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martedì 28 gennaio 2020

EPPUR SI MUOVE
di Fulvio Papi


Lettera al “Movimento delle Sardine”.

In questo saggio vorrei mettere a confronto le tesi che sono emerse dalla conferenza sul clima di Madrid, la presa di posizione molto netta che è derivata in ambito europeo e le analisi sociologiche che emergono dal lungo e prezioso lavoro di Bauman.
Il tutto dedicato alla protesta energica, preziosa, emotiva dei giovani che nelle piazze rivendicano il diritto di vivere in un mondo accogliente e non in una situazione ambientale che è percepita come generale degrado, il quale compromette le condizioni di esistenza delle giovani generazioni. Le “sardine” appunto, che oggi surrogano con efficienza, l’incredibile assenza che per decine d’anni ha caratterizzato l’insieme dei poteri pubblici su questi temi fondamentali, noti da mezzo secolo ai filosofi pensanti, affrontati invece al massimo con provvedimenti amministrativi di bassa qualità, quando proprio non se ne poteva fare a meno.
Ora, a questo riguardo abbiamo una progettazione (la forma di pensiero che il post-modern negava) la quale dovrà varcare il difficilissimo percorso dell’attuazione, dato che sappiamo bene quali sono le opposizioni, sia a livello economico, sia a livello politico - che intrattiene con il potere economico una condizione di dipendenza e di controllo sociale delle popolazioni - mantenendo, nel limite del possibile, la forma di un sistema democratico. Entro il quale tuttavia, è possibile operare per una finalità che, con parole di tradizione religiosa, si può chiamare salvezza. D’altro canto è necessario notare come la figura culturale dell’uomo nella nostra epoca, sia ben poco adatta a tutte le trasformazioni che sono necessarie per un vero ordine di sicurezza, al quale servono “virtù” che sono al tramonto.

* * *
Per quanto riguarda i risultati del convegno di Madrid mi avvalgo di ottime fonti giornalistiche che riassumono gli indirizzi fondamentali; i quali ci danno la certezza che, se non fossero realizzati, sia a livello della produzione che del consumo, ci troveremmo in una situazione talmente disastrata, da non poter essere governata da criteri che oggi ci paiono fondamentali. Cambierebbe quel mondo che noi, superficialmente, chiamiamo “il nostro mondo”, con una convinzione del tutto astratta, poiché gli equilibri sociali, economici, culturali e politici hanno già prodotto il “consumo del mondo”.
Ora riassumerò le iniziative che sono a mio avviso indispensabili:
Un ampliamento della spesa pubblica per mettere in sicurezza il patrimonio idrogeologico con tutte le conseguenze che esso comporta. A questo scopo è necessario un “fondo” formato da investimenti di natura azionaria.
Una produzione compatibile con l’ambiente e con una più ampia efficienza energetica. Una tassazione equa ma indirizzata a scoraggiare la produzione di anidride carbonica, e, al contrario, incoraggiare l’uso di energie rinnovabili.
L’abolizione dei contributi per l’uso di combustibili fossili.
Le Banche centrali devono mettere al centro della loro politica il tema dei cambiamenti climatici. Sono tutti temi validi che tuttavia richiedono una realizzazione analitica e concreta, ed è qui che avviene lo scontro con interessi, poteri e altresì costumi, abitudini, aspirazioni anche di una larga massa popolare ormai formata, nella sua stessa identità, da privilegi e consumi incompatibili con i criteri di “salvezza” che sono stati elencati.
Ed è a questo livello che deve rinascere a pieno il concetto storico di giustizia sociale con tutto il suo arco di valori, che sono decisivi per porre riparo al disastro sociale e ricostruire un mondo a misura di una figura d’uomo che la cultura della modernità aveva idealizzato e diffuso, e non una soggettività che diviene una merce come forma di scambio di altre merci (laddove finisce qualsiasi teoria del valore economico).
