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giovedì 12 marzo 2020

UNA VITA REGALATA
di Oliviero Arzuffi


Lavorare stanca: intitolava una sua opera Pavese. Non solo: abbruttisce anche. Peggio: ci rende così “cosa” che qualunque “roba” ha più valore di noi. Non tutti i lavori, però. Solo quasi. Ce ne è uno, in verità, più “liberale” e che rende l’uomo simile a Dio: quello di far lavorare gli altri. Pochi, pochissimi questi divini privilegiati. Alcuni te li trovi alla testa di imperi economici i cui confini sono via via definiti dalla circolazione delle masse monetarie o stagliati sui diagrammi delle borse. Altri stanno seduti su scranni che fanno tremare il mondo. Altri ancora li puoi scovare appollaiati sui picchi di calcoli infiniti o immersi in astruse formule chimiche, tutti presi dall’ebbrezza di reinventare il mondo, a spese degli altri naturalmente: sgobbanti. I più furbi si affacciano impunemente al televisore a dirti che lavorare fa bene alla salute, salva l’anima dai rischi della perdizione, fa godere i cittadini per il PIL in crescita e i governanti per le casse pubbliche da depredare. E tutti noi, comuni mortali, a testa bassa e con le spalle penzolanti: faticare, produrre e consumare. E poi ancora: consumare, produrre, faticare. Infine: produrre, faticare, consumare. Altro non c’è sotto il sole. Ma neppure sopra, temo.




Quando infatti Dio creò il cielo e la terra, fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, e lo mise in uno splendido giardino dicendogli testualmente: “Goditi il giardino e i frutti del giardino, ma…”. Anche Lui. Poi è arrivata la donna. E il serpente, dietro. E l’una e l’altro, perversamente, hanno fottuto l’uomo, con una volgare mela. Da allora: faticare, produrre e consumare. Un eterno, infinito ritorno di condanna.
Voglio una casa da abitare, un giardino da godere, una pianta sotto la quale riposare. E il sole davanti splendente e non ammosciato dietro il fumo grigiastro. Voglio l’erba del campo su cui adagiare svogliatamente le membra e impigrire il pensiero. Voglio vicino il gorgoglio dell’acqua che scorre e il cinguettio della rondine che muore lontano. E che l’ombra delle sue ali mi portino lassù, in alto, umanamente… nel sogno.
Vedo i furbi che tacciono, perché hanno smarrito la voce. I sapienti confusi, perché hanno sbagliato i calcoli, finalmente. I potenti che tremano. I privilegiati che mendicano. E Lui, l’“Assiso sul trono dei cieli”, che scende a sporcarsi le mani nei solchi della terra, per faticare, umanamente, con noi.
Voglio l’uomo. E una vita regalata: una buona volta.