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mercoledì 18 dicembre 2019

UN TENTATIVO DI PROGRAMMAZIONE ECONOMICA
di Franco Astengo


Le vicende “Arcelor Mittal” e “Alitalia” stanno facendo riconsiderare all’attuale governo l’idea dell’intervento pubblico in economia.
Anzi si sta ventilando un ingresso dello Stato nei settori strategici.
Sarebbe complicato entrare nel merito di ciò che è accaduto nel corso degli anni con la dismissione dell’IRI, le privatizzazioni e il ridimensionamento dell’Italia proprio nei settori strategici della produzione industriale.
Un ridimensionamento naturalmente verificatosi anche in coincidenza con il mutamento del quadro internazionale e l’ingresso di nuovi protagonisti molto aggressivi ma soprattutto avvenuto per scelte profondamente sbagliate che sono state adottate dai diversi governi che dagli anni’90 in avanti hanno retto l’Italia. Nelle dichiarazioni di ritorno all’intervento pubblico che si leggono in queste ore si nota però l’assenza di un richiamo a un concetto: quello di programmazione economica.
Proprio all’idea della programmazione economica sono dedicate queste poche pagine nel tentativo di ricostruire un passaggio molto importante nella fase di ricostruzione del Paese dalla tragedia della guerra e di ingresso nella modernità.
Ci troviamo agli albori del centro-sinistra, dopo i sussulti verificatisi con i fatti del luglio ’60 e la caduta del governo Tambroni.
Il processo della cosiddetta: “Pianificazione Economica”, è ideato dal Governo presieduto da Amintore Fanfani e proposto durante il discorso programmatico pronunciato alla Camera dei Deputati il 2 marzo 1962.
Fanfani per la prima volta presiedeva un Governo di Centro-Sinistra, che comprendeva: democristiani, socialdemocratici e repubblicani; mentre il Partito Socialista Italiano si asteneva sul voto di fiducia.
Erano gli anni che gli storici definivano come “boom economico”; quindi pianificare e programmare economicamente lo Stato diventava una priorità per il Governo e i partiti della nuova coalizione di Centro-Sinistra.
Il programma economico del governo veniva presentato dal Ministro repubblicano Ugo La Malfa, il quale sottolineava la necessità di una pianificazione economica concordata sia con i sindacati sia con gli industriali.
Nel 1962 lo stesso La Malfa presentava il documento che prenderà il nome di “Nota aggiuntiva alla relazione annuale di contabilità economica nazionale.”
La Nota aggiuntiva tracciava un consuntivo dei caratteri salienti del processo di sviluppo della fine degli anni ’50. Il rilevante sviluppo conseguito appariva generato da un meccanismo di mercato, “(...) nel quale hanno agito potenti stimoli e fattori di espansione”; inoltre la Nota poneva in rilievo “(…) come gli svolgimenti del mercato, solo in parte corretti da interventi discontinui e non sempre coordinati da una politica economica, avessero condotto ad accentuare, anziché ridurre, il carattere dualistico che l’economia italiana presentava sotto l’aspetto settoriale del contrasto tra lo sviluppo dell’agricoltura e lo sviluppo degli altri settori, e sotto l’aspetto territoriale fra sviluppo delle regioni più industrializzate del Nord e sviluppo delle altre regioni e in particolare del Mezzogiorno”.


La parte finale della Nota aggiuntiva del Ministro La Malfa segnalava, tra i principali squilibri determinati dalle carenze del passato sviluppo, il persistente squilibrio regionale; lo squilibrio settoriale fra industria da un lato e agricoltura e alcune attività terziarie dall’altro. Per quanto concerneva il Mezzogiorno, la Nota riconosceva che l’intervento straordinario non era stato sufficiente: “(…) Quello che più preme rilevare è che lo sviluppo del sud Italia e delle altre regioni in ritardo, compresa la vasta area delle regioni centro-orientali, deve divenire una delle componenti più importanti della politica di sviluppo dell’economia nazionale”.  


