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venerdì 4 ottobre 2019

UTOPIA
di Franco Astengo



Così abbiamo costruito nel tempo la “nostra” idea di Utopia:
Utopia: dal greco ou tòpos, nessun luogo, con l'idea che possa essere qualsiasi luogo. L'Utopia scorre nelle vene della società come la conosciamo. Cominciò Platone, la Repubblica come primo progetto di società ideale perfettamente organizzata, Tomaso Moro inventò la parola, ci battezzò la sua isola un secolo prima di Cervantes e ci perse la testa (letteralmente, un re gliela fece tagliare), poi Campanella e la Città del Sole, i socialisti utopisti alla cui disorganizzazione rispose un certo filosofo di Treviri che si diceva socialista scientifico. È la “nostra parola”, insomma. Ma ci basta?
Chisciotte è un romanzo immortale nato in un carcere a Siviglia, dove Cervantes era dentro per debiti come del resto sono dentro per debiti quasi tutti i paesi latinoamericani.
Il chisciottismo ci è caro in quanto “dimensione eroica dell'antieroe”, come ci dice persino il dizionario della Reale Accademia spagnola: chi antepone i suoi ideali, e opera disinteressatamente per cause giuste, senza ottenerle.
Le ultime parole non convincono molto: a volte i donchisciotte vincono, magari anche solo moralmente.
Ricordiamo la lettera del Che Guevara ai genitori, nell’anno in cui non andò da nessuna parte, cioè sparì per fare la Rivoluzione in Congo: “Sento sotto i miei talloni le costole di Ronzinante, mi rimetto in cammino”...

Jose Saramago – Eduardo Galeano
Dialogo su: “Don Chisciotte oggi: utopia e politica”.
Porto Alegre Gennaio 2005

