Pagine

martedì 14 gennaio 2020

LA FABULA NERA DI ROCCABRUNA
di Claudio Zanini

Claudio Zanini

«Sei stanco?» domandò Porta al ragazzino.
Il figlio fece di no con la testa. Era tutto accaldato e il freddo gli aveva arrossato le guance.
«Perché li ammazzate?» domandò brusco, e gli uomini furono colti di sorpresa.
Il padre lo guardò con ammirazione; con quella cartucciera infilata al braccio pareva più grande della sua età.
«Perché ci pagano» rispose secco.

Questo dialogo, tratto dall’ultimo di quindici racconti de L’incendio di Roccabruna, si riferisce all’eccidio dei cani randagi e malati d’un canile. È l’ultimo episodio d’una catena di efferatezze, vendette, ammazzamenti brutali d’uomini e bestie. Sono quindici racconti dello scrittore calabrese Angelo Gaccione, dove si narra di inauditi misfatti avvenuti nel corso degli ultimi due secoli a Roccabruna, paese dal nome immaginario ma verosimile, in Calabria.
In questa fabula nera, che potrebbe tener discosti i lettori con il suo orrore, si verifica, tuttavia, il sortilegio dello stile. Chiarisco: l’autore si esprime con una lingua ricca seppure essenziale, secca e diretta che non si perde in oziose divagazioni letterarie ma, appassionando e coinvolgendo il lettore, mette immediatamente a fuoco il nocciolo amaro e straziante della storia.
Sono racconti la cui brevità fulminante (storie spesso racchiuse nello spazio di tre, quatto pagine) permette il raggiungimento d’una tensione estrema che, in un testo più lungo, perderebbe la sua efficacia.
Storie atroci, dunque. Ma non del tutto, perché l’orrore che da essi trapela è, tuttavia, attenuato dal linguaggio sostanziato da una vena dialettale che pervade il loro crudo realismo di fondo, smorzandone i toni. Inoltre, a rafforzare tale aspetto, vale a dire a distanziarne la drammaticità, una serie di detti, modi di dire, proverbi e leggende popolari, aggiungono un tono favolistico alla narrazione; aspetto questo che mi ricorda il bel film di Matteo Garrone, Il racconto dei racconti.  
A rendere la fabula d’ancora più agevole lettura concorrono, insieme al racconto diretto, vari artifici come l’impiego di antichi documenti ritrovati, cronache del passato, memorie di lontani testimoni, racconti di protagonisti in prima persona e narrazioni oggettive, secchi dialoghi e serrate descrizioni.
Grazie a tali espedienti, Gaccione rende la narrazione viva, in grado di catturare l’attenzione del lettore - che legge d’un fiato un racconto dopo l’altro-, suscitando in lui sentimenti di sdegno e umana compassione, una profonda pietas, per gli sciagurati protagonisti dei fatti raccontati.
Nel tratteggiare tale fosco scenario, l’autore, che parrebbe “ossessionato dal male” come dice Giuseppe Bonura nella postfazione del libro, è mosso da una straordinaria passione civile. Si percepisce quanto s’immedesimi nei personaggi, nella loro anima nera (dice, con una sorta di sgomento, che è terrorizzato, “pensando a che sangue mi scorre nelle vene”), perché il loro è anche il suo sangue.
Gaccione ci guida in una sorta di girone infernale. Universo chiuso gravato da una violenza ancestrale vigente in una società arcaica sostanziata da un equivoco senso dell’onore. Dove dominano ineludibili e coercitivi legami di sangue che, causa un qualsiasi piccolo sgarro, innescano una trafila infinita di vendette che coinvolgono vecchi, donne, bambini e financo animali. Creature che s’azzannano l’un l’altro con ferina furia; si dibattono in storie truci di sgozzamenti, vendette, stupri, inaudite prevaricazioni del potere.
Un mondo cupo, dove l’altro viene visto con sospetto, come un potenziale rivale, un estraneo da temere e da cui guardarsi. Oppure, domato, come carne da lavoro da sfruttare brutalmente, fino allo sfinimento. Una realtà dunque dominata da un destino implacabile cui è impossibile sottrarsi, privo della minima speranza di riscatto; dove anche la legittima ribellione degli sfruttati annienta fatalmente, con la feroce uccisione degli oppressori, ogni anelito e possibilità di giustizia. Il sopraffatto diventa sopraffattore a sua volta in una folle coazione a ripetere.

Claudio Zanini

Morivano di fame sotto i feudatari borbonici, e continuarono a morire di fame sotto gli anti-feudatari giacobini. (…) Poveri e ignoranti sotto l’aristocrazia feudale, poveri e ignoranti sotto la borghesia rurale giacobina. Superstiziosi e rozzi sotto la bandiera della Restaurazione, superstiziosi e rozzi sotto la bandiera della Rivoluzione.(pg. 55)
Aggiungiamo a questo elenco, in una realtà più recente, preti in combutta con il potere e i “galantuomini”, quindi grandi proprietari terrieri e imprenditori del profitto capitalista.
Qui mi corre il pensiero a Tomasi di Lampedusa, alla frase che ha messo in bocca di Tancredi, nipote del principe di Salina ne Il Gattopardo: “perché tutto rimanga come prima, tutto deve cambiare”.
Il potere cambia volto, ma la sua essenza resta la stessa.
Così come le vittime sono sempre le stesse: i più deboli e i più miti, i miseri pastori e i braccianti, i proletari e le loro famiglie.
Roccabruna è il mondo. Un piccolo paese immaginato dove si rappresenta l’intero mondo.
Dunque, sopraffattori e oppressi. Aguzzini e vittime. La tracotanza dei primi e la riduzione a cosa dei secondi. Padroni e servi. Uniti in una dialettica perversa che, nonostante preveda quel capovolgimento di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, in cui il servo sostituendo il padrone ne prende il posto; accade che, (con il posto) ne assume, tuttavia, anche la potenza oppressiva che deve esercitarsi su altri servi. Non se ne esce se non eliminando dalla scena entrambi i ruoli che le figure incarnano.
Per concludere, ritorniamo all’incipit, alla citazione dell’agghiacciante dialogo tratto da L’uccisione dei cani. Il truce racconto ha un inatteso e sorprendente sviluppo. Vi s’intravede un barlume di speranza quando il giustiziere degli animali vede una lacrima spuntare dall’occhio d’una cagnetta esile e macilenta, ultima rimasta viva della carneficina. Il bambino è impietrito. Il padre esita, si blocca, non riesce a  sparare. Il cane è ucciso dal suo ben più spietato e cinico compagno cui è sottoposto. Ma nell’uomo qualcosa s’è risvegliato nella coscienza. Forse non subirà più il dominio del padrone; né, libero, eserciterà la sua potenza distruttiva negli altrui confronti. Forse vivrà in una società aperta, dove l’altro è il suo rispecchiamento. Lui è l’altro.
Una notazione. Il libro di Gaccione mi ha ricordato, tra tanti testi, due film. Quello di Olmi, L’albero degli zoccoli, dove la stessa umanità diseredata si dibatte nella pianura Padana, tra il morso delle miseria e la tracotanza dei potenti senza, lo notai quando lo vidi, reali prospettive di riscatto.
L’altro film l’ho già citato e si tratta del film di Garrone, Il racconto dei racconti che, tratto dal libro Lo cunto de li cunti (1634), di Giambattista Basile, mette in scena con un linguaggio fantasioso e favolistico, lo stesso mondo crudele e mostruoso di Roccabruna e dintorni.


Angelo Gaccione

L’incendio di Roccabruna
Di Felice Edizioni 2019
Pagg. 120 € 12,00