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mercoledì 12 febbraio 2020

Musica
IL TROVATORE 
di Gabriele Scaramuzza



È in corso ora alla Scala (e siamo nel febbraio del 2020) la rappresentazione di Il Trovatore, in coproduzione col Festival di Salisburgo del 2014. In generale posso dire che ho apprezzato questa edizione: buona mi è parsa la direzione di Luisotti, bravi gli interpreti, soprattutto Violeta Urmana, classica Azucena ormai; ma anche Liudmyla Monastyrska, Massimo Cavalletti, Gianluca Buratto hanno dato il loro meglio. Francesco Meli è ormai una presenza fissa alla Scala, nei ruoli più disparati; la sua è più una voce da Cavaradossi che non da Manrico; ma si ascolta volentieri dovunque. Quello che mi ha lasciato perplesso è invece la regia, ci tornerò. Più in particolare ho gioito che non abbiano trascurato (ci mancherebbe altro, ma non è raro che succeda) Tu vedrai che amore in terra all’inizio del quarto atto; non è stata ripetuta come credo si debba, ma almeno c’è stata. Del resto così faceva anche la Callas, che non ripeteva (purtroppo a mio avviso: al dettato verdiano ci si deve attenere) neanche l’Addio al passato.
In quanto segue riprenderò anche notazioni già presenti nel mio Incontri. Per una filosofia della cultura (Milano, Mimesis, 2017, pp. 101-108).   
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Ed ora qualche considerazione generale sull’opera. Nella mia ottica, per il grado del coinvolgimento personale, La Traviata resta inarrivabile. Ma trovo Il Trovatore più compatto: non ha quei momenti di cedimento che in Traviata a mio parere sono le cabalette di Alfredo e di Germont all’inizio e alla fine della prima parte del secondo atto; in fondo anche l’aria di Alfredo che apre il secondo atto non è granché. 
Da tener conto è inoltre che, ancorché Il Trovatore venga indicato come “dramma in quattro parti” (laddove Luisa Miller, Rigoletto e La Traviata, assieme ad altre opere, vengono indicate come “melodramma”), esso resta indubbiamente tra le più melodrammatiche delle opere verdiane, ma di un melodrammatico che non decade mai a kitsch. È dramma fatto di lunghi racconti, è anzi un racconto di racconti, che riprendono il passato, ma per farlo reagire con violenza sul presente; è davvero in gioco quel “passato carico di adesso” di cui dice Walter Benjamin. La presenza ossessiva di ricordi lugubri muove l’azione, la condiziona; passato e presente interagiscono tra loro. Cupe memorie si fanno presentimenti e inquinano il futuro.
Non mancano nel Trovatore motivi grotteschi; ci si ritrovano ben presenti tratti caricaturali e palesi esagerazioni, spesso denunciate. Si pensi al linguaggio truculento del Conte, ai raccapriccianti racconti di Azucena, ai toni drastici di Manrico. È l’opera più complicata e sfuggente di Verdi, la meno afferrabile, la meno “realistica”; si svolge in un’atmosfera rarefatta, fuori del tempo. Che sia proprio questo che la regia - con la mescolanza di epoche, con gli slittamenti di toni che la caratterizzano, vuol dire?
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Due parole sulla regia dunque: Ronny Dietrich nel suo Una notte al museo scrive: “In un continuo mutamento di prospettiva la musica di Verdi si configura da un lato come osservatrice neutrale della situazione, per poi calarsi ex abrupto nell’intimità più recondita dei protagonisti e sondare con estrema precisione le loro emozioni. Parallelamente assistiamo a una continua dissolvenza incrociata di passato e presente, secondo una modalità che potremmo definire cinematografica. Il regista Alvis Hermanis, che ritiene impensabile separare la trama del Trovatore dal suo contesto storico, ambienta la messa in scena in un museo, un luogo in cui il passato esiste in un modo particolare e possiede una propria realtà. Ciò che lo affascina sono soprattutto le persone che vi lavorano come guide turistiche o assistenti museali”.
