo di dare il nome esatto a quelle “cose”, che riempivano il paesaggio e che io, un po’ vergognandomene, riuscivo a indicare solo con nomi generici (‘erbe’, ‘piante’), ma di descrivercene caratteristiche e usi medicinali. E con la stessa sicurezza conosceva la storia di quei paesi calabresi. O, con pacate parole, ci faceva percepire la sua vicinanza anche emotiva ai miti mediterranei, che il mare o il paesaggio circostante gli evocavano. Per Eugenio il “mondo classico”, che io avevo sfiorato e poco amato nei miei anni di liceale coatto a Salerno, non era distintivo scolastico da vantare ma esperienza interiorizzata e viva, di cui senza intoppi “moderni” nutriva la sua immaginazione di poeta. In più, aggiungo adesso, quei luoghi, e in particolare quei boschi, gli ricordavano - altra continuità - il legame felice con suo padre. 



Negli ultimi anni, dedicandosi quasi esclusivamente alla poesia, Eugenio ha recuperato una vocazione in lui ben radicata. Eppure non posso trascurare che il recupero è avvenuto sotto il segno di una delusione totale nei confronti della storia di emancipazione legata ai nomi del comunismo e della sinistra, al cui progetto egli pur aveva dato negli anni Settanta buona parte delle sue energie. E neppure tacere sul suo profondo scetticismo verso quei tentativi (miei o di altri) di fare gruppo, di ricostruire un noi (o un io-noi, come altrove ho scritto). Non credo di sbagliarmi se dico che li trovasse ormai sterili e, comunque, poco rispondenti alle sue esigenze e alla sua ben più radicata visione “naturalistica” della vita. E, pur scrivendo poesie a carattere civile o ideologico, per dimostrare innanzitutto a se stesso che non aveva rinunciato alla «visione utopistica di una società di uguali», ritengo che lo facesse senza più convinzione o, comunque, in modo contraddittorio con una spinta nichilista profonda al suo «disamorarsi d’essere». Un confronto tra la scelta della poesia e la scelta di fare gruppo fare rivista può parere antipatico. Eppure devo chiedermi e chiedere: erano o sono tentativi contigui e convergenti? oppure divaricati e tendenti a contrapporsi? Non ho la risposta. (Vorrei, però, che non mi si accusasse di rozzo schematismo. Non sostengo, cioè, che poesia=io=solipsismo (individualismo) =nichilismo. Né che fare rivista (o gruppo) =noi=comunismo=positività. Se non è meglio l’io solitario e poeta non è meglio neppure il noi comunitario o dei molti in poesia. Sono, infatti, convinto che solipsismo e nichilismo possono manifestarsi (ma anche essere evitati) sia dall’io che dal noi; sia scrivendo poesia e sia costruendo un gruppo o una rivista. Non, però, per una sorta di automatismo e cioè grazie alla poesia o grazie al fare gruppo, associazione o partito. E devo ammettere che il costante ripresentarsi nei gruppi o nelle riviste che dalla fine della militanza in Avanguardia Operaia ho cercato di fondare e animare (per ben tre decenni!) di attriti latenti o espliciti, di fughe o abbandoni spesso non chiari, ha quasi dato più ragione allo scetticismo di Eugenio che alla mia tenace scommessa. Tanto da arrivare a considerare seriamente l’ipotesi che questi miei tentativi siano condannati ad un epigonismo senza sbocco o che una cultura critica, oggi, in un mondo così alla rovescia rispetto a quello che volevamo costruire, è impossibile o possa sopravvivere stentatamente ai margini. Eppure non mi sento di credere (che di fede si tratta) che è nella poesia che si può salvare il salvabile, e che il salvabile sia l’utopia. Con Fortini resto all’idea che la poesia sia una promessa di felicità, ma la promessa non basta.
[Il testo completo di questo ricordo è disponibile su Poliscritture]