Fino al 1956 lo Stato gestiva l’economia italiana attraverso lo sviluppo delle amministrazioni parallele o parastato.
Il Ministero delle Partecipazioni Statali fu creato nel 1956, con responsabilità di direzione e coordinamento delle attività degli enti parastatali.
Erano diversi gli orientamenti sul ruolo che doveva svolgere il nuovo Ministero: il repubblicano La Malfa voleva farlo diventare la forza trainante di una razionalizzazione capitalistica; Mattei, lo vedeva come il campione dell’industria di Stato contro il settore privato, idea da lui sempre sostenuta; Fanfani, più modestamente, scorgeva una nuova burocrazia ministeriale che poteva servire alle necessità, finanziarie e clientelari della Democrazia Cristiana.
La legge che istituiva il Ministero delle Partecipazioni Statali veniva licenziata dal Parlamento il 22 dicembre 1956. Venivano devoluti al nuovo Ministero, tutti i compiti e le attribuzioni, che spettavano al dicastero delle Finanze, nel campo che riguardava le partecipazioni alle aziende dello Stato.  
L’articolo 2 della legge precisava: “(…) al predetto Ministero sono egualmente devoluti tutti i compiti e le attribuzioni che, secondo le disposizioni vigenti, spettano al Consiglio dei Ministri, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, a Comitati di Ministri o a singoli Ministeri relativamente all’Iri, all’Eni, e a tutte le altre imprese con partecipazione statale diretta o indiretta”. 
Al nuovo Ministero, venivano anche attribuiti i compiti che spettavano ai Ministeri del Tesoro e dell’Industria, in ordine al Fondo di finanziamento dell’Industria Meccanica (F.I.M.).
All’interno del dicastero, veniva istituito un Comitato permanente, composto dai Ministri: del Bilancio; dell’Industria e Commercio; del Lavoro e Previdenza Sociale, che avevano il compito di esaminare annualmente i risultati degli enti controllati dallo Stato. Il Comitato veniva presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri. 
Il 3 marzo 1957 durante il Governo Segni veniva nominato il “primo” Ministro delle Partecipazioni Statali: il democristiano Giuseppe Togni.
Il Ministro La Malfa, nel 1962 istituì una “Commissione nazionale per la programmazione economica” (Cnpe), composta da esperti e rappresentanti delle maggiori organizzazioni di lavoratori e imprenditori.
Il lavoro della Commissione doveva assicurare un vero e proprio programma destinato a guidare le azioni di politica economica; la sua composizione aveva suscitato a Sinistra il sospetto che si trattasse di una scelta “modernamente corporativa”, ispirata all’esperienza francese, avviata da tempo e che veniva rilanciata con il gollismo.
 La Malfa assicurava la Sinistra della fermezza degli indirizzi che al tempo aveva già adottato nella sua Nota aggiuntiva e la decisione di passare alla direzione programmata dell’economia con una diretta assunzione di responsabilità da parte del Governo. 
I lavori della Commissione nazionale per la programmazione economica cominciavano attraverso l’attivazione di una sezione di esperti; venivano riservate per queste sedute plenarie di esperti solo la funzione di raccolta di opinioni. Del resto all’interno del Cnpe si riflettevano tutti i contrasti politici e sociali che emergevano nella società italiana.
Un primo rapporto del Vicepresidente della Commissione, Pasquale Saraceno, veniva presentato al governo nell’aprile del ’63, poi in un’edizione riveduta, nel giugno dello stesso anno. Merito del rapporto Saraceno era di non essere stato influenzato dall’andamento congiunturale, e di mantenere inalterata la visione dei problemi dell’economia italiana.


