Pagine

domenica 1 dicembre 2019

Libri
STRAGE DI STATO
di Angelo Gaccione

Enrico Deaglio

Sono passati 50 anni dalla strage impunita di Piazza Fontana del 12 dicembre del 1969 a Milano con i suoi morti, i suoi arresti, i suoi depistaggi, i suoi omicidi, le sue menzogne, i suoi inutili processi, i suoi tentativi di colpo di stato. Sono passati 50 anni e quasi nessuno dei burattinai ha pagato: ma poteva andare altrimenti? Da quello che sappiamo dalle indagini e dai libri (su Piazza Fontana esiste oramai una nutrita bibliografia, e in questo 2019 di libri interessanti ne sono usciti diversi: da quello di Benedetta Tobagi Piazza Fontana. Il processo impossibile a quello di Paolo Brogi Pinelli, l’innocente che cadde giù; da quello di Paolo Morando Prima di Piazza Fontana. La prova generale a quello di Cesare Vanzella Il caso Annarumma. La rivolta nelle caserme e l’inizio della strategia della tensione che con la morte del giovane poliziotto irpino Antonio Annarumma, avvenuta in via Larga a Milano il 19 novembre del 1969, poco meno di un mese prima della strage del 12 dicembre, è a sua vota una prova generale), non avrebbe potuto esserci esito diverso. Questo libro di Enrico Deaglio La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana (Feltrinelli Editore 2019, pagg. 300, € 18,00) ce ne dà l’ennesima conferma. E il perché è semplice; ma sentiamolo dalle dirette parole di Deaglio: “La bomba venne preparata e collocata dal gruppo veneto di Ordine Nuovo, un’organizzazione nazista con forti agganci e protezioni ai vertici dello Stato italiano, che non fece nulla per impedirlo”. 
E se resta sempre valido il postulato che fare una strage indiscriminata contro cittadini inermi è il modo più efficace per spingere l’opinione pubblica ad invocare misure draconiane: pena di morte, sospensione delle libertà civili e della democrazia, abolizione del diritto di sciopero, e dunque passaggio ad un regime militare autoritario, non c’è dubbio che a questo disegno stragista fatto di bombe, di sangue, di menzogne, hanno prestato il loro appoggio quelli che Deaglio definisce con sintetica efficacia “burocrati immobili, magistrati pavidi, politici spaventati, funzionari corrotti”. Come ben documenta il suo lavoro, moltissimi di costoro, compreso stampa, partiti, chiese, logge massoniche, associazioni di varia natura e denominazione, furono apertamente conniventi. Ma c’è stato anche chi ha chiuso gli occhi per non vedere (la cosiddetta maggioranza silenziosa, perbenista, conformista e ipocritamente “moderata”), e chi li aveva ben aperti e ha scelto di stare con i golpisti e i bombaroli. Il capitolo dal titolo “Riassunto e Arringa finale” (pagine 267-278) si apre con questa considerazione: “Se l’Italia fosse stato allora un paese pulito - lo era purtroppo solo nella sua parte povera, ingenua; ma non lo era certo ai vertici delle sue istituzioni - la bomba non sarebbe mai scoppiata. Freda e la sua banda sarebbero stati arrestati prima; o, al limite - in un impeto di vergogna e colpa per quanto era stato tollerato - sarebbero stati arrestati la sera stessa. La polizia e i servizi segreti sapevano tutto di loro”.

I funerali delle vittime

Sapevano tutto di loro perché erano parte attiva del disegno criminale. La Questura di Padova proteggeva il bombarolo Freda, mentre il Viminale sospendeva “dal servizio e dallo stipendio” il capo della squadra mobile Pasquale Juliano che indagava sul boia nazifascista. E subito dopo la strage ci si affretta a indirizzare le indagini a sinistra, mentre si cancellano le prove: la borsa con la bomba inesplosa piazzata alla sede della Banca Commerciale (riconosciuta dalla commessa del negozio di Padova che ne ha vendute 4 al fascista veneto Giovanni Ventura), viene distrutta facendo brillare la bomba. Il proprietario del negozio, Adriano Giuriati, dà queste informazioni al questore Allitto Bonanno che dovrà trasmetterle a Milano, ma non succede nulla. Le preziose informazioni del professor Guido Lorenzon che avrebbero inchiodato i neofascisti veneti e i loro protettori, vengono deliberatamente ignorate e screditato il teste in ogni modo. Insomma, inizia quello che giustamente Deaglio chiama “il primo golpe”, quello attuato dagli “Affari Riservati” che insediatisi immediatamente a Milano, curano tutta la regìa del dopo strage fino all’omicidio di Pinelli e oltre. Il “secondo golpe” sarà quello “giudiziario, ma ai massimi livelli”, come scrive Deaglio; quello attuato con lo spostamento del processo a Catanzaro: “Ci sono pochissimi precedenti per lo spostamento di un processo così importante, in tempi di pace e in un paese democratico”, conclude Deaglio. Ma del resto “la Procura di Milano non solo non ha mosso un dito per avere la sacrosanta competenza di indagare sulla strage che ha colpito la sua città, ma insabbia tutto” (pag. 136).

