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sabato 21 marzo 2020

I MONACI ROVESCIATI
di Fulvio Papi


Un importante articolo (come sempre) di Luigino Bruni sull’“Avvenire” pone il problema nel monachesimo di una sua ripresa del tutto rivolta nella prassi produttiva e aziendale del mondo contemporaneo. Come la regola monastica assume il lavoro materiale in un tempo spirituale uguale a quello della preghiera, così il lavoro oggi viene assimilato come prassi operativa e produttiva, alla realtà materiale dell’azienda come identità temporale. Un esito che ha paradossalmente la sua origine proprio nella valorizzazione del lavoro come condizione di una economia di mercato. Credo di avere qualche interrogativo sul fatto che il monachesimo vada considerato come una radice simbolica dell’economia di mercato, contrariamente alla tradizionale tesi di Weber sull’etica protestante come condizione spirituale e quindi comportamentale, della oggettività propria del capitalismo. Certo il fatto che il monachesimo nella sua visione di un tempo globale della vita religiosa, abbia implicitamente valorizzato il lavoro, è una considerazione storica da tenere conto. Tuttavia gli schiavi esistono per lungo tempo anche nella modernità, e il loro lavoro non viene considerato spiritualmente pari alla dignità del lavoro di locali lavoratori che operano, quale che sia, in un’altra condizione sociale. Credo poi, oltre alle radici etiche e religiose, abbia contribuito a contrastare una visione schiavista del lavoro, il fatto che il calcolo economico mostrava come la produttività degli schiavi era inferiore a quella dei “liberi lavoratori” salariati, ovviamente per il fatto che essi potevano, almeno pensare, di avere una temporalità propria extralavorativa.
Poi un’altra considerazione: qual è l’esito della produzione frutto del lavoro dei monaci? Bisognerebbe avere un sapere proporzionato alla domanda, ma limitiamoci a prendere in esame due estremi. La produzione è il sostentamento (tutt’altro che spirituale poiché viene sempre dalla “terra”) dei monaci stessi, o è un prodotto che viene portato sul mercato e quindi, col tempo, genera in questa prassi un capitale commerciale, o, peggio - come dice la storia - un consumo della comunità che viola la stessa regola monacale. Ora, a parte queste osservazioni, mi pare fondamentale la considerazione che il monachesimo unendo tutti nella “regola”, fa sì che la comunità crei un tempo uniforme - preghiera e lavoro - assimilabile a una idea di spirituale uguaglianza. La divisione del lavoro, sulla scia della formazione originaria del capitalismo, è una forma di razionalizzazione che costituisce un rapporto con il capitale, la merce, il progetto, sino all’attuale processo di informatizzazione. E qui si può fare un’ulteriore considerazione: la “mobilitazione” generale per il lavoro produttivo provoca un tempo uniforme ma rovesciato rispetto a quello dei monaci. È il progetto produttivo e il suo valore sociale che comandano questa temporalità: essa diviene la “regola” materiale. Con l’effetto di provocare un individualismo “proprietario” che nega di fatto ogni forma di comunità. 
Sarà solo una rottura morale a rendere possibile un de-condizionamento. L’uniformità del “capitale fisso” (la regola identica degli uomini e della produzione) non avrà come elemento critico la forma del capitale variabile, ma la forma della moralità. Che, va aggiunto, non potrà essere mai un gioco dei concetti, ma una modalità della vita.