Jose Saramago
Oggi il quadro di riferimento sembra cambiato.
Ne “La virtù del silenzio” (Mimesis) il sociologo francese Michel Maffesoli sposta il tiro: L’Utopia si è fatta liquida e permea il presente, riempiendo ogni spazio possibile e facendosi una sorta di “ammortizzatore spirituale” dell’incertezza. Così almeno interpreta il testo in questione Carlo Bordoni introducendo, sulle colonne della “Lettura”, supplemento del “Corriere della Sera” una interessante intervista con l’autore.
Ritroviamo dunque nell’attualità una utopia di pronto consumo, non più destinata a immaginare il futuro, ma a concretizzarsi nel presente: una, almeno così definita, “utopia interstiziale” ricollegata alla discussa e complessa nozione di post-modernità.
La modernità è finita, e si è conclusa l’era del razionalismo introducendo, come si afferma nella frase conclusiva dell’intervista il concetto di “non pessimismo” in luogo di quello di ottimismo. Come si può allora interpretare questo vero e proprio spostamento di paradigma?
Esiste una valutazione immediata: mentre sull’utopia dell’eguaglianza si poteva costruire il disegno dell’ Assalto al Cielo” distinguendo su di esso la declinazione di una realtà della soggettività politica, oggi questo non è più possibile perché ci troviamo già in un’altra era, quella del “non razionale” che ha superato l’ultimo stadio della modernità, quello individuato da Bauman attraverso l’espressione della “società liquida”.
Non possiamo però arrenderci all’ineluttabilità di questo passaggio, di questa definitiva impossibilità dell’articolazione sociale in nome dell’individualismo irrazionale. Una resa che sembra derivare, prima di tutto, dall’assenza di una ricerca culturale: l’impressione è, davvero, quella di muoversi nel deserto.
Quindi il primo passaggio deve essere quello di aprire una ricerca per ricostruire un’identità. Ma come?
Una ricerca in questo senso non può che rivolgersi, ricostruendo il tempo passato e perduto, oltre a quei riferimenti classici sulla base dei quali, nel ’900, abbiamo assistito ai tentativi di inveramento statuale basati su alcuni fraintendimenti marxiani. Quello è stato un fallimento che ha coinvolto e coinvolge anche coloro che hanno sempre coerentemente assunto una visione critica. Ed è la ragione vera che sorregge il ragionamento sull’utopia dell’hic et nunc: un’utopia trasformatasi in distopia, ovvero un’utopia alla rovescia, capace di dipingere il peggiore dei mondi possibili, veri e propri inferni sulla terra, a somiglianza di ogni totalitarismo.
Prendendo atto di ciò rimane da valutare lo spazio teorico per ricostruire un ‘utopia. Nella convinzione che senza l’offerta di un’utopia, pur in questi tempi di immediatezza del possesso, difficilmente le generazioni possono affacciarsi sulla scena del cambiamento di quella che potrebbe apparire una direzione obbligata della storia: dominanti e dominati, servi e padroni, forti e deboli.
Un’utopia che si contrapponga a una realtà storica giudicata irrazionale e degradata: un progetto di costituzione sociale meditato, coerente, nella propria logica interna, con caratteri di trasparenza e di autosufficienza.
Come potrebbe però l’idea di questa utopia mobilitare le grandi masse, raccogliere attorno alle sue espressioni le lotte sociali, suscitare un moto di concreto cambiamento?
È proprio questo l’interrogativo più assillante, quello al riguardo del quale lo smarrimento culturale della sinistra incide di più?
Eppure una chiave di interpretazione ci sarebbe.
Se noi esaminiamo i dati dell’economia di questo principio di secolo e li incrociamo, partendo proprio da qui dall’Europa Occidentale, con quelli della condizione materiale di vita di quelle subalterne (indicatori molto diversi, sotto questo aspetto, da quelli che compongono la costruzione delle stime dei diversi PIL nazionali) ci accorgiamo di un elemento fondamentale: la costruzione dei patrimoni, i meccanismi di incremento del capitale, il livello delle diseguaglianze tendono tutti a far ritornare attuale la condizione della fase in cui, con lo sviluppo del capitalismo, si avviarono i grandi processi di organizzazione e di lotta del movimento operaio.
Sicuramente non siamo più dentro ad una fase di accumulazione come quella verificatasi durante la rivoluzione industriale, ma le cifre ci dicono che i livelli di sfruttamento (e da esso la crescita della rendita dei patrimoni) è molto simile a quella fase anche sotto l’aspetto della vastità dei soggetti coinvolti, con l’aggiunta del tema ambientale, nell’800 (il secolo delle “magnifiche sorti e progressive).
Intendiamoci bene: le differenze sono enormi, soprattutto al riguardo dell’estensione materiale dei diversi settori dell’economia tra primario, secondario e terziario, ma la sostanza (e gli effetti concreti) della logica dello sfruttamento stanno tornando a essere quelli di quella fase, cancellando via via quanto si era spostato in avanti dal punto di vista economico e sociale nel corso del secolo successivo, quello che definiamo dei grandi conflitti e dei grandi totalitarismi.
Si dimostra così, per l’ennesima volta, che la storia non è finita e che, almeno dal nostro punto di vista, può marciare anche con il passo del gambero.
Quale lezione trarre, a questo punto, dall’analisi appena sopraesposta?
Esprimiamoci in estrema sintesi: si tratta, prima di tutto, di far capire in quale condizione materiale i ceti subalterni si trovano offrendo l’idea di una rinnovata utopia e di strumenti di lotta non solo difensivi ma anche prefiguranti uno sbocco sociale e politico diverso e alternativo.
Nonostante tutto l’analisi materialista si pone ancora una volta di fronte al grande disegno dell’Utopia, quello che più volte nella storia abbiamo definito come “Assalto al Cielo”.
L’interrogativo rimane: come intrecciare, allora, l’Utopia e la Materialità della Lotta di Classe?
Nel 1848 la sintesi fu trovata, in maniera assolutamente incancellabile da qualsiasi accidente della storia, nel “Manifesto del Partito Comunista” nella sua formidabile chiarezza di espressione.
Un punto da cui ripartire, magari attraverso un rifiuto dell’“utopia interstiziale” è l’espressione, immutabile e indistruttibile, di un indispensabile “don chisciottismo” come ci ricordavano Saramago e Galeano?