E Dietrich continua ricorrendo alle parole del regista stesso: “È interessante osservarle [le persone in gioco]; quello cha passa loro per la testa si può solo supporre. Non di rado ci si avvede che condividono il sentire dei dipinti affidati alla loro sorveglianza, dei personaggi raffigurati, e che quando li descrivono si identificano con loro o addirittura se ne innamorano. La nostra messa in scena del Trovatore comincia alla fine di una giornata in un non meglio specificato museo. A eccezione di Manrico tutti i personaggi della trama sono impiegati del museo stesso. All’inizio li seguiamo nelle loro attività quotidiane, finché arriva l’ora di chiusura e sopraggiunge la notte. I piani di realtà cominciano a confondersi. Sono i quadri a prender vita o i nostri protagonisti a esser proiettati in sogno nel passato? Per me i dipinti sulla loro superficie recano ancora la realtà del momento in cui sono stati creati, anche se, come nel caso dei quadri del ‘nostro’ museo, sono passati ben cinquecento anni. Uno spazio museale funziona come una macchina del tempo: rende viva la realtà e risveglia in noi la nostalgia per la storia che scompare. E quanto più Verdi lavora sulla scala delle emozioni mettendo in scena lo stretto rapporto tra amore e morte, tanto meno importante diventa la trama: assistiamo a una dissoluzione dello spazio e del tempo” (i brani appena citati si trovano tutti - tradotti dal programma di sala del Salzburger Festspiele del 2014 - nell’omologo programma dell’attuale edizione scaligera: Il Trovatore, Stagione d’Opera 2019/2020, Edizione del Teatro alla Scala, 2019, pp. 96-99).
Un interrogativo resta tuttavia qui aperto, a mio avviso, e riguarda i quadri scelti: perché proprio quelli tra i molti che affollano la scena del Rinascimento? 



Nel racconto si accumulano fatti enigmatici, difficilmente comprensibili, e che mai verranno chiariti. Già l’episodio da cui tutto si origina è denso di stranezze, di superstizioni; un’aura di non detto, di mistero circonda gli eventi e non si dissipa. È un dramma dove tutto è portato all’estremo; e l’eccesso com’è noto è un ingrediente fondamentale del melodramma.  
Vediamo l’inizio: una brevissima introduzione orchestrale prepara il recitativo che apre il dramma. È notte: Il Trovatore è un’“opera nera, notturna (la notte regna quasi costantemente) e funebre” (Gilles De Van); ed è un’opera di solitudini totali. Subito Ferrando narra l’arcano e inquietante antefatto: racconta della madre di Azucena, del malocchio da lei gettato sul figlio del Conte, della sua condanna (a sfondo razziale e xenofobo, trattandosi di zingare, e straniere) al rogo; e di Azucena che riceve in eredità la missione di vendicare la madre, rapisce il bambino e lo brucia; cadendo tuttavia in un raccapricciante e fatale scambio di persona. C’è però un presentimento del vecchio Conte, che anticipa quel che verrà (e cioè che suo figlio vive). Soprattutto compare già il rogo: il fuoco è un tratto dominante dell’opera, subito associato alla figura della zingara. 
Dopo il racconto di Ferrando entra in scena Leonora che, in Tacea la notte placida ricorda il nascere del suo amore per Manrico. Il suo linguaggio musicale la rende diversa dagli altri personaggi, nella cui famiglia non rientra; il passato certo finisce con l’incombere anche su di lei, ma non le manca qualche accento liberatorio: è l’unico personaggio a rispondere a un passato cui non ha partecipato, non resta chiusa in esso. Ma subito mette in gioco il legame tra amore e morte che segna il suo destino: dell’amore dice: s’io non vivrò per esso, / per esso io morirò; questa alternativa torna continuamente, anche in Manrico. Leonora è il personaggio più sfuggente, forse il più enigmatico dell’intero dramma. Vive l’amore, ma ha continui presentimenti di morte, di annientamento. È disposta anche a morire pur di non cedere al Conte: Vibra il ferro in questo core, / Che te amar non vuol, né può.
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Motivi psicanalitici sono presenti nel testo: “La mia tesi è che nel Trovatore Verdi abbia dato espressione al conflitto basilare tra pulsione di vita e pulsione di morte” (Fabrizio Della Seta). Questo conflitto è presente in pressoché tutti i personaggi, emblematicamente in Leonora, che ha nette tendenze masochiste.
Le stesse melodie del Trovatore, trascinanti, facilmente memorizzabili, sono costruite secondo schemi tradizionali (guardano al passato dunque), non disdegnano la dimensione arcaica della ballata popolare, che a volte mostra uno scollamento tra parole e musica, che scorrono su binari diversi: l’orrido che è raccontato e la forma da cantastorie del racconto. C’è “una leggera distanza dell’autore che aderisce alla storia senza lasciarsene completamente abbindolare” (De Van). Verdi fa uso di effetti stranianti, sembra anticipare Brecht in questo; non a caso Luciano Berio fa un remake di Il Trovatore (in La vera storia, rappresentata alla Scala nel 1982), in cui accentua la vicinanza a Brecht.
