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sabato 18 aprile 2020

A PIÙ VOCI
di Alfonso Navarra



Spunti per una discussione


Nel 1984 lessi con vivo piacere in carcere (pagavo la disobbedienza civile contro i missili di Comiso), L’ecologia della libertà di Murray Bookchin.
Si parva licet, allo stesso modo di come successe poi al leader Kurdo Ocalan, ne rimasi subito più che colpito, fulminato: un libro che vale Il Capitale, credetemi. A mio parere, in confronto alla approfondita elaborazione ivi contenuta (lo studio del sistema del dominio di cui il capitalismo moderno è solo una delle forme espressive) l’“ecologia integrale” di Papa Bergoglio, pur benedetta nel panorama culturale odierno, è solo una formula retorica senza spessore di analisi. Bookchin poneva già allora la distinzione tra ecologia sociale, visione complessiva ed alternativa del cambiamento, ed ambientalismo limitato, settoriale, confinato nei "limiti del sistema". (Ed anche tra essa - l’ecologia sociale - e le varietà irrazionalistiche di “ecologia profonda” e simili). Per molti aspetti credo lo si possa considerare un precursore della cultura della terrestrità.
Personalmente riconosco il Maestro e la sua grandezza, ma ovviamente, da libertario non anarchico - democratico radicale verde (che non rinnega il passato demoproletario), non sento affatto l’obbligo di condividere al 100% la sua impostazione né tantomeno le sue singole posizioni.
Sono però convinto che confrontarsi con il pensiero innovativo di Bookchin (dopo 40 anni è ancora all’avanguardia, poco ma sicuro