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domenica 24 novembre 2019

Tecnoscienza, capitalismo e nichilismo
di Franco Toscani


L'ibridazione e la simbiosi tra uomo e macchina sono state giustamente, da più parti, definite affascinanti e inquietanti nel contempo. L'accelerazione tecnologica incessante fa sì che l'umanità ibridata o mutante sia ormai alle porte. Si parla infatti di "creature ciborganiche" o di "visioni post-creaturali", di corpi "transumani" trasformati in uno sciame di bit.
In un mondo sempre più dominato dalla tecnologia e dagli sviluppi dell'intelligenza artificiale non si sa quale sia il confine al di là del quale l'umano possa modificarsi nel "transumano". Nel 1994 Marvin Minsky prefigurò un mondo abitato da robot, "figli della nostra mente"; un mondo "post-umano", in cui la mente viene trasferita in supporti digitali.
Si parla di "trans-umano" e di post-umano", di "personoidi" (termine oltremodo aberrante e inquietante), quando la tecnologia (ma potremmo anche dire la tecnoscienza, col suo tipico intreccio ormai indissolubile di conoscenza teorica e manipolazione/trasformazione del mondo) permette di intervenire sull'identità di genere o sessuale, consentendo trasformazioni e "potenziamenti" che vanno ben oltre l'ambito dei tradizionali interventi medici, come l'inserzione di impianti o di protesi.
Si parla già di nuove forme di etica, come la "roboetica" (Minsky), ossia l'etica dei robot intesi appunto come "figli della nostra mente", figli che dovrebbero eticamente rispettare i loro padri, ma non si sa se lo faranno.
Ricordando tutto ciò, Giuseppe O. Longo scrive opportunamente: "resta una domanda di fondo: è lecito, giusto, etico fare tutto ciò che si può fare oppure esistono limiti che non si debbono superare? Nel loro statuto la scienza e la tecnologia non contemplano il concetto di limite, anzi considerano ogni limite etico, religioso, sociale come un ostacolo provvisorio da superare. E non bisogna dimenticare che dietro la spinta alle innovazioni c'è quasi sempre l'incontenibile brama di profitto delle aziende. È necessario riflettere bene sulle possibili conseguenze di una corsa al 'trans' e al 'post', costruendo scenari quanto più possibile realistici e simulandone tutte le potenziali implicazioni. E non bisogna farsi travolgere dalla corsa al nuovo per il nuovo".[1]
Concordiamo ampiamente con quanto scrive qui Giuseppe O. Longo, ma noi vogliamo insistere nel domandare se sarà davvero possibile non superare i limiti. Ogni etica comporta un insieme di istanze, regole, possibilità, scelte e limiti. La scienza e la tecnologia, indisgiungibili dalla brama di profitto nell'attuale civiltà capitalistica e neoliberistica, tendono inesorabilmente non solo a superare ogni limite, ma pure a concepire ogni limite come un ostacolo fastidioso da eliminare.


Dominante infatti è la tensione alla valorizzazione illimitata del capitale, alla quale possiamo aggiungere la logica intrinseca alla ricerca scientifico-tecnologica stessa, che spinge a infrangere ogni limite. Non dimentichiamo neppure il mito del successo, della gloria, della fama a tutti i costi, un mito a cui l'odierna tecnoscienza è tutt'altro che insensibile, nel suo tendere irresistibilmente a fare tutto ciò che si può fare, senza alcun freno. Massimamente pericoloso ed esplosivo per le sorti degli esseri viventi e del pianeta è l'intreccio - che oggi appare indissolubile - fra sviluppo della tecnoscienza e ultracapitalismo.
Non c'è allora etica o cultura del limite e della misura, della responsabilità e del destino che regga e che riesca a contenere l'illimitata volontà di potenza, di dominio e di profitto che ormai minaccia seriamente la sopravvivenza non solo della specie umana, ma di tutti gli esseri viventi sulla Terra.
Domandiamo ancora: è possibile arginare o porre rimedio alla volontà di fare tutto ciò che si può fare, sapendo che tutto ciò che si può fare non potrà che condurre noi e il mondo intero alla rovina? E' possibile tenere insieme, armonizzare l'etica del limite, della misura, della responsabilità e la pratica della tecnoscienza, che tende fortemente a oltrepassare ogni limite e a imporre la propria "logica", costi quel che costi?
Sono gli interrogativi posti sulla questione della tecnica a partire dalla riflessione di Martin Heidegger, Günther Anders, Hans Jonas e Umberto Galimberti.

Da parte mia, ritengo in estrema sintesi che sia molto difficile riuscire a fermarci in tempo nell'attuale corsa verso il baratro e proprio in questi ultimi anni non pochi scienziati (non, quindi, intellettuali o pensatori catastrofisti) ci stanno avvertendo che il tempo è già scaduto, che il pianeta è condannato alla devastazione ambientale e a cambiamenti climatici irreversibili, che la folle corsa da molti ancor oggi concepita tout court come "progresso" sta giungendo al terribile capolinea.
Una peculiare nuova forma di nichilismo si cela infatti nel culto odierno del "progresso". Cerchiamo di vedere meglio in che senso intendiamo ciò. Il mito attuale della "crescita" e del "progresso" infiniti (o presunti tali) fa venir meno l'esigenza stessa del senso e del fine, perché il "progresso" si dà comunque per garantito, ovvio e assicurato, non si avverte più il bisogno di un progetto cosciente e organizzato per la nostra civiltà. Il fine è già dato nel e dal sistema, che non esige più alcun pensiero, ma solo la ratio strumentale-calcolante. Una radicale e peculiare Gedankenlosigkeit (assenza di pensiero), come aveva già ben intravisto Martin Heidegger nella seconda metà del XX secolo, domina il nostro tempo. Il pensiero viene ridotto a mero calcolo, controllo e misurazione, ogni altra forma di pensiero viene ridimensionata, negata o sottovalutata.
Il sistema dato presenta infatti i suoi meccanismi oliati di efficienza e di produttività, che chiedono soltanto la nostra acritica adesione ad essi. Non v'è più alcun bisogno di pensare, intenzionare, scegliere, finalizzare in senso forte, perché il nostro destino è dal sistema già segnato/assegnato e gli uomini, nella logica della razionalizzazione capitalistica e neoliberistica, non sono altro che produttori/consumatori. Questa è l'alienazione di cui tutti soffriamo - anche se non sempre ce ne accorgiamo - nel nostro "tempo di privazione", come direbbe Hölderlin. Con ciò, però, il nichilismo è già da tempo fra noi come "ospite inquietante" più o meno percepito come tale, nel disorientamento che ci pervade, nell'universale venir meno del fine, del senso, della direzione della civiltà planetaria.


L'ebbrezza tecnologica e la volontà di potenza illimitata fanno dimenticare quelli che Hans Jonas chiamò il peso e la benedizione della mortalità, il fardello enorme e, nel contempo, la grazia, il fascino indicibile dell'esistenza e della condizione umana.  

Nota
[1] G. O. Longo
Transumano: ma davvero è bello tutto ciò che è nuovo?
"Avvenire", 10 ottobre 2019