Restando a Berio, anch’egli aveva scorto nel Trovatore risvolti psicanalitici. In un suo intervento del 1974 dal titolo Verdi? scrive che, come la morte di Wozzeck, così le morti di taluni personaggi verdiani “non solo suscitano pietà e commozione: si tratta, anche, di morti che accusano”. E aggiunge: “Pensate per un momento al finale di Rigoletto e di Traviata (il Trovatore, come tutti sanno, è una faccenda più oscura e freudiana)”. E certo non è semplice capire chi e cosa accusino le morti del Trovatore.  Fabrizio Della Seta sottolinea la eccentricità di quest’opera nel mondo verdiano, e la “difficoltà di coglierne un messaggio, un significato”, che invece è più agevole cogliere in altre opere quali Rigoletto e Traviata. E ricorre appunto a temi psicanalitici, in effetti molto utili per interpretare personaggi e situazioni.     
La conclamata oscurità del testo (comunque tale fino alla prima scena del secondo atto inclusa, a parere di Della Seta) è da lasciar valere in quanto tale, così come si manifesta; senza angosciarsi a scioglierla come se fosse un difetto cui rimediare, o a farla valere come giudizio negativo. Leggiamo: “l’apparente illogicità del libretto […] è tale rispetto alla logica”, discorsiva, diurna; “la vita emotiva ne segue una propria totalmente diversa”, imprevedibile. Riprendendo Francesco Orlando, Della Seta dichiara che non siamo di fronte a un “banale psicologismo dell’autore o del personaggio”, bensì a una concezione del drammatico-musicale “come sistema simbolico strutturato secondo principi formali analoghi a quelli che governano le manifestazioni dell’inconscio”. Talché Manrico può ben essere vuoi figlio di Azucena, vuoi fratello del Conte; senza rispettare il principio di non contraddizione. L’opera è costruita come montaggio di blocchi netti, contrapposti; che mutano, si contraddicono, ma insieme ignorano la propria contrapposizione, non la vivono come una mancanza ma con naturalezza.   



Dopo Ferrando e Leonora, entrano in scena pressoché contemporaneamente il Conte di Luna e Manrico. Il Conte non ha ricordi, vive nel suo presente, soggiogato dalle sue passioni. Ha tratti nettamente sadici, un linguaggio truce, violento sempre. È dominato da un erotismo cupo, da un amore esasperatamente geloso ed esclusivo, che muove il suo inestirpabile proposito di vendetta su Manrico, il rivale amato da Leonora. 
A tutta prima non è dramma di ambivalenze psicologiche Il Trovatore; sembra anzi piuttosto semplice nel suo susseguirsi di melodie felici, agevolmente godibili, e di personaggi monolitici. I protagonisti tutti non si tormentano in dubbi e conflitti dichiarati. Esplosioni veementi e drastiche li caratterizzano. È opera di passioni nettamente delineate, travolgenti: la gelosia è vera e soltanto gelosia, l’amore è di slancio e non conosce sfumature, l’odio è irrimediabile, la vendetta indiscutibile, atroce. È un’opera estroversa Il Trovatore, quanto è intimista La Traviata, composta nello stesso periodo, e rappresentata pochi mesi dopo - e ci si potranno chiedere le ragioni nella personalità di Verdi di una simile contemporaneità. Ma va anche letto in controluce Il Trovatore; e qui la psicanalisi, come s’è visto, può fornire utili strumenti e rivelare un angosciante sottofondo di non detto.  
Manrico (l’unico a cantare anche fuori scena) è in certo modo simile a Leonora nell’accostamento tra amore e morte: Amor, sublime amore, ma se è destino che cada, aggiunge, solo in ciel precederti / La morte a me parrà; invoca la morte e si lamenta che sia “tarda nel venir”. Vive il conflitto tra l’amore per la madre e quello per Leonora, che si intralciano vicendevolmente, si rincorrono fino all’ultimo. Sintomo della complessità della sua personalità è anche la strana pietà che lo assale quando risparmia la vita al Conte - di cui ignora che è suo fratello.   
Ultima appare la figura centrale della madre, Azucena, nel secondo atto. E qui occorre fermarsi un attimo.   
