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martedì 29 ottobre 2019

I DIOSCURI
I DUE FRATELLI DE CHIRICO
di Giorgio Colombo        



Giorgio de Chirico nasce a Volo in Tessaglia (Grecia) nel 1888, il fratello Andrea tre anni dopo. Il padre Evaristo, ingegnere ferroviario, di carattere esuberante, musicista e spadaccino, muore nel 1905. La madre Gemma decide di tornare in Italia, dove vivevano alcuni parenti. Si ferma a Milano e a Firenze. Viaggia a Monaco con Giorgio e ammirano i pittori Friedrich, Boeklin e Klinger. Giorgio dipinge “Enigma di un pomeriggio d’autunno”. Giorgio e Andrea si recano a Parigi, incontrano Apollinaire, leggono Schopenhauer. Nella silenziosa Torino sentono l’urlo di Nietzsche. I due fratelli, sempre insieme, li chiamano ‘i dioscuri’. 1915 è la guerra, i due fratelli devono tornare in Italia, Andrea rimane sotto le armi, Giorgio è ricoverato all’ospedale psichiatrico ‘Villa del Seminario’ di Ferrara, dove lo raggiunge la madre, che seguirà le vicende dei due figli sino alla sua morte nel ‘37. Nel periodo ferrarese, con la presenza anche di Carrà, Giorgio de Chirico elabora ‘la Pittura Metafisica’. “Nella parola “metafisica” non vedo nulla di tenebroso: è la tranquillità stessa e la bellezza priva di senso della materia… agli antipodi di ogni confusione, di ogni nebulosità”. Le strade dei due fratelli si separano.  Giorgio de Chirico prosegue la sua escursione pittorica di successo internazionale, Andrea assume il soprannome di Savinio e si dedica, prevalentemente in Italia, alla scrittura: recensore, storico, musicista, ironico e, più tardi, con l’esempio del fratello, anche originale pittore. Passano gli anni. I due fratelli si ritrovano casualmente a Firenze, per le scenografie del Teatro Comunale. Qui ritorno alla parola di Giorgio, al “fatale anno 1952, che rappresenta per me un punto immensamente triste della mia vita, poiché è stato l’anno in cui ho perso il mio valoroso e sfortunato fratello (che non impedisce - lui stesso si vanta - che il numero dei miei estimatori e delle persone a me favorevoli aumenti continuamente)… Negli uffici del teatro, mentre stavo aspettando qualcuno, vidi passare mio fratello nel corridoio; mi guardò, mi salutò dicendomi; “Arrivederci”. Io gli risposi: “Arrivederci”. Pochi giorni dopo, a Roma, nella sua abitazione di viale Bruno Buozzi, lo rividi steso sul suo piccolo letto, riposante nelle braccia della buona Morte. Il suo volto era soffuso di un’espressione di calma, di serenità ed un appena percettibile sorriso di gioia intima e pacata, e di gentile ironia e forse anche di tristezza, di compassione per quelli che amava e che aveva lasciato quaggiù, gli sfiorava le labbra… Quando l’ora del mio destino sarà suonata… ti verrò incontro e ti dirò: “Fratello, eccomi!” (Memorie della mia vita’, Rizzoli 1962). In pagine precedenti Giorgio aveva scritto con grande ammirazione le attività del fratello, “dell’uomo eccezionale che sa. Mio fratello era anche pittore e musicista; il suo valore più grande però fu quello di scrittore e di poeta” (p. 223). Ma il finale è scoraggiante, intende “essere il contrario di quello che sono oggi (nel dopoguerra) tanti signori che si occupano delle cose dell’arte” (p. 248) e per dare un esempio della sua serietà anti-modernista termina con un prontuario di tecnica pittorica. Ho volutamente tralasciato il contributo artistico fondamentale e indiscusso di Giorgio De Chirico, ben presente nell’attuale mostra. Il mondo dopo la guerra era cambiato anche per lui. Non intendo intervenire in un ginepraio di polemiche e di incomprensioni. Dopo aspri scontri, lui stesso ritorna poco per volta ad un atteggiamento più conciliante, anzi scherzoso, anzi autoironico, presentandosi come un principe del '600.