Pinelli con le sue bimbe

Il breve capitolo che riguarda la storia immonda degli “Affari Riservati” è illuminante. Gli uomini che li compongono si muovono a loro agio e con disinvoltura, e possono vantare appoggi interni ed esterni a livelli altissimi. I Servizi segreti avevano raggiunto un tale potere da far paura persino ad alcuni ministri, Moro compreso, come sapremo in seguito, ma non dagli interrogatori avvenuti nella “prigione del popolo” delle Brigate rosse che si guardarono bene dal rendere pubbliche le rivelazioni dell’esponente democristiano. Ci vorrà il 1986 perché un altro alto esponente democristiano come Amintore Fanfani, si decidesse ad ammettere pubblicamente che quello di Piazza Fontana era stato il primo atto terroristico per spostare a destra l’opinione pubblica italiana. E Fanfani se ne intendeva. E se ne intendeva Giulio Andreotti che in risposta allo scritto di Pasolini: “Che cos’è questo golpe?”, apparso sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974, aveva osato impunemente scrivere su quello stesso quotidiano: “(…) Quando il potere ha osato oltre ogni limite non lo si può mutare, lo si deve accettare così com’è” (il corsivo è mio).
Un potere che nella sostanza e negli uomini era rimasto quello di prima: fedele a se stesso e infedele verso i cittadini e la democrazia; dal momento che la Resistenza non era riuscita a fare pulizia fino in fondo. Non c’era stata alcuna seria epurazione negli alti ranghi delle istituzioni, e la Repubblica aveva ereditato pari pari la spina dorsale di quel regime: esercito, magistratura, polizia, burocrazia. Non era andata fino in fondo neppure con i partiti e i gruppi che al fascismo si ispiravano; li aveva tollerati. L’amnistia aveva fatto traslocare nei nuovi partiti (quelli di sinistra compresi) buona parte degli uomini che componevano quelle istituzioni, molti dei quali faranno rapidamente carriera; ma aveva, in più di un caso, dimenticato in galera antifascisti e partigiani. Quest’anima nera rimarrà presente come una macchia indelebile sulla coscienza della Nazione, e agirà da piovra in tutte le stragi che insanguineranno il Paese. Non a caso Deaglio ha messo come sottotitolo al suo libro: Cinquant’anni di Piazza Fontana, non da Piazza Fontana; ha volutamente usato un complemento di specificazione per segnalarci che “la Bomba” non ha esaurito la sua funzione il 12 dicembre del 1969, ma ha alacremente lavorato a pieno ritmo per piegarci: per piegare noi e la giovane fragile democrazia nata dalla Resistenza. 

Pietro Valpreda
(il capro espiatorio)
La bomba ha assolto bene il suo compito di terrore in questi lunghi anni, anche se non è riuscita a conseguire lo scopo finale. Va aggiunto che il Paese uscito dalla dittatura, non ha mai fatto un serio esame di coscienza pubblico e collettivo. Non si è interrogato che attraverso singoli isolati ricercatori. Mi sono più volte chiesto che cosa sarebbe accaduto se il giorno dei funerali delle vittime di Piazza Fontana, in quella tremenda, livida, nebbiosa giornata milanese, in cui i golpisti avrebbero voluto una città annientata, Milano non avesse fatto traboccare di uomini e di donne non solo il sagrato di Piazza del Duomo, ma le vie e i corsi di tutto il suo cuore. Così come mi ero chiesto allora diciottenne in Calabria, perché per un fatto così grave, il più grave dalla fine della guerra, i sindacati non avessero proclamato lo sciopero generale in tutto il Paese. La prova generale era quella; e se la Milano dolente e come sempre generosa, se la città medaglia d’oro della Resistenza non si fosse mostrata sul sagrato e nelle vie con il suo corpo, anzi con le sue migliaia di corpi vivi, forse il potere che aveva già osato oltre ogni limite, avrebbe osato l’innominabile. È da quella esperienza che ci dovrà venire il monito a non lasciar mai vuote le piazze; a non lasciarle mai silenziose. Il potere osa oltre ogni limite se le piazze restano vuote, se sulle piazze cala il silenzio.
Avrebbero osato togliere la lapide su Pinelli messa dagli antifascisti, se non avessimo protestato, se non avessimo alzato la voce. Ricordo l’appello che lanciammo come Artisti e Scrittori Antifascisti assieme allo scomparso attore e regista del Teatro Crt Gianni Rossi per impedirlo; i volantini che distribuimmo per le vie; la nostra presenza nei cortei del 12 dicembre e per Pinelli. Ci provano di tanto in tanto, quando la vigilanza si attenua; come tornano a provarci in questi giorni con il sindaco Sala: anche lui, come in passato Berlusconi, ritira fuori il nome di Craxi a cui vorrebbe intestare una via.