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Stranamente in un contesto quale quello verdiano, dominato da figure di padri (non meno di quello kafkiano) nel Trovatore non v’è traccia di padri (tranne il Conte, peraltro defunto, e solo menzionato). Molti padri viceversa si affollano, talvolta opposti tra loro, nel mondo verdiano. La presenza di una madre nel Trovatore (o comunque di colei che ne fa le veci, a tutti gli effetti) è un fatto unico. Mentre figlie, mogli, amanti, orfane non mancano in tante opere verdiane. La madre di Luisa, ad es., ben presente in Kabale und Liebe di Schiller, è espunta (senza neanche sentire l’esigenza di motivarlo) in Luisa Miller, dove assumono grande rilevanza i due padri in conflitto; in Rigoletto la madre è un ricordo dolce, ma lontano, e come moglie morta; moglie-madre intensamente assente è Maria nel Simon Boccanegra. Non c’è nessuna traccia di madri in Nabucco, Ernani, Macbeth, Traviata. Men che meno in Otello. Solo nel Falstaff invece Alice è madre di Nannetta. 
Azucena non ha padri né mariti né compagni; Leonora non ha padre né madre. Manrico ha una madre: Azucena; ma si scoprirà che non è la sua vera madre; della sua madre carnale non v’è alcuna traccia. Il dramma è dominato comunque da una figura materna.
Da tener presente è che la morte della madre di Verdi, avvenuta nel giugno del 1851, deve pur aver lasciato una traccia nella progettazione, già in atto, del Trovatore. Ma da non dimenticare è anche la paternità negata a Verdi (come la maternità a Margherita Barezzi), e il problema contorto, e mai del tutto chiarito, della maternità di Giuseppina Strepponi, costretta (da Verdi, ma il suo ruolo nella vicenda è quanto mai imbarazzante e problematico) ad abbandonare i tre figli, viventi, per legarsi a Verdi. 



Azucena dunque: vive di memorie che ancora la condizionano, drammaticamente si racconta e ricorda: Stride la vampa, Condotta ell’era in ceppi. Più avanti, catturata, ancora ricorda il suo passato nella bellissima ballata Giorni poveri vivea. Un ritorno del rimosso si ha quando come in trance, confondendosi, si lascia sfuggire di fronte a Manrico la verità che voleva celare (aveva ucciso il proprio figlio), e che riesplode nel finale allorché la rivela al Conte di Luna. Da Luca Zoppelli traggo suggerimenti assai pertinenti: Condotta ell’era in ceppi ha un andamento da racconto di un lontano passato, che però esplode con ben altra intonazione nel presente del mi vendica. Qualcosa di analogo - suggerisce acutamente Zoppelli - accade nei racconti dei sopravvissuti alla Shoah: procedono per un po’ linearmente, come spassionate ricostruzioni del passato, ma presto l’azione si stacca dal racconto e scoppia la presenza nell’oggi del terribile passato, incancellabile. 
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Ha qualcosa in comune con Leonora Azucena. Le due donne assolutizzano i propri ruoli, non concedono alcuno spazio l’una all’altra, non riconoscono alcun diritto all’esistenza di altri affetti; vivono come inaccettabili altri amori, inconciliabili col proprio. Si ignorano. Questo è evidente in più punti, al massimo nell’ultima scena. Qui, l’unica volta in cui madre e amata sono sulla scena insieme, non si vedono, non si parlano, ognuna presa dal suo delirio. Incarnano due amori incomunicabili, esclusivi, intolleranti, gelosi l’uno dell’altro, tra cui Manrico è costretto a muoversi. Proprio perché in ogni personaggio le passioni si assolutizzano si scontrano senza rimedio, si combattono ferocemente; non si mediano mai.
Azucena è un personaggio diviso, come Rigoletto, nel suo duplice ruolo: vive il conflitto tra amore filiale e amore materno; è una madre che dispensa insieme vita e morte. Soprattutto lei è pesantemente condizionata dal passato fino alla fine, quasi fosse in gioco un’ereditarietà di stampo positivistico. È spinta da una sorta di coazione a ripetere: ricalca insistentemente le orme della propria madre, mai dimentica la sua esortazione. La madre le impone la missione cui dedica la sua vita: il mi vendica la incalza ossessivamente. Alla fine trionfa persino sull’amore per il figlio: Ei struggeasi in pianto… io mi sentia il core dilaniato, infranto; poi il ricordo dell’orrore del supplizio, il riecheggiare del mi vendica prevale su ogni affetto, ed è tanto più agghiacciante se in gioco è l’amore per “il figlio mio…”.


