di
Franco Toscani
L'ibridazione
e la simbiosi tra uomo e macchina sono state giustamente, da più parti,
definite affascinanti e inquietanti nel contempo. L'accelerazione tecnologica
incessante fa sì che l'umanità ibridata o mutante sia ormai alle porte. Si
parla infatti di "creature ciborganiche" o di "visioni
post-creaturali", di corpi "transumani" trasformati in uno
sciame di bit.
In
un mondo sempre più dominato dalla tecnologia e dagli sviluppi
dell'intelligenza artificiale non si sa quale sia il confine al di là del quale
l'umano possa modificarsi nel "transumano". Nel 1994 Marvin Minsky
prefigurò un mondo abitato da robot, "figli della nostra mente"; un
mondo "post-umano", in cui la mente viene trasferita in supporti
digitali.
Si
parla di "trans-umano" e di post-umano", di
"personoidi" (termine oltremodo aberrante e inquietante), quando la
tecnologia (ma potremmo anche dire la tecnoscienza, col suo tipico intreccio
ormai indissolubile di conoscenza teorica e manipolazione/trasformazione del
mondo) permette di intervenire sull'identità di genere o sessuale, consentendo
trasformazioni e "potenziamenti" che vanno ben oltre l'ambito dei
tradizionali interventi medici, come l'inserzione di impianti o di protesi.
Si
parla già di nuove forme di etica, come la "roboetica" (Minsky),
ossia l'etica dei robot intesi appunto come "figli della nostra
mente", figli che dovrebbero eticamente rispettare i loro padri, ma non si
sa se lo faranno.
Ricordando
tutto ciò, Giuseppe O. Longo scrive opportunamente: "resta una domanda di
fondo: è lecito, giusto, etico fare tutto ciò che si può fare oppure esistono
limiti che non si debbono superare? Nel loro statuto la scienza e la tecnologia
non contemplano il concetto di limite, anzi considerano ogni limite etico,
religioso, sociale come un ostacolo provvisorio da superare. E non bisogna
dimenticare che dietro la spinta alle innovazioni c'è quasi sempre
l'incontenibile brama di profitto delle aziende. È necessario riflettere bene
sulle possibili conseguenze di una corsa al 'trans' e al 'post', costruendo
scenari quanto più possibile realistici e simulandone tutte le potenziali
implicazioni. E non bisogna farsi travolgere dalla corsa al nuovo per il nuovo".[1]
Concordiamo
ampiamente con quanto scrive qui Giuseppe O. Longo, ma noi vogliamo insistere
nel domandare se sarà davvero possibile non superare i limiti. Ogni etica
comporta un insieme di istanze, regole, possibilità, scelte e limiti. La
scienza e la tecnologia, indisgiungibili dalla brama di profitto nell'attuale
civiltà capitalistica e neoliberistica, tendono inesorabilmente non solo a
superare ogni limite, ma pure a concepire ogni limite come un ostacolo
fastidioso da eliminare.
Dominante
infatti è la tensione alla valorizzazione illimitata del capitale, alla quale
possiamo aggiungere la logica intrinseca alla ricerca scientifico-tecnologica
stessa, che spinge a infrangere ogni limite. Non dimentichiamo neppure il mito
del successo, della gloria, della fama a tutti i costi, un mito a cui l'odierna
tecnoscienza è tutt'altro che insensibile, nel suo tendere irresistibilmente a
fare tutto ciò che si può fare, senza alcun freno. Massimamente pericoloso ed
esplosivo per le sorti degli esseri viventi e del pianeta è l'intreccio - che
oggi appare indissolubile - fra sviluppo della tecnoscienza e ultracapitalismo.
Non
c'è allora etica o cultura del limite e della misura, della responsabilità e
del destino che regga e che riesca a contenere l'illimitata volontà di potenza,
di dominio e di profitto che ormai minaccia seriamente la sopravvivenza non
solo della specie umana, ma di tutti gli esseri viventi sulla Terra.
Domandiamo
ancora: è possibile arginare o porre rimedio alla volontà di fare tutto ciò che
si può fare, sapendo che tutto ciò che si può fare non potrà che condurre noi e
il mondo intero alla rovina? E' possibile tenere insieme, armonizzare l'etica
del limite, della misura, della responsabilità e la pratica della tecnoscienza,
che tende fortemente a oltrepassare ogni limite e a imporre la propria
"logica", costi quel che costi?
Sono
gli interrogativi posti sulla questione della tecnica a partire dalla
riflessione di Martin Heidegger, Günther Anders, Hans Jonas e Umberto
Galimberti.
Da
parte mia, ritengo in estrema sintesi che sia molto difficile riuscire a
fermarci in tempo nell'attuale corsa verso il baratro e proprio in questi
ultimi anni non pochi scienziati (non, quindi, intellettuali o pensatori
catastrofisti) ci stanno avvertendo che il tempo è già scaduto, che il pianeta
è condannato alla devastazione ambientale e a cambiamenti climatici
irreversibili, che la folle corsa da molti ancor oggi concepita tout court
come "progresso" sta giungendo al terribile capolinea.
Una
peculiare nuova forma di nichilismo
si cela infatti nel culto odierno del "progresso". Cerchiamo di
vedere meglio in che senso intendiamo ciò. Il mito attuale della
"crescita" e del "progresso" infiniti (o presunti tali) fa
venir meno l'esigenza stessa del senso e del fine, perché il
"progresso" si dà comunque per garantito, ovvio e assicurato, non si
avverte più il bisogno di un progetto cosciente e organizzato per la nostra
civiltà. Il fine è già dato nel e dal sistema, che non esige più alcun
pensiero, ma solo la ratio strumentale-calcolante.
Una radicale e peculiare Gedankenlosigkeit
(assenza di pensiero), come aveva già
ben intravisto Martin Heidegger nella seconda metà del XX secolo, domina il
nostro tempo. Il pensiero viene ridotto a mero calcolo, controllo e
misurazione, ogni altra forma di pensiero viene ridimensionata, negata o
sottovalutata.
Il
sistema dato presenta infatti i suoi meccanismi oliati di efficienza e di
produttività, che chiedono soltanto la nostra acritica adesione ad essi. Non
v'è più alcun bisogno di pensare, intenzionare, scegliere, finalizzare in
senso forte, perché il nostro destino è dal sistema già segnato/assegnato e gli
uomini, nella logica della razionalizzazione capitalistica e neoliberistica,
non sono altro che produttori/consumatori. Questa è l'alienazione di cui tutti
soffriamo - anche se non sempre ce ne accorgiamo - nel nostro "tempo di
privazione", come direbbe Hölderlin. Con ciò, però, il nichilismo è già da
tempo fra noi come "ospite inquietante" più o meno percepito come
tale, nel disorientamento che ci pervade, nell'universale venir meno del fine,
del senso, della direzione della civiltà planetaria.
L'ebbrezza
tecnologica e la volontà di potenza illimitata fanno dimenticare quelli che
Hans Jonas chiamò il peso e la benedizione della mortalità, il fardello enorme
e, nel contempo, la grazia, il fascino indicibile dell'esistenza e della
condizione umana.
[1] G. O. Longo
Transumano: ma davvero è
bello tutto ciò che è nuovo?
"Avvenire",
10 ottobre 2019