Pagine

giovedì 24 ottobre 2019

Curdi, il dovere della memoria
di Emilio Molinari


Rojava, la tentazione è di farne una lettura congeniale alle nostre speranze.

C'è chi la vede come un sogno anarchico, come Barcellona del 1936, chi come il sottoscritto, che anarchico non è mai stato, è tentato di vederla come la Comune di Parigi... ma è altra cosa.  Rojava è straordinariamente piantata nel nostro tempo: è universalista, ambientalista, femminista e comunitaria, in regioni dove tutto sembra imbarbarirsi. È entrata nella mente e nei cuori di persone in tutto il mondo, di tutte le idee e anche senza idee. Oggi Rojava, è un sacrificio e un lascito a tutta l'umanità. Ha parlato con il linguaggio di un Mondo da salvare... dalla guerra, dalle discriminazioni, dall'intolleranza.
E Rojava non nasce in Siria e non morirà in Siria.
Viene dal passato che nessuno ricorda e dal retroterra della lunga lotta di 15 milioni di curdi di Turchia, del PKK, dal suo dibattito interno e dalla sua maturazione nel corso degli anni. Una lotta di decenni non solo armata e per l'autodeterminazione, ma una rivoluzione culturale, emancipatoria di donne e uomini. Fatta anche di politica, fatta di partecipazione alle elezioni, in 20 anni 15 partiti curdi sciolti e ricostruiti. E di governo di grandi città come Dyarbakir, Batman, Van. E tutto ciò in mezzo ad una guerra tremenda, senza incrudelirsi. L'odio per i curdi e per tutte le realtà diverse è invece radicato nel DNA dei turchi. Non c'era allora il Sultano Erdogan; c'erano i governi turchi, fascisti, golpisti e… laici. Che in 10 anni, dall'83 al '93, avevano ucciso più di 30000 persone, incarcerato e torturato altre migliaia, bruciato 3000 villaggi e provocato tre milioni di profughi, nel silenzio dei democratici europei. Una guerra desaparecida per la stampa internazionale che sapeva e taceva. E con l'Italia che consegnava nel disinteresse generale Ocalan al carcere a vita.
Erano quelli i governi turchi delle dighe sul Tigri e l'Eufrate: un progetto di 60 dighe, 90 impianti, 84 villaggi da mandare sott'acqua, 200000 deportati e imprese occidentali coinvolte, come l'americana Bechtel di cui erano azioniste Edison e AEM di Milano. E banche come Unicredit, e la diga di Illisu che ha sommerso Hassankief, la piccola Matera curda.
Io ho conosciuto quella lotta e ho interloquito con quel popolo.
Interloquito sì, discusso con loro senza remore e presunzione, sui limiti delle armi e del nazionalismo, della necessità di dare un senso universale alla lotta curda per l'umanità e i beni comuni.
La mia prima volta in Kurdistan è nel 1993, a Van, nel pieno dell'offensiva turca sull'Ararat. I guerriglieri del PKK avevano preso come ostaggi 3 turisti italiani uno dei quali che cercava l'arca di Noè sull'Ararat, e li avrebbero consegnati solo a dei parlamentari europei. Il primo incontro è ad Ankara con i parlamentari del partito curdo legale.
Attorno a quel tavolo: io, Giovanni Russo Spena, Chiara Ingrao, un ciellino e un leghista e con noi i giornalisti delle più grandi testate italiane.
I parlamentari curdi raccontarono delle stragi, ci dissero che era loro proibito parlare la lingua kurda, avere radio curde o scuole curde. E che la parlamentare Leyla Zana che aveva osato parlare in curdo era in carcere con una condanna a 15 anni. Guardi i loro visi mentre parlano e ci leggo il coraggio e la tristezza del sapere che per essere qui con noi domani saranno in carcere.  Guardo le facce dei giornalisti del Corriere, della Repubblica, del Giornale, dell'Unità, è incredibile, sembrano quasi annoiati, la loro penna non scrive appunti sui notes. Dei curdi scriverà solo Giuliana Sgrena del Manifesto e ne parlerà un giovane Michele Migone di Radio Popolare.
La nostra destinazione è Van dove, non si sa come, verranno liberati i sequestrati.