Sarebbe anche molto importante sapere con chiarezza quale sviluppo storico (chiamato in tutti i suoi aspetti di progresso storico, senza operare i più che necessari “distinguo”) ci ha condotto in questa situazione che esige, in tempi relativamente brevi, un révirement necessario, non solo oggettivo ma anche soggettivo; dove la nostra progressiva dotazione tecnologica, invece che darci una ragione di misura sociale e personale, di soddisfazione e di sicurezza, ci ha condotto sull’orlo di un abisso. Il che ha come possibile vigilia, una trasformazione antropologica che investe larghe zone sociali di quello che con spirito autoreferenziale (e glorioso) siamo soliti chiamare “civiltà”.
Una semplice domanda: sarà possibile realizzare le mutazioni necessarie a livello globale tramite il potere di Stati che oggi sono condizionati se non diretti dal potere di gigantesche Corporations internazionali, le quali dettano le condizioni del luogo, la relazione con l’ambiente, la dotazione tecnologica, il salario operaio? Oppure Stati che proprio dell’espansione economica di tipo capitalistico fanno lo strumento per la propria espansione politica nel mondo?
Ci vorrebbero analisi molto più rigorose, ma credo che “in generale” si possa dire che la globalizzazione economica, oltre gli effetti di cambiamento ben noti, ha favorito la configurazione sociale del mondo, nel modo che ho descritto e quindi una terapia estremamente difficile.
È come se il nostro desiderio di esistere e di trasmettere esistenza fosse imprigionato in un gioco insuperabile. Come se la forma tecnica del progettare fosse indifferente nei suoi fini al pensiero, anzi si presentasse come il solo pensiero che abbia un riscontro reale, cioè operativo, mentre ogni modalità progettante del pensiero secondo altre finalità antropiche, fossero favole che si raccontano uomini fuori dal tempo e fuori ruolo.
Ora cercherò, tramite la lettura dell’opera del celeberrimo sociologo Bauman “L’etica in un mondo di consumatori” (2008), di tentare di dare qualche ragionevole risposta ai temi della Conferenza di Madrid.
Quest’opera ha un vantaggio, dal punto di vista adottato, di riassumere temi essenziali di Bauman e di aprire prospettive di ordine generale che ci riguardano direttamente. Dal punto di vista metodologico dovrò solo aggiungere che l’oggettività presa in considerazione non è altro che l’epilogo contingente di situazioni che si sono evolute nel passato e che non rispondevano ad un ordine di necessità. Come, quasi al contrario, appare la qualità della nostra situazione, così quando adoperassi criteri controfattuali, essi appartengono alla strategia della conoscenza e non al gioco letterario delle utopie. Quasi come premessa alla lettura credo di dover dire che i dieci anni trascorsi dalla pubblicazione dell’opera, abbiano mutato alcuni orizzonti di cui bisognerà tenere conto.
La tesi secondo cui non esistono popolazioni di alcun paese che non siano “una somma di diaspore”, il che, per stare nei nostri dintorni, concorda perfettamente con la tesi di Ugo Fabietti secondo cui l’Identità etnica appartiene sostanzialmente a una strategia politica. Le identità sono fluide, e questa considerazione non solo mostra la ridicola aggressività pregiudiziale nei confronti del “differente”, ma anche la presunzione di poterne regolare l’esistenza tramite norme che appartengono alla nostra relatività. Citando Claude Dubar, Bauman conclude: “L’identità non è altro che al tempo stesso stabile e provvisoria, individuale e collettiva, soggettiva ed oggettiva […]. Questo significa che l’idea di una comunità integrante “si riferisce all’applicazione di un codice di comportamento […]”. Il che è già un criterio educativo per stabilire che cosa si dice quando si esalta un “noi”. Questo non significa - aggiungo io - che non esistano forme di appartenenza che possono essere molto diverse, sino a raggiungere forme criminali come il nazismo. Ciò che però è certo, è che oggi è morta ogni dialettica totalizzante che opponga un mondo ideale alla realtà di quello in cui ci troviamo.
