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sabato 25 gennaio 2020

IN MEMORIA DI SALVATORE PRINCIPATO
di Fulvio Papi

Nell’agosto del 1944 era ancora un periodo in cui come in altri, alle ore 19.30 andavo alla stazione di Stresa ad aspettare mio padre che arrivava con il treno da Milano, dove cercava, coraggiosamente, di mandare avanti il suo lavoro per sopravvivere in un luogo - la città - desolato, affamato, spaventato, occupato dalle peggiori bande della Repubblica di Salò e dai tedeschi che improvvisavano rastrellamenti per mandare gente a lavorare in Germania. Ma l’orario spesso non era rispettato, e dopo le 20 iniziava il coprifuoco, così per tornare a casa bisognava patteggiare con la brigata nera le cui pattuglie di sorveglianza, per eccesso di zelo o di timore, aprivano il fuoco appena si profilava un’ombra a un angolo di strada.
Quella sera per tornare a casa invece non ci furono particolari difficoltà. Mio padre era ancora più silenzioso del solito, mi chiese in modo distratto com’era andata la pesca, alla quale occupavo le mie mattine dopo la sua partenza per Milano. Le poche pagine del giornale restarono piegate in quattro nella tasca della giacca. A casa di solito commentava qualche titolo con mia mamma. Fui invece io che presi il foglio e lessi la notizia che in piazzale Loreto erano stati fucilati 15 prigionieri antifascisti, come rappresaglia per l’attacco a un autocarro tedesco della sussistenza. Scorsi velocemente i nomi dei fucilati e trovai quello di Salvatore Principato, maestro della mia scuola elementare “Leonardo da Vinci”. Parlai: “Ma vi siete accorti hanno ammazzato il maestro Principato”. Mio padre: “Lo so purtroppo, ma volevo che tu non vedessi il giornale.”. Io stesso: “Ma perché?”. Mio padre rispose: “Era un socialista.”



A me i nomi allora non dicevano molto, ma che avessero ucciso il maestro Principato mi scatenò un momento di furore, che poi la memoria dei tempi delle elementari trasformò in un dolore silenzioso, in un’opaca solitudine, in un cieco desiderio di replica. Tutti sentimenti penosi che non trovavano alcuna possibilità di quietare in qualsiasi senso l’emozione senza scampo: “Hanno ucciso il maestro Principato.” Era la sola verità che dominava l’adolescente che cominciava a ricordare un poco precipitosamente. Allora il regolamento scolastico stabiliva che sino alla terza elementare fossero le maestre a provvedere all’educazione dei bambini. Ma, dopo la terza, i piccoli candidati guerrieri (come li immaginava il potere fascista) dovevano passare alle cure di figure maschili. E qui le mamme facevano a gara per ottenere che il loro bambino entrasse a far parte della classe affidata al maestro Principato.
La sua fama come educatore paterno e competente andava ben oltre il perimetro della scuola. Ricordo che Principato sorridendo diceva che a lui sarebbero arrivati una trentina di ragazzi, come volevano le norme della scuola. Gli altri ed altrui maestri anch’essi - diceva - capaci e buoni custodi dei bambini che venivano loro affidati. Ai primi di ottobre la sorte di ognuno di noi era decisa. A me capitò un maestro competente, fascista solo per la camicia nera il sabato, privo però del lessico dominante nella scuola del regime. Ma continuai ad invidiare gli scolari del maestro Principato che, molto più di altri, diventava, col tempo, la figura e il nome che custodivano il ricordo della mia (amata, lo devo dire) “Leonardo da Vinci”.
Ora il tramonto sul lago luminoso era molto più difficile: sentivo mia mamma nel suo inevitabile triestino che diceva: “Cussì una brava persona”. Mio padre taceva e sfogliava, con una attenzione non priva di una sua menzogna, le sue carte del lavoro. Io ero precipitato nell’abisso del silenzio privo di futuro, che poi, proprio ricordando il maestro, pure ci dovrà essere.