Riprendiamo l’opera dall’inizio del quarto atto. Vediamo innanzitutto il contesto in cui si colloca: il terzo atto si è appena concluso con Manrico che canta Di quella pira, rivolgendosi all’amata Leonora. C’è il fuoco innanzitutto, elemento-base dell’opera: all’origine di tutto sta il rogo della strega, madre di Azucena, che (come più volte ricordato) vuole vendetta e con questo muove l’azione e genera la catastrofe.
Era già figlio prima d’amarti, continua Manrico; annunciando a Leonora la sua intenzione: Madre infelice corro a salvarti, / o teco almeno corro a morir (la seconda ipotesi si avvererà presto). Offesa mortale all’amata da parte di Manrico, che la lascia per andare in soccorso della madre prigioniera. L’amata, Leonora, infatti subito accusa il colpo: Non reggo a colpi tanto funesti! / Oh! Quanto meglio sarìa morir! (sarà presto accontentata anche lei). D’altronde, in una precedente scena speculare, la madre aveva a sua volta tentato con tutte le sue forze (No, soffrirlo non poss’io.../ Il tuo sangue è sangue mio!..) di distogliere il figlio dal correre in soccorso dell’amata che stava per prendere il velo.
All’aprirsi del quarto atto Manrico è nella torre prigioniero, giunge nei pressi Leonora accompagnata da Ruiz, ma subito vuole star sola nella notte oscurissima; e ricorda: D’amor sull’ali rosee. L’aria esprime insieme ansia e speranza; dà voce alla memoria dell’amore, e alla speranza che Manrico senta e a sua volta ricordi. Manrico canta dalla torre, il Miserere è sullo sfondo coi suoi rintocchi funesti, che riempiono Leonora di cupo terror. Poi l’invocazione di Manrico: Non ti scordar di me! e subito dopo la protesta appassionata, trascinante, di Leonora.  In essa convive lo sgomento per la propria fine con una memoria struggente, che tinge di speranze il suo oggi. L’esplosione liberatoria della splendida cabaletta (non di rado a torto tralasciata nelle rappresentazioni), Tu vedrai che amore in terra, non è priva anch’essa di presentimenti di morte: O col prezzo di mia vita / La tua vita io salverò, / O con te per sempre unita / Nella tomba io scenderò. 
Il seguito scorre via rapido verso il finale, d’un’ellitticità vertiginosa: Leonora si offre al Conte di Luna in cambio della salvezza di Manrico; ma prende (troppo presto) il veleno. Poi la scena si sposta nell’“orrido carcere” oscuro: Manrico consola Azucena delirante (Riposa madre…, tra i momenti più toccanti dell’opera). Segue l’arrivo di Leonora e del Conte, gli atroci sospetti di Manrico quando Leonora gli rivela che è venuta a salvarlo (Ha quest’infame l’amor venduto, e: ti abbomino, ti maledico - senza mezzi termini), la rivelazione di Leonora e il repentino mutamento di Manrico (insano… ed io quest’angelo osava maledir), la morte di entrambi, la rivelazione della verità alla fine, straziante: Manrico era fratello del Conte, non figlio di Azucena (antefatto noto: il tragico errore compiuto da questa nel vendicarsi). Con le parole Sei vendicata, o madre!, immediatamente seguite dall’esclamazione del Conte inorridito (come si legge nel libretto) E vivo ancor!, si conclude l’opera.


Il Trovatore, oltre a essere un dramma cupo, “è allo stesso tempo una delle opere che meglio incarnano il rigoglio melodico di Verdi e la gioia rinvigorente che può regalare agli ascoltatori”; dove il canto si innalza “come una sfida vana contro il destino avverso e contro la morte” (come scrive De Van). 
Stando a quanto sostiene Della Seta, le sue forme possono esser viste come una ripresa, ma insieme come un congedo dal passato: “come uno sguardo retrospettivo a un mondo stilistico” (quello di uno “stile vocale virtuosistico, brillante e assai difficile”) che Verdi aveva “ormai abbandonato”. Nella Traviata, in Sempre libera degg’io, il virtuosismo vocale esprime “il desiderio di Violetta di godere fino in fondo il breve tratto di vita che le resta da percorrere”. Laddove si può ipotizzare che “nel Trovatore Verdi abbia impiegato lo stesso mezzo stilistico per rappresentare il cupio dissolvi di Leonora, la sua vertiginosa corsa all’abisso”. Ma con ciò ha messo in scena anche la dissoluzione delle eroine del melodramma tradizionale. L’intero Trovatore anzi è percorso da un presentimento di “morte dell’opera”, nelle sue forme note e nei suoi tradizionali contenuti, come una ripresa e insieme un congedo da un passato ormai in affanno.