La dialettica storico-umanistica aveva sostituito, nell’immanenza, “l’altra vita”, “il paradiso”. Non ci resta che la morale di tradizione cristiana, del “rispettare la reciproca unicità”. Questo criterio di moralità e di saggezza è l’obiettivo di una vita che (alla Husserl e, meglio alla Lévinas) ha compreso come, se si abbandonano i pregiudizi relativi alla nostra identità, scopriamo che la soggettività deriva dall’alterità e dal suo “essere per l’Altro”. La formula filosofica va tradotta così: la nostra soggettività ha senso morale solo in quanto è per gli altri. Criterio che ulteriormente tradotto dice: una generazione che tramite una qualsiasi ideologia consumi il mondo per sé, senza futuro per gli altri, è priva di responsabilità, segnata da un vergognoso edonismo del consumo, nel quale di esercita l’assoluta libertà individuale priva di qualsiasi senso di colpa, mentre vive solo il rapporto tra possibile e impossibile: una situazione che è realizzabile solo in quanto questo comportamento è in realtà un comando sociale.
Bauman cita James Livingston per definire in generale questa società di consumatori: “la forma merce penetra e trasforma ambiti di vita sociale fin qui esenti dalla sua logica”. Credo sarebbe corretto rifarsi alla concezione di Marx sulla circolazione veloce del capitale come criterio fondamentale per l’accrescimento del profitto. Che non è un “motore ascoso” ma il corrispettivo della formazione sociale del consumatore, sempre aperto a merci che rendano più valida quella formazione personale, la quale deriva proprio dalla relazione con le merci. Così come qualsiasi forma di imprenditorialità preferisce il “libero lavoratore” (Marx) a chi abbia impegni affettivi o sociali.
Questi temi di Bauman, a mio parere vanno proiettati per una maggiore conoscenza della loro storicità: il che non vuol dire della loro necessità, ma dell’insieme di conseguenze materiali e ideali che ne hanno consentito lo sviluppo. Del resto chiunque sa che il capitale finanziario attuale è tutt’altra cosa dalle note marxiane del 22° capitolo del III volume de “Il Capitale”.


Marx aveva ben chiara l’autonomia dell’economico, e oggi sulla trasformazione del capitalismo globalizzato possiamo fare ipotesi differenti, e tuttavia il fatto che oggi il dominio di questa forma di riproduzione sociale abbia condotto alla soglia della trasformazione del pianeta, è una conoscenza (possibile 50 anni fa), ora diffusa e più che comprensibile ragione di ansia e terrore sociale per le generazioni viventi. Tanto più che questa conoscenza si riferisce all’”armento” dell’Occidente, ed ha come sfondo la valorizzazione di un’epoca della libertà nella comunità, del consumo nel bisogno, della responsabilità, della possibilità politica di intervenire sul processo dell’economia di mercato potendo usare strumenti di differente natura.
Non era il “mondo della sicurezza” di Zweig, ma di certo quello “solido” di Bauman.
Posso aggiungere che la visione di una realtà sociale liquida di Bauman, oggi mostra qualche differenza sia nell’Occidente che nel resto del mondo globalizzato, la quale richiede nuove indagini e nuove sintesi.
La figura la cui psicologia è prevalentemente determinata dalla forma sociale del consumatore, elabora la propria identità secondo un sistema di diritti che investono radicalmente l’etica sociale, la morale individuale, la devozione religiosa, la dignità nazionale, il valore ideale della cultura. Si tratta di un personaggio che può anche assumere l’abito del valore che ho richiamato, ma essi sono regolati sempre dall’assioma della psicologia dominante, quando, facilmente, il suo atteggiamento idolatra nei beni del suo consumo, non sia tanto abile da sortire la simulazione e la finzione.
A questo modo di costituisce una quantità di individui singoli che sono una falsa comunità, solo in quanto forza collettiva la quale esige il riconoscimento come pubblica legislazione di quelli che suppone siano i suoi diritti, i quali non possono avere altro fondamento, se non quello che un soggetto “corrotto” retroflette su se stesso. È una prospettiva che insieme alla altre di cui ora daremo cenno, nasconde il passato come una eredità di cui è necessario liberarsi per rendere insuperabile la forma sociale del presente, che annulla qualsiasi programmazione per il futuro.
