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sabato 28 marzo 2020

VIRTÙ
di Velio Abati


“Odissea” da tempo sta pubblicando su queste pagine riflessioni che hanno per tema il coronavirus e le sue implicazioni. Ora abbiamo deciso un passo in più, porsi la domanda: “Cosa ci ha insegnato la tragica esperienza del coronavirus?”

La pandemia in corso certifica in modo sbrigativo che oggi il genere umano è uno. L’allarme ecologico ne è solo l’altra faccia, quella che esplicitamente collega la storia del genere umano al complesso naturale. Entrambi sono, prima di tutto, interdipendenti: il numero di uomini e la loro relazione produttiva (al singolare, “relazione”, perché, fatte salve le ovvie differenze storiche e regionali, unico è il segno) sono all’origine di questa e di altre possibili future pandemie. Il tema del venire a termine di un certo modello di sviluppo, quello capitalistico attuale, è oramai sul tavolo; che l’uscita sia regressiva o progressiva è la questione.
Che il genere umano sia unificato e che gli effetti del suo modo di riprodursi abbiano immediata ripercussione (attualmente distruttiva) sull’ecosistema terra non necessariamente spingono per una regressione al locale, al nazionalismo, alla separazione; né, dal mio punto di vista, sono esecrabili. Mettono anzi in evidenza la curvatura oscurantista e autoritaria di certe parole d’ordine che sono state della sinistra anni Settanta, come l’equiparazione immediata tra autonomia e democrazia. L’autonomia scolastica inaugurata da Luigi Berlinguer è l’incubazione dell’attuale concorrenza liberista tra istituti e della distruzione educativa, così come la regionalizzazione dei sistemi sanitari è stata la chiave di volta dell’impoverimento delle strutture pubbliche a vantaggio della sanità privata. Detto in breve, il nazionalismo autoritario e fascistoide di Salvini non è in contraddizione con il separatismo bossiano, ne è l’inveramento.
Si può affrontare lo stesso grumo da un approccio volgarmente pragmatico: problemi globali richiedono risposte globali. Che la questione di chi sia il soggetto di tale risposta globale sia da discutere è questione del tutto diversa dal sostenere che essa debba essere rifiutata in radice ricorrendo alla parola d’ordine d’altri tempi “piccolo è bello e democratico”.
Non so se ha ragione chi sostiene che l’esperienza in cui siamo costretti avrà esiti negativi sull’educazione sentimentale degli individui. Intendo il fatto che l’unica risposta contro l’attuale emergenza, positiva sul piano fattuale e moralmente augurabile, sia la separazione fisica sociale. Credo, come sempre, che rispetto a un dato di fatto, non ci sia mai una sola risposta deterministica, ma dipenda dalla capacità di risposta, ossia dai conflitti sociali intorno ad essa: l’uno, diceva Mao, si divide sempre in due. So comunque che l’appello alla responsabilità individuale - mai come in questa occasione, in mancanza di delega alla cura medica, unica risposta sensata e possibile - è o può essere una potente occasione di educazione di massa alla consapevolezza che nessuno, sottolineo nessuno, vive e muore solo per se stesso. Un’educazione tanto più importante nella forma di vita da almeno trent’anni dominante in Italia e nel capitalismo occidentale, nella quale la libertà individuale sperata, propagandata e praticata è quella del profitto privato, che ha reso e rende giusta e buona la morte dell’altro, della concorrenza levatrice della democrazia, come se il suo mezzo non fosse la soppressione del perdente e la sua meta non fosse il monopolio.
Persone come me capiscono benissimo che il pericolo di questa regolamentazione e limitazione dei comportamenti personali possa essere esercizio al panopticon orwelliano. Ma, ripeto, sia si deve sempre partire dai fatti che, diceva un pensatore dimenticato “hanno la testa dura”, sia la risposta possibile non è mai univoca. D’altra parte, e simmetricamente, leggo con vero fastidio gli esibizionismi pseudo-radicali di certi opinionisti che, giudicando “manipolatorio” l’appello dei responsabili di governo all’autocontrollo, di fatto auspicano e in alcuni casi reclamano l’intervento della polizia e dell’esercito.
Forse, l’attuale crisi sanitaria e climatica segna davvero il salto di paradigma tra il Novecento e il nuovo millennio. Che la formazione politica oggi necessaria non possa essere quella terzointernazionalita e che la teoria non possa essere quella bolscevica non cancella la necessità di forme politiche capaci di una visione complessiva alternativa e di una corrispondente capacità di agire in modo coordinato all’altezza del disordine mondiale organizzato del capitale.