La prima parte del rapporto considerava l’eliminazione degli squilibri esistenti nel sistema produttivo. I problemi che si presentavano erano i seguenti:
1) “le forze di lavoro di determinate zone, in gran parte comprese nel Mezzogiorno, devono in proporzioni eccessive ricercare all’infuori dell’area in cui risiedono le possibilità di un utilizzo pienamente produttivo;
2) il reddito delle forze di lavoro e, in generale, le condizioni del lavoro agricolo presentano, rispetto al complesso degli altri settori, uno scarto eccessivo”.
Un secondo gruppo di problemi si riferiva al fatto che le fondamentali attività culturali, scientifiche e formative che si svolgevano nel paese, non disponevano di strutture organizzative e non ricevevano l’ammontare di risorse che sarebbero state necessarie per consentire a esse, uno sviluppo adeguato al livello di reddito raggiunto nel Paese.
La parte terza della relazione illustrava lo sviluppo dei servizi fondamentali di pubblica utilità: energia, trasporti, comunicazioni.
La quarta parte, riguardava, l’efficienza del sistema: più precisamente, al fatto che alcune zone del paese non erano indotte a conseguire i massimi livelli di produttività che sarebbero consentiti dal progresso tecnico e dalle formule organizzative più avanzate.
L’ultima parte della relazione, riguardava il modo di recuperare i fondi per attuare l’intero programma; ruolo fondamentale lo giocava la Cassa per il Mezzogiorno, che aveva il compito di vagliare e finanziare tutti i progetti di sviluppo per il Meridione. 
La conclusione di Saraceno fu nel segno dell’ottimismo. Infatti, lo stesso scriveva nella relazione: “(…) L’azione pubblica, doveva essere adeguata non solo alle risorse disponibili, ma anche al ritmo con cui le misure in progetto potranno, rovesciando una tendenza in atto, migliorare la capacità dell’azione pubblica”.

La linea di continuità della Nota aggiuntiva e del rapporto Saraceno, veniva seguita dal progetto di sviluppo economico, presentato dal governo Presieduto da Aldo Moro. Il Ministro del Bilancio, Antonio Giolitti, presentava alla Commissione nazionale per la programmazione economica il piano del governo per il quinquennio 1965-1969.
Il Piano era concepito come un insieme di decisioni di politica economica da assumersi in sede di Governo e da sottoporre al Parlamento.
La novità del Piano Giolitti, rispetto ai precedenti documenti, risiedeva nel tentativo di giungere al momento della definizione delle decisioni di riforma o di investimento che dovevano incidere non nel medio periodo ma nell’immediato.
I rapporti con il sistema delle imprese venivano affrontati sulla base di una premessa molto chiaramente formulata: “Il problema di programmazione si compie in un’economia mista, nella quale coesistono centri di decisione pubblici e privati, ciascuno dei quali è dotato di una propria sfera di autonomia. Il programma non investe ovviamente la sfera di autonomia dei vari centri se non nella misura in cui coordinamenti e vincoli si rivelano necessari per la realizzazione delle sue finalità.
Per le imprese pubbliche si precisava: “(…) Una responsabilità riguardante la conformità delle loro decisioni agli obiettivi del programma per un esame preventivo dei programmi specifici e un esame consuntivo dei risultati”.
Il documento continuava chiarendo, che le grandi imprese private, quelle cioè le cui decisioni, potevano influire sensibilmente sulla destinazione e ripartizione delle risorse, dovevano comunicare i programmi d’investimento agli organi di programmazione, ai fini di un accertamento della loro conformità agli obiettivi del programma.
Per le imprese pubbliche si affermava, inoltre, la necessità di rafforzare i poteri di decisione del governo rispetto alle imprese a partecipazione statale e questo, doveva avvenire attribuendo al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) il potere di approvare i programmi annuali e pluriennali degli enti di gestione delle partecipazioni statali.
Il Piano Giolitti continuava facendo notare la scarsa esperienza del Ministero delle Partecipazioni Statali di orientare i programmi delle maggiori imprese pubbliche; si proponeva quindi, la revisione della struttura organizzativa delle imprese a partecipazione Statale, sulla base di grandi gruppi integrati come l’Iri e l’Eni, e inoltre veniva proposto il rafforzamento del controllo del Governo sulle imprese a partecipazione dello Stato. 
Anche il Ministro Giolitti, nella relazione che illustrava il suo Piano, parlava di Mezzogiorno; egli concentrava la maggior parte delle risorse dello Stato, per garantire la massima industrializzazione nelle aree maggiormente suscettibili di sviluppo. La maggior parte degli investimenti arrivavano al Sud del paese, attraverso progetti finanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno.
Giolitti inoltre scriveva nella sua relazione: “Tutte le nuove iniziative delle imprese pubbliche, dovevano essere realizzate nell’area Meridionale. Quanto alle aree industrializzate dell’Italia Nord-occidentale, si esprimeva la volontà di eliminare ogni forma d’ incentivi, e di predisporre strumenti atti a impedire l’ulteriore addensamento di attività economiche nelle zone più congestionate, consistenti in inasprimenti tributari a carico delle imprese che ivi si localizzeranno”.

