di
Emilio Molinari
Rojava,
la tentazione è di farne una lettura congeniale alle nostre speranze.
C'è
chi la vede come un sogno anarchico, come Barcellona del 1936, chi come il
sottoscritto, che anarchico non è mai stato, è tentato di vederla come la
Comune di Parigi... ma è altra cosa.
Rojava è straordinariamente piantata nel nostro tempo: è universalista,
ambientalista, femminista e comunitaria, in regioni dove tutto sembra
imbarbarirsi. È entrata nella mente e nei cuori di persone in tutto il mondo,
di tutte le idee e anche senza idee. Oggi Rojava, è un sacrificio e un lascito
a tutta l'umanità. Ha parlato con il linguaggio di un Mondo da salvare... dalla
guerra, dalle discriminazioni, dall'intolleranza.
E
Rojava non nasce in Siria e non morirà in Siria.
Viene
dal passato che nessuno ricorda e dal retroterra della lunga lotta di 15
milioni di curdi di Turchia, del PKK, dal suo dibattito interno e dalla sua
maturazione nel corso degli anni. Una lotta di decenni non solo armata e per
l'autodeterminazione, ma una rivoluzione culturale, emancipatoria di donne e
uomini. Fatta anche di politica, fatta di partecipazione alle elezioni, in 20
anni 15 partiti curdi sciolti e ricostruiti. E di governo di grandi città come
Dyarbakir, Batman, Van. E tutto ciò in mezzo ad una guerra tremenda, senza
incrudelirsi. L'odio per i curdi e per tutte le realtà diverse è invece
radicato nel DNA dei turchi. Non c'era allora il Sultano Erdogan; c'erano i
governi turchi, fascisti, golpisti e… laici. Che in 10 anni, dall'83 al '93,
avevano ucciso più di 30000 persone, incarcerato e torturato altre migliaia,
bruciato 3000 villaggi e provocato tre milioni di profughi, nel silenzio dei
democratici europei. Una guerra desaparecida per la stampa internazionale che
sapeva e taceva. E con l'Italia che consegnava nel disinteresse generale Ocalan
al carcere a vita.
Erano
quelli i governi turchi delle dighe sul Tigri e l'Eufrate: un progetto di 60
dighe, 90 impianti, 84 villaggi da mandare sott'acqua, 200000 deportati e imprese
occidentali coinvolte, come l'americana Bechtel di cui erano azioniste Edison e
AEM di Milano. E banche come Unicredit, e la diga di Illisu che ha sommerso
Hassankief, la piccola Matera curda.
Io
ho conosciuto quella lotta e ho interloquito con quel popolo.
Interloquito
sì, discusso con loro senza remore e presunzione, sui limiti delle armi e del
nazionalismo, della necessità di dare un senso universale alla lotta curda per
l'umanità e i beni comuni.
La
mia prima volta in Kurdistan è nel 1993, a Van, nel pieno dell'offensiva turca
sull'Ararat. I guerriglieri del PKK avevano preso come ostaggi 3 turisti
italiani uno dei quali che cercava l'arca di Noè sull'Ararat, e li avrebbero
consegnati solo a dei parlamentari europei. Il primo incontro è ad Ankara con i
parlamentari del partito curdo legale.
Attorno
a quel tavolo: io, Giovanni Russo Spena, Chiara Ingrao, un ciellino e un
leghista e con noi i giornalisti delle più grandi testate italiane.
I
parlamentari curdi raccontarono delle stragi, ci dissero che era loro proibito
parlare la lingua kurda, avere radio curde o scuole curde. E che la parlamentare
Leyla Zana che aveva osato parlare in curdo era in carcere con una condanna a
15 anni. Guardi i loro visi mentre parlano e ci leggo il coraggio e la
tristezza del sapere che per essere qui con noi domani saranno in carcere. Guardo le facce dei giornalisti del Corriere,
della Repubblica, del Giornale, dell'Unità, è incredibile, sembrano quasi
annoiati, la loro penna non scrive appunti sui notes. Dei curdi scriverà
solo Giuliana Sgrena del Manifesto e ne parlerà un giovane Michele Migone di
Radio Popolare.
La
nostra destinazione è Van dove, non si sa come, verranno liberati i
sequestrati.
Van,
ovunque blindati e soldati; sono in tutte le strade e sui muri delle case ci
sono altoparlanti, ogni tanto urlano ordini ai cittadini o annunciano il
coprifuoco, ogni tanto a caso, qualcuno viene perquisito. In albergo ci
rendiamo conto che siamo sequestrati. Il segnale arriva, gli ostaggi saranno
liberati a 80 km da Van, a Dugubayazi una cittadina sull'Ararat dove si
combatte aspramente. Al nostro arrivo siamo chiusi in una specie di carcere.
Ci
libereranno più tardi informandoci che gli ostaggi sono stati liberati.
