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domenica 16 febbraio 2020

Poesia
IL TEMPO DEI PAESAGGI INTERIORI
di Fulvio Papi

La copertina del libro

Su Spore di Angelo Gaccione

Gli amici più cari non sanno che quando mi danno da leggere le loro poesie, mi creano molti più problemi di altre scritture del nostro mondo. Una selezione storica (non dimenticate la splendida Storia della bellezza di Umberto Eco) ci ha offerto l’uso della parola “bello” per definire un qualsiasi oggetto, compreso il verso poetico. Ma ora l’uso di questa parola come giudizio è un modo per non dire niente e andarsene con un lacerto di decenza. Aggiungerò, come contrasto, che ogni esperienza poetica chiama un modo per parlarne che, bene o male, assomiglia alla poetica di quella composizione. Anche la splendida metafora della poesia come “riccio” di Deridda non copre tutto il continente della poesia. C’è sempre una certa solitudine di fronte a un testo.


Papi al centro della foto a Stresa
tra Gaccione ed Esposito nel 2015

Tutti questi discorsi per giustificare il modo in cui ho letto le poesie di Angelo Gaccione della raccolta Spore (Edizioni Interlinea, Novara 2020). Il poeta in questi versi è in prevalenza il tramite di un mondo che non c’è più (fate la prova con l’eco della parola “pane” del testo 7 di pagina 77 della sezione “La presenza dei morti”), ma che per suo tramite parla ancora, racconta dei suoi oggetti, dei comportamenti, del dominio emotivo, cioè del suo stile. Ma quando il tramite non è il silenzio del documento, è un uomo, solo un uomo, una identità senza ripetizione, che passa nella foresta dei vivi e dei morti, allora bisogna pensare che il suo linguaggio non può essere quello di una matematica concettuale, ma il riconoscimento dell’esperienza che ancora trascorre il famoso fiume del tempo. E tuttavia questo riconoscimento viene alla luce di momento in momento, secondo le maree del sentimento, e in questa discontinuità nella uguaglianza bisogna riconoscere uno stile. 
Gaccione adopera i suoi versi come fossero una rapida confidenza, un ricordo, una saggezza che emergono dal profondo pozzo della vita. Così il mondo del poeta non è il nostro comune pragma, intesa la parola nel suo senso comune (poiché nel greco attuale, se volete sorridere, vuol dire valigia), ma è la comunità dei vivi e dei morti che ha una sua continuità nella nascita dei sentimenti, nella rinascita degli oggetti, nel silenzio dei passi immaginati, nel rapporto tra uomini e uomini e tra viventi e la terra. È nel nostro corpo sensibile che siamo costretti a scoprire questa discendenza, dove il ricordo sedimentato nell’esistenza vale molto di più del desiderio che vola sempre più cieco:

Portami a Trieste se puoi,
che lì ho lasciato il cuore

Oh, si tenga il suo ricordo,
mi creda”.

[Testo 11 di pagina 21 della sezione “Per il verso giusto]

Il mondo del poeta è di qua o di là del denaro, non quello dei francescani, ma quello del capitale finanziario che vola per i computer come un tempo gli angeli in cielo.

Si lavò a lungo le mani,

le strofinò con cura:

era denaro che grondava sangue”.

Miseria (l’essere miseri) e guerra si sposano, la morte le seguirà, poiché è morte di violenta follia, di un’occulta malattia che può ritornare addirittura come le stagioni. Sono le parole di pace che desideriamo, quelle che vengono da una “bocca di rose” (verso di una canzonetta, se non ricordo male), e non come attesa, ma come ostinato destino che viene da una arcaica e felice educazione. [Testo 26, pagina 36]

Colpisce la poesia sulla sentinella: “Sentinella, sugli spalti è calata la notte/ e tu veglierai. / Una notte più cupa è calata, / nel mio cuore per te. / 
[Testo 40 pagina 50] che merita la notte più cupa. Non so se il poeta avesse in mente l’opposta poesia guerresca che dice: “Vent’anni, vino bianco, occhi di fanciullo febbrile, e la mano che stringe il fucile…”

Ho cominciato a citare, e qui l’analisi diverrebbe puntuale, ma questo compito ora l’abbandonerei al lettore attento: i miei discorsi gli hanno dato qualche sentiero. Posso aggiungere che a questi versi non manca nemmeno la complicità di parole già poetizzate: “(…) Il suo salmodiare è come un soffio, / quasi un refolo lieve tra le fronde.”. Quelle “fronde” che corrono dalla grazia settecentesca al verso un poco fatale di Sereni.