Van, ovunque blindati e soldati; sono in tutte le strade e sui muri delle case ci sono altoparlanti, ogni tanto urlano ordini ai cittadini o annunciano il coprifuoco, ogni tanto a caso, qualcuno viene perquisito. In albergo ci rendiamo conto che siamo sequestrati. Il segnale arriva, gli ostaggi saranno liberati a 80 km da Van, a Dugubayazi una cittadina sull'Ararat dove si combatte aspramente. Al nostro arrivo siamo chiusi in una specie di carcere.
Ci libereranno più tardi informandoci che gli ostaggi sono stati liberati. Torniamo di notte a Van, in mezzo ai blindati, mentre il fuoco delle bombe al fosforo brucia i villaggi sull'Ararat. Tornerò nel Kurdistan per il processo a Dino Frisullo da mesi in carcere a Dyarbakir.  Siamo in tre soli italiani presenti, nessun giornalista. Dino a Dyarbakir è un eroe. Durante la festa del Nevroz, mentre i soldati sparano, colpiscono con i calci del fucile donne e vecchi, Dino sta sulle spalle di due giovani kurdi e sventola la bandiera kurda.
Ai processi i giudici sono militari e le udienze sono come una catena di montaggio, durano 10 minuti e si concludono tutti con pesanti condanne. Fuori all'ingresso principale, le donne: mogli, mamme e sorelle dei detenuti stanno lì in tante, raggruppate in un angolo.
Volti di contadine, immagini del dolore e della fierezza, portano i colori kurdi proibiti, in testa uno scialle quasi un velo, bianco, orlato. Le immagini mi arrivano come flash di una storia antica. Non potranno assistere al processo, non vedranno i loro cari che entreranno da un'altra parte. Aspetteranno che passino davanti a loro i pulmini dalle finestre sbarrate. Cercheranno di riconoscere le mani che si agitano tra le sbarre in un saluto, anche questo è un flash di una storia già vista. Si forma così lo spirito delle donne del Rojava.
Le sentirò dopo queste madri, tante volte, a Istanbul, nella casa delle madri dei detenuti, sentirò racconti di figli torturati, di figli che stavano morendo per lo sciopero della fame, di figli che si erano dati fuoco per protesta.
Dino fu liberato, intervenne e pronunciò un duro atto di accusa al regime e ai militari. Dino non c'è più, morì un anno dopo.
Io ritornerò, per la revisione del processo a Leyla Zana, con Luigi Vinci l'unico parlamentare europeo a porre in Europa la questione kurda e portare la commissione speciale per l'ingresso della Turchia in Europa, ai processi di Ankara. Silvana la sua compagna, riuscì ad organizzare una grande assemblea a Milano e fare della libertà per Leyla Zana una battaglia anche nostra.

Il processo.


Una barriera di militari tra i giudici, anche loro militari, e il pubblico. Tuta mimetica, passamontagna e fucili mitragliatori rivolti verso di noi, verso il pubblico. Gli avvocati e gli imputati interrotti in continuazione. La parola kurdo proibita. Tornerò nel 2008, a Istambul, per preparare con i professori  dell'Università di Istanbul e alcuni sindacalisti turchi, il Forum Mondiale Alternativo dell'acqua del 2009. Temo che quelle persone oggi siano tutte in carcere. Erano della sinistra turca e come quasi tutta la sinistra turca erano marxisti duri. Dell'acqua capivano poco: “il problema non è l'acqua, il problema è il capitalismo”. Ma ciò che mi colpì è che erano nazionalisti come tutti gli altri turchi, se parlavi dei kurdi, reagivano rabbiosi. Volevano escluderli dal Forum alternativo. Non so come riuscii a litigare in italiano e loro in turco. Alla fine i curdi parteciparono ed erano donne quelle che parlarono. Eppure questa sinistra era di persone che per la loro militanza rischiavano la galera. La manifestazione del 1°Maggio a Istanbul sfilava su di una superstrada. La sinistra sfilava su di una carreggiata e i Kurdi sull'altra, come due distinte manifestazioni. L'esercito invece stava in alto, sui numerosi cavalcavia, con i fucili spianati verso il basso, verso entrambi.
Tornerò in Turchia nel 2009 per il Forum dell'acqua e per precedere la carovana dell'acqua in Kurdistan promossa dal Contratto mondiale dell'acqua.
Incontreremo Leyla Zana liberata dopo 12 anni, gli universitari, l'ordine degli ingegneri, gli amministratori di Dyarbakir, il sindaco di Batman, per parlare di acqua e di pace nell'area. Per parlare del ruolo dei curdi nella geopolitica Turca. Anche a Bruxelles, al Meeting europeo promosso dal gruppo parlamentare curdo in Turchia e dal GUE, da Luigi Vinci prima e Vittorio Agnoletto e Roberto Musacchio poi, cercai di dare un senso universale all'impegno dei curdi per un bene comune come l'acqua del Tigri e dell'Eufrate, minacciosi rubinetti per l'Iraq e la Siria soprattutto.
Io e Silvana Barbieri portammo Leyla Zana in Italia a parlare della libertà e di dighe sui due fiumi più universali della Terra. Poca attenzione, nessuno allora parlava dei curdi. Rojava ha rotto il silenzio, ma c'è un legame tra questa vecchia storia e Rojava, e c'è la memoria dell'evoluzione della coscienza di un popolo che è bene non perdere mai.