IL TEMPO DEI PAESAGGI INTERIORI
di
Fulvio Papi
La copertina del libro |
Su
Spore di Angelo Gaccione
Gli amici più cari non sanno che
quando mi danno da leggere le loro poesie, mi creano molti più problemi di
altre scritture del nostro mondo. Una selezione storica (non dimenticate la
splendida Storia della bellezza di Umberto Eco) ci ha offerto l’uso
della parola “bello” per definire un qualsiasi oggetto, compreso il verso
poetico. Ma ora l’uso di questa parola come giudizio è un modo per non dire
niente e andarsene con un lacerto di decenza. Aggiungerò, come contrasto, che
ogni esperienza poetica chiama un modo per parlarne che, bene o male,
assomiglia alla poetica di quella composizione. Anche la splendida metafora
della poesia come “riccio” di Deridda non copre tutto il continente della
poesia. C’è sempre una certa solitudine di fronte a un testo.
Papi al centro della foto a Stresa tra Gaccione ed Esposito nel 2015 |
Tutti questi discorsi per giustificare il modo in cui ho letto
le poesie di Angelo Gaccione della raccolta Spore (Edizioni Interlinea,
Novara 2020). Il poeta in questi versi è in prevalenza il tramite di un mondo che
non c’è più (fate la prova con l’eco della parola “pane” del testo 7 di pagina
77 della sezione “La presenza dei morti”), ma che per suo tramite parla ancora,
racconta dei suoi oggetti, dei comportamenti, del dominio emotivo, cioè del suo
stile. Ma quando il tramite non è il silenzio del documento, è un uomo, solo un
uomo, una identità senza ripetizione, che passa nella foresta dei vivi e dei
morti, allora bisogna pensare che il suo linguaggio non può essere quello di
una matematica concettuale, ma il riconoscimento dell’esperienza che ancora
trascorre il famoso fiume del tempo. E tuttavia questo riconoscimento viene
alla luce di momento in momento, secondo le maree del sentimento, e in questa
discontinuità nella uguaglianza bisogna riconoscere uno stile.
Gaccione adopera
i suoi versi come fossero una rapida confidenza, un ricordo, una saggezza che
emergono dal profondo pozzo della vita. Così il mondo del poeta non è il nostro
comune pragma, intesa la parola nel suo senso comune (poiché nel greco attuale,
se volete sorridere, vuol dire valigia), ma è la comunità dei vivi e dei morti
che ha una sua continuità nella nascita dei sentimenti, nella rinascita degli
oggetti, nel silenzio dei passi immaginati, nel rapporto tra uomini e uomini e
tra viventi e la terra. È nel nostro corpo sensibile che siamo costretti a
scoprire questa discendenza, dove il ricordo sedimentato nell’esistenza vale
molto di più del desiderio che vola sempre più cieco:
“Portami a Trieste se puoi,
che lì ho lasciato il cuore”
“Oh, si tenga il suo ricordo,
mi creda”.
[Testo 11 di pagina 21 della sezione “Per il verso giusto”]
Il mondo del poeta è di qua o di là del denaro, non quello dei
francescani, ma quello del capitale finanziario che vola per i computer come un
tempo gli angeli in cielo.
“Si lavò a lungo le mani,
le strofinò con cura:
era denaro che grondava sangue”.
Miseria (l’essere miseri) e guerra si sposano, la morte le
seguirà, poiché è morte di violenta follia, di un’occulta malattia che può
ritornare addirittura come le stagioni. Sono le parole di pace che desideriamo,
quelle che vengono da una “bocca di rose” (verso di una canzonetta, se non
ricordo male), e non come attesa, ma come ostinato destino che viene da una
arcaica e felice educazione. [Testo 26, pagina 36]
Colpisce la poesia sulla sentinella: “Sentinella, sugli
spalti è calata la notte/ e tu veglierai. / Una notte più cupa è calata, / nel
mio cuore per te. /
[Testo 40 pagina 50] che merita la notte più cupa. Non
so se il poeta avesse in mente l’opposta poesia guerresca che dice: “Vent’anni,
vino bianco, occhi di fanciullo febbrile, e la mano che stringe il fucile…”
Ho cominciato a citare, e qui l’analisi diverrebbe puntuale,
ma questo compito ora l’abbandonerei al lettore attento: i miei discorsi gli
hanno dato qualche sentiero. Posso aggiungere che a questi versi non manca
nemmeno la complicità di parole già poetizzate: “(…) Il suo salmodiare è
come un soffio, / quasi un refolo lieve tra le fronde.”. Quelle “fronde”
che corrono dalla grazia settecentesca al verso un poco fatale di Sereni.