I
DIOSCURI
I
DUE FRATELLI DE CHIRICO
di Giorgio Colombo
Giorgio de Chirico nasce a Volo in Tessaglia
(Grecia) nel 1888, il fratello Andrea tre anni dopo. Il padre Evaristo,
ingegnere ferroviario, di carattere esuberante, musicista e spadaccino, muore
nel 1905. La madre Gemma decide di tornare in Italia, dove vivevano alcuni
parenti. Si ferma a Milano e a Firenze. Viaggia a Monaco con Giorgio e ammirano
i pittori Friedrich, Boeklin e Klinger. Giorgio dipinge “Enigma di un pomeriggio d’autunno”. Giorgio e Andrea si recano a
Parigi, incontrano Apollinaire, leggono Schopenhauer. Nella silenziosa Torino
sentono l’urlo di Nietzsche. I due fratelli, sempre insieme, li chiamano ‘i
dioscuri’. 1915 è la guerra, i due fratelli devono tornare in Italia,
Andrea rimane sotto le armi, Giorgio è ricoverato all’ospedale psichiatrico
‘Villa del Seminario’ di Ferrara, dove lo raggiunge la madre, che seguirà le
vicende dei due figli sino alla sua morte nel ‘37. Nel periodo ferrarese, con
la presenza anche di Carrà, Giorgio de Chirico elabora ‘la Pittura Metafisica’.
“Nella parola “metafisica” non vedo nulla di tenebroso: è la tranquillità
stessa e la bellezza priva di senso della materia… agli antipodi di ogni
confusione, di ogni nebulosità”. Le strade dei due fratelli si separano. Giorgio de Chirico prosegue la sua escursione
pittorica di successo internazionale, Andrea assume il soprannome di Savinio e
si dedica, prevalentemente in Italia, alla scrittura: recensore, storico,
musicista, ironico e, più tardi, con l’esempio del fratello, anche originale
pittore. Passano gli anni. I due fratelli si ritrovano casualmente a Firenze,
per le scenografie del Teatro Comunale. Qui ritorno alla parola di Giorgio, al
“fatale anno 1952, che rappresenta per me un punto immensamente triste della
mia vita, poiché è stato l’anno in cui ho perso il mio valoroso e sfortunato
fratello (che non impedisce - lui stesso si vanta - che il numero dei miei
estimatori e delle persone a me favorevoli aumenti continuamente)… Negli uffici
del teatro, mentre stavo aspettando qualcuno, vidi passare mio fratello nel
corridoio; mi guardò, mi salutò dicendomi; “Arrivederci”. Io gli risposi:
“Arrivederci”. Pochi giorni dopo, a Roma, nella sua abitazione di viale Bruno
Buozzi, lo rividi steso sul suo piccolo letto, riposante nelle braccia della
buona Morte. Il suo volto era soffuso di un’espressione di calma, di serenità
ed un appena percettibile sorriso di gioia intima e pacata, e di gentile ironia
e forse anche di tristezza, di compassione per quelli che amava e che aveva
lasciato quaggiù, gli sfiorava le labbra… Quando l’ora del mio destino sarà
suonata… ti verrò incontro e ti dirò: “Fratello, eccomi!” (Memorie della mia
vita’, Rizzoli 1962). In pagine precedenti Giorgio aveva scritto con grande
ammirazione le attività del fratello, “dell’uomo eccezionale che sa. Mio fratello era anche pittore e
musicista; il suo valore più grande però fu quello di scrittore e di poeta” (p.
223). Ma il finale è scoraggiante, intende “essere il contrario di quello che
sono oggi (nel dopoguerra) tanti signori che si occupano delle cose dell’arte”
(p. 248) e per dare un esempio della sua serietà anti-modernista termina con un
prontuario di tecnica pittorica. Ho volutamente tralasciato il contributo
artistico fondamentale e indiscusso di Giorgio De Chirico, ben presente
nell’attuale mostra. Il mondo dopo la guerra era cambiato anche per lui. Non
intendo intervenire in un ginepraio di polemiche e di incomprensioni. Dopo
aspri scontri, lui stesso ritorna poco per volta ad un atteggiamento più
conciliante, anzi scherzoso, anzi autoironico, presentandosi come un principe
del '600.