Nel libro di Bauman troviamo la configurazione di una oggettività che ristruttura del tutto i valori che si sono sviluppati nel nostro mondo dalla Rivoluzione Francese in poi. Portiamo alla luce quelli che ci paiono più rilevanti. La fine della politica come rapporto tra reale e l’ideale. Si riduce all’amministrazione dei diritti che la collettività degli uomini-consumatori ritiene propri. La parità dell’atteggiamento nei confronti del consumo fa scomparire le disuguaglianze economiche. La rete non è una struttura etica, è piuttosto dominata dall’improvvisazione: la rete nasce dalla rete. A livello personale non c’è più il valore della promessa. La felicità si afferma solo come autocompiacimento. Anche senza procedere in questa fenomenologia dell’esistenza che arriva ad Adorno ed Horkheimer, possiamo dire che siamo caduti in un luogo dove il capire, al di là di una microprassi, non ha alcun valore di libertà e la ragione tramonta come un costume la cui moda è terminata, che abbiamo ricevuto: “Subordinare la creatività culturale ai parametri e ai criteri del mercato dei consumi significa chiedere alle creazioni culturali di rispettare il prerequisito di tutti gli aspiranti prodotti di consumo, e cioè legittimarsi in termini di valore di mercato (il valore di mercato corrente, naturalmente) o perire” (Bauman). Forse non così radicali, ma queste parole ricordano direttamente la posizione rigorosamente critica che assunse Adorno al tempo del suo lungo esilio a proposito della cultura “popolare” americana. Questo per dire che la circostanza descritta da Bauman ha già provocato una sua selezione di scopi e indirizzi, di tecniche.


Ed ora esaminiamo brevemente la situazione internazionale in cui cade questo tramonto dell’Occidente che, nella competizione con le altre culture, ha trascinato la vita sul pianeta terra in un servizio per un dominio tragico.
Bauman cita Kapùscinskj e la sua analisi del declino dell’Europa dopo circa 5 secoli di dominio mondiale: “L’Europa non è più il sito prioritario. La “presenza europea” è sempre meno visibile, sia fisicamente che spiritualmente.” Denis de Rougemont: “L’Europa ha scoperto tutte le terre del pianeta, ma nessuno ha mai scoperto l’Europa”.
Le famose “esplorazioni” comportano il dominio, lo sfruttamento delle risorse, il trasferimento dei sistemi giuridici. Dal punto di vista di un’Europa in decadenza abbiamo considerato gli Stati Uniti come un impero in espansione mondiale. Ma è una prospettiva esagerata: il debito pubblico americano (cioè l’acquisto di denaro) è elevatissimo per sostenere il livello della produzione “dei consumi”, la spesa per l’armamento e quindi per la potenza militare, di gran lunga la più potente, ha un suo valore occupazionale interno, ma l’effetto imperiale è di molto calato. Anzi, l’esercito americano può procurare più danni di un qualsiasi attacco terroristico compiuto da un armamento il cui costo è irrisorio. Questa circostanza trasforma la vita delle città in luoghi di conflitto con quasi invisibili “eserciti”.