L’economista Manin Carabba, giudicava in questo modo il Piano Giolitti: “(…) Va riconosciuto lo sforzo compiuto per la realizzazione di questo piano, il carattere di una meditata valutazione dei termini in cui una strategia delle riforme di struttura poteva inserirsi nella gestione di un’economia mista fondata sull’autonomia delle imprese nell’ambito delle scelte del Piano.”
I comunisti discussero della linea del centro sinistra rispetto alla programmazione economica in un convegno rimasto celebre e svolto nel marzo 1962 presso l’Istituto Gramsci.
 In quell’occasione comparvero i primi segni di incrinatura all’interno del Partito: successivamente alla scomparsa di Togliatti le differenze si sarebbero fatte più nette fino al “non sono persuaso” pronunciato da Ingrao all’XI congresso nel 1966 e alla radiazione del gruppo del Manifesto.
 Un nuovo ciclo di lotte sindacali bussava alle porte.
La compattezza della cultura marxista cominciava ad incrinarsi, interrogata da correnti di pensiero che non vi avevano mai avuto cittadinanza (l’esistenzialismo, i francofortesi, la psicoanalisi). In questo contesto era maturata l’esigenza di una rinnovata riflessione sui principi teorici, le strategie politiche, le strutture organizzative e gli stessi referenti sociali su cui il Pci aveva fondato il proprio radicamento nel primo quindicennio repubblicano. Di tale esigenza fu espressione il convegno del Gramsci, segnato da un memorabile scontro tra Giorgio Amendola da una parte e Bruno Trentin, Vittorio Foa e Lucio Magri dall’altra.
Per la cronaca, la tesi di Trentin - come di Foa e Magri - era che le forze più dinamiche della Dc avevano un progetto di modernizzazione economica e sociale del paese, basato su un patto neocorporativo tra grandi imprese e movimento sindacale, con cui bisognava confrontarsi. Amendola la liquidò seccamente, ritenendola avveniristica. Il compito del movimento operaio, fu la sua replica, era quello di supplire alle carenze di una borghesia assenteista, responsabile della storica arretratezza del Mezzogiorno, e quindi di tagliare le unghie alla rendita e ai monopoli.
. Dopo quasi sessant’anni, si può dire che Amendola non aveva torto quando sosteneva che, per vincere quella battaglia, era necessaria la riunificazione della sinistra in una prospettiva di governo. Ma Trentin, Foa e Magri avevano ragione quando sostenevano che il miracolo economico non poteva più essere interpretato con le tradizionali categorie dell’extraprofitto parassitario e del supersfruttamento operaio: cardini di un “capitalismo straccione”, appunto, che ormai non c’era più.