Non perdetevi questo emozionante libro di Deaglio, la cui scrittura scivola fluida come dalla penna di uno scrittore, più che di un giornalista. Copre un arco vasto di tempo, definisce ruoli, chiarisce risvolti, allinea nomi, rivela comportamenti, opera confronti con casi di altri eventi necessari entrati nella storia, li arricchisce di rimandi e suggestioni letterarie, coinvolge l’arte, gli artisti, i poeti, il cinema, i libri, le idee, i cantastorie. Vi scoprirete - questo mi ha davvero sorpreso - che il commissario Calabresi ha “rischiato” la beatificazione da parte di ambienti clericali. Che da Piazza Fontana (e anche prima) uno Stato, o almeno la gran parte di esso, si è coalizzato contro i suoi stessi cittadini; ha tramato contro le loro vite ed il loro onore; ha sparso sangue da Milano a Reggio Calabria; ha tradito la patria e in combutta con ambienti stranieri ha tentato di abolire la democrazia. Tutto questo è avvenuto senza che gli sia stato chiesto conto. Non c’è nelle patrie galere italiane nessuno degli artefici, dei colpevoli veri. Quanto alla Questura di Milano, a salvarne quel poco di onore che le è rimasto, è stato anni dopo il giudice istruttore Guido Salvini, non a caso osteggiato fino al punto da essere rimosso per “incompatibilità ambientale”, reo di aver guardato nella direzione giusta. Fu costretto a subire addirittura un processo, mentre altri magistrati passavano dai tribunali alle stanze del Parlamento, a continuare le loro lucrose carriere fatti eleggere dai vari partiti, sinistra compresa.

Il palazzo con la sede della Banca

A partire dalla bomba del 12 dicembre, non mi è mai più capitato, scrivendo un articolo, un racconto, un dialogo letterario, o semplicemente dando appuntamento a qualcuno in quel luogo, che io non abbia indicato quella piazza con la dicitura: piazza della strage di Stato. Uno scrittore sa bene quanto contino le parole e come possano essere veicolo di verità. A quella verità mi sono sempre attenuto, per evitare che il luogo diventasse “neutro”, che una diversa nominazione ne alterasse la giusta e dovuta connotazione. Piazza Fontana in omaggio alla fontana del Piermarini, ma anche Piazza della strage di Stato in memoria dei morti innocenti. Come allora, come sempre.

La copertina del libro

Ripeto, è un bel libro, questo di Deaglio, ed è prezioso soprattutto per i giovani a cui la scuola non spiega nulla di Piazza Fontana, per la semplice ragione che i programmi di storia non la contemplano. Ma non è solo Piazza Fontana a non trovare asilo nei libri di storia, anche se è la vicenda più eclatante e criminale del dopoguerra. Consiglio loro di procurarselo questo libro, specialmente se sono ancora convinti che il 12 dicembre è esplosa una caldaia. C’è una sola mancanza in questo volume, ma non se ne fa cenno in molti altri: si tratta della vicenda dei 5 giovani anarchici calabresi assassinati a Ferentino il 26 settembre del 1970. Avevano fatto una controinchiesta e avevano raccolto diverso materiale sugli attentati del 22 luglio al Treno del Sole a Gioia Tauro ad opera di una commistione criminale che inglobava neofascisti, ‘ndrangheta e ambienti militari. Stavano portando quel materiale a Roma per consegnarlo alla Redazione del settimanale anarchico “Umanità Nova” e all’avvocato Di Giovanni, uno degli estensori del libro collettivo La strage di Stato. Angelo Casile, Franco Scordo, Gianni Aricò e sua moglie, la tedesca Annalise Bort, Luigi Lo Celso (della mia stessa città di nascita, Cosenza), questi sono i loro nomi; a Roma non arriveranno mai, e nemmeno il loro dossier. Un camion a fari spenti e procedendo contro mano li sterminò. Nel 2011 Fabio Cuzzola ha dedicato un libro a quella vicenda; il titolo è il seguente: Cinque anarchici del Sud. Una storia negata (Città del Sole Edizioni).