Ci sono dunque le condizioni economiche e politiche perché gli USA debbano abbandonare il sogno di dominio del mondo: “anzi vi sono consistenti motivi per presumere che questa superpotenza potrebbe diventare una delle cause principali della mancata prevenzione del disastro”. Bauman ritiene che l’Europa, nonostante il suo declino, possa offrire al mondo la via culturale che conduce alla “allgemeine vereinigung der menschheit” di tradizione kantiana. Se l’Europa non si attrezzerà per realizzare questo compito, sarà la sua fine storica. Ma è una prospettiva reale? Sarebbe necessario, alla Habermas, rendersi conto che le nazioni – Stati attuali non hanno alcuna fondazione propria, ma derivano da complessi rivolgimenti storici, e quindi l’Europa attuale definisce se stessa proprio in quanto assume la sua cultura come fattore possibile di coesione mondiale e di salvezza collettiva. Tuttavia la scena politica dell’Europa oggi è dominata in misura non indifferente misura da parte di popolazioni che, nella loro autoreferenzialità, possono essere individuate come volgari plebi idolatre, le quali non hanno niente a che vedere con la nozione etica di popolo. È il timore di perdere anche una sola briciola dei privilegi di cui ora dispongono, ad alimentare queste paure difensive che chiedono per sé, soprattutto la sicurezza. Quindi la proliferazione di muri e di separazioni che possono dare un’identità pericolosa proprio per il loro stesso equilibrio.  Poiché nessun muro protegge dall’invasione globalizzata dell’economia, dai costi sociali di produzione, dalla concorrenza sul mercato mondiale. Si tratta di popolazioni la cui struttura statuale è poi quasi - non sempre - paralizzata (se non per modeste operazioni) da un debito pubblico che mette in difficoltà qualsiasi vasta decisione di trasformazione necessaria dello spazio antropico, in un mondo che, così com’è, diventerà vivibile in condizioni che, dal punto di vista ecologico nella nostra storia (non in quella dell’Universo) non hanno precedenti. È ovvio riconoscere che una china di questa natura necessariamente renderà obbligatorio un impoverimento senza regole, il quale aumenterà il disagio sociale e le sue conseguenze. Questi temi li ho aggiunti io stesso, ma sono coerenti con le analisi di Bauman. Egli infatti riassume la situazione in una semplice dicotomia: “Una è la logica dell’arroccamento locale, l’altra è la logica della responsabilità e delle aspirazioni globali”.
Teniamo presente che la scelta dell’arroccamento non è nient’altro che la ripetizione distruttiva della tendenza che, nell’epoca moderna, ha condotto alla formazione degli Stati.
Niente è “essenziale”, tutto è storico: tutto quindi è soggetto al mutamento che può essere regolato da tecniche razionali o che cercano almeno di limitare i danni del mutamento naturale ed economico. O esso viene abbandonato alla gestione statale, residuo storico di altre epoche, o quindi vi saranno conflitti, comunque giocati, di natura locale tra Stati territoriali. Uscire da questa situazione, aggrava oggi dalla forma tradizionale della crescita economica della Cina e della sua politica di espansione finanziaria, senza parlare dell’India, richiede una politica globale che solo può tener testa al dominio mondiale della potenza economica. È la tesi di Bauman-Habermas, non priva di una tonalità utopistica che, quando fu formulata, non teneva conto di una cauta espansione capitalistica sull’“economia verde”, intorno alla quale non abbiamo dati sufficienti per formulare un giudizio. Quanto all’aura utopica sappiamo da una sociologia di 50 anni fa, che esiste una utopia letteraria vana: ed esiste, al contrario, un’utopia che è l’orizzonte ideale di obiettivi conseguibili i quali danno il senso della propria azione, e quindi anche il senso di se stessi.
Questa seconda e utile utopia crea le proposte di indirizzo che sono note a livello europeo, così riassumibili:
La tassa sul carbone nella prospettiva di una “economia verde”. Lo stesso provvedimento per chi raggiunge vantaggiosi costi di produzione mediante salari bassi attraverso i quali deriva questa posizione. La Web Tax contro l’evasione fiscale, che porta l’utile da qualsiasi attività produttiva nei cosiddetti “paradisi fiscali” - prospettiva che Trump, sempre in linea contro qualsiasi forma di giustizia sociale, ha già cercato di contrastare con il sistema dei dazi.
Ora, ciascuna di queste prospettive, pure nel quadro che ho fatto con Bauman, è politicamente perseguibile con mezzi democratici e del tutto pacifici, quali, per esempio, una ristrutturazione dei consumi, cosa assolutamente possibile, se, eticamente, trasformiamo il “consumatore” il quale appartiene ad un mercato capitalistico finalizzato da una qualsiasi forma di profitto, con un mercato “deciso” dai cittadini.
Una modificazione di questo genere comporta uno stile di vita molto più sobrio, privo di sovrabbondanza e di sprechi. Uno stile che valorizza altre forme di identità e di finalità.
Come si vide la prospettiva di “salvezza” (per usare questa forma metaforica molto forte) dipende anche del nostro modo di essere nel mondo. Siamo in uno spazio - di cui non sappiamo la consistenza - sempre difficile, poiché il tempo gioca quasi sempre a favore dei poteri, che nella teoria può identificare ancora l’etica con la politica.