Torniamo di notte a Van, in mezzo ai blindati, mentre il fuoco delle bombe al
fosforo brucia i villaggi sull'Ararat. Tornerò nel Kurdistan per il processo a
Dino Frisullo da mesi in carcere a Dyarbakir. Siamo in tre soli italiani presenti, nessun
giornalista. Dino a Dyarbakir è un eroe. Durante la festa del Nevroz, mentre i
soldati sparano, colpiscono con i calci del fucile donne e vecchi, Dino sta
sulle spalle di due giovani kurdi e sventola la bandiera kurda.
Ai
processi i giudici sono militari e le udienze sono come una catena di
montaggio, durano 10 minuti e si concludono tutti con pesanti condanne. Fuori
all'ingresso principale, le donne: mogli, mamme e sorelle dei detenuti stanno lì
in tante, raggruppate in un angolo.
Volti
di contadine, immagini del dolore e della fierezza, portano i colori kurdi
proibiti, in testa uno scialle quasi un velo, bianco, orlato. Le immagini mi
arrivano come flash di una storia antica. Non potranno assistere al processo,
non vedranno i loro cari che entreranno da un'altra parte. Aspetteranno che
passino davanti a loro i pulmini dalle finestre sbarrate. Cercheranno di
riconoscere le mani che si agitano tra le sbarre in un saluto, anche questo è
un flash di una storia già vista. Si forma così lo spirito delle donne del
Rojava.
Le
sentirò dopo queste madri, tante volte, a Istanbul, nella casa delle madri dei
detenuti, sentirò racconti di figli torturati, di figli che stavano morendo per
lo sciopero della fame, di figli che si erano dati fuoco per protesta.
Dino
fu liberato, intervenne e pronunciò un duro atto di accusa al regime e ai
militari. Dino non c'è più, morì un anno dopo.
Io
ritornerò, per la revisione del processo a Leyla Zana, con Luigi Vinci l'unico
parlamentare europeo a porre in Europa la questione kurda e portare la
commissione speciale per l'ingresso della Turchia in Europa, ai processi di
Ankara. Silvana la sua compagna, riuscì ad organizzare una grande assemblea a
Milano e fare della libertà per Leyla Zana una battaglia anche nostra.
Il
processo.
Una
barriera di militari tra i giudici, anche loro militari, e il pubblico. Tuta
mimetica, passamontagna e fucili mitragliatori rivolti verso di noi, verso il
pubblico. Gli avvocati e gli imputati interrotti in continuazione. La parola
kurdo proibita. Tornerò nel 2008, a Istambul, per preparare con i
professori dell'Università di Istanbul e
alcuni sindacalisti turchi, il Forum Mondiale Alternativo dell'acqua del 2009. Temo
che quelle persone oggi siano tutte in carcere. Erano della sinistra turca e
come quasi tutta la sinistra turca erano marxisti duri. Dell'acqua capivano
poco: “il problema non è l'acqua, il problema è il capitalismo”. Ma ciò che mi
colpì è che erano nazionalisti come tutti gli altri turchi, se parlavi dei
kurdi, reagivano rabbiosi. Volevano escluderli dal Forum alternativo. Non so
come riuscii a litigare in italiano e loro in turco. Alla fine i curdi
parteciparono ed erano donne quelle che parlarono. Eppure questa sinistra era
di persone che per la loro militanza rischiavano la galera. La manifestazione
del 1°Maggio a Istanbul sfilava su di una superstrada. La sinistra sfilava su
di una carreggiata e i Kurdi sull'altra, come due distinte manifestazioni.
L'esercito invece stava in alto, sui numerosi cavalcavia, con i fucili spianati
verso il basso, verso entrambi.
Tornerò
in Turchia nel 2009 per il Forum dell'acqua e per precedere la carovana dell'acqua in Kurdistan promossa dal Contratto mondiale dell'acqua.
Incontreremo
Leyla Zana liberata dopo 12 anni, gli universitari, l'ordine degli ingegneri,
gli amministratori di Dyarbakir, il sindaco di Batman, per parlare di acqua e
di pace nell'area. Per parlare del ruolo dei curdi nella geopolitica Turca. Anche
a Bruxelles, al Meeting europeo promosso dal gruppo parlamentare curdo in
Turchia e dal GUE, da Luigi Vinci prima e Vittorio Agnoletto e Roberto Musacchio
poi, cercai di dare un senso universale all'impegno dei curdi per un bene
comune come l'acqua del Tigri e dell'Eufrate, minacciosi rubinetti per l'Iraq e
la Siria soprattutto.
Io e Silvana Barbieri portammo Leyla Zana in Italia a parlare della libertà e di dighe sui due fiumi più universali della Terra. Poca attenzione, nessuno allora parlava dei curdi. Rojava ha rotto il silenzio, ma c'è un legame tra questa vecchia storia e Rojava, e c'è la memoria dell'evoluzione della coscienza di un popolo che è bene non perdere mai.
Io e Silvana Barbieri portammo Leyla Zana in Italia a parlare della libertà e di dighe sui due fiumi più universali della Terra. Poca attenzione, nessuno allora parlava dei curdi. Rojava ha rotto il silenzio, ma c'è un legame tra questa vecchia storia e Rojava, e c'è la memoria dell'evoluzione della coscienza di un popolo che è bene non perdere mai.