Intanto nel dicembre del 1963, si era formato il primo governo organico di centro- sinistra, presidente del Consiglio Aldo Moro e vicepresidente Pietro Nenni. Democristiani e socialisti hanno stretto un’alleanza di governo. «l’Avanti» titola: “Da oggi ognuno è più libero”. Ci sono grandi aspettative, la scuola, la sanità, l’urbanistica, la programmazione economica, le “riforme di struttura”. I socialisti spingono sul tasto riformista e i democristiani su quello moderato.  Il PSI però perde parte della sua ala sinistra che, in opposizione al governo, forma lo PSIUP. Nella Dc prende consistenza un coagulo conservatore e a guidarlo c’è proprio il presidente della Repubblica, Segni, che pure a Moro doveva tanto, anche l’elezione alla presidenza. Il 26 giugno del 1964, dopo essere stato battuto su di un voto riguardante il finanziamento della scuola privata, Moro rassegna le dimissioni.
Segni vorrebbe affidare il governo a un esponente della destra DC (Scelba, Pella o Leone) o a una personalità tecnica come Merzagora; Moro, intanto, cerca di convincere i quattro partiti della coalizione a pronunciarsi compatti sul suo nome, in modo da obbligare Segni a conferirgli l’incarico. Sul Corriere della Sera appare questo editoriale: «Abbiamo bisogno d’un governo d’emergenza per una situazione d’emergenza».
Ma non ci sono alternative e nessuno pensa di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni.  L’incarico di formare il nuovo governo torna a Moro. Seguono tre settimane di trattative difficili tra socialisti e democristiani. Sono le tre settimane che poi Nenni definirà quelle del periodo del “tintinnar di sciabole”.
All’apertura della crisi di governo, i comunisti denunciano che «gruppi apertamente reazionari approfittano delle attuali difficoltà per rivolgere un attacco contro le istituzioni democratiche e repubblicane, e in questo modo preparare le condizioni dell’avvento di un regime autoritario». Segue invito alla più grande vigilanza per le forze democratiche, le masse popolari e le organizzazioni della classe operaia. Il 3 luglio, una mobilitazione nazionale raduna a piazza San Giovanni circa centomila persone, convenute per ascoltare Giorgio Amendola e Palmiro Togliatti. E Togliatti dice: «In Italia la via per qualunque in- voluzione reazionaria è sbarrata; chi volesse attentare alla nostra libertà sappia che non ci sono speranze». La manifestazione, inquadrata da un servizio d’ordine di circa tremila militanti del PCI, si svolge tranquillamente e non dà luogo a nessun incidente.


Quello denunciato da Togliatti e che Nenni aveva indicato nel corso della crisi di governo, era il “Piano Solo”: un tentativo di colpo di Stato in Italia ideato da Giovanni De Lorenzo, comandante generale dell'Arma dei Carabinieri dell'epoca. Elaborato proprio nel corso della crisi politica del primo governo Moro, aveva lo scopo di occupare i centri di potere dello Stato e di imprigionare quegli oppositori politici considerati «sovversivi» secondo le valutazioni del Sifar, il disciolto servizio di intelligence delle Forze armate italiane.
Il 18 luglio l’accordo di governo è faticosamente raggiunto. Moro è di nuovo presidente del Consiglio. È un notevole passo indietro sui programmi del precedente governo. Riccardo Lombardi lascia la direzione dell’«Avanti» e il socialista lombardiano Antonio Giolitti, autore del piano di programmazione economica, rifiuta di partecipare al nuovo governo. Il centro- sinistra è rientrato all’ordine e il progetto di programmazione economica assume le pallide vesti di un centro di finanziamenti clientelari a diversi livelli.
Del “Piano Solo” si persero le tracce, ma qualche anno dopo, nel 1967, fu giornalisticamente “svelato” su «l’Espresso» da Scalfari e Jannuzzi. Un generale dei carabinieri, de Lorenzo, che ordisce contro quella repubblica che dovrebbe custodire.
La natura del centro sinistra nel suo profilo programmatorio-riformatore però era ormai radicalmente mutata e la sua crisi, conclamata dal risultato elettorale del 1968, avrebbe aperto una stagione complicata e incerta nella storia d’Italia avviata verso una fase di democratizzazione irta di difficoltà contrassegnate principalmente dalla stagione del terrorismo e dal fallimento della strategia del “compromesso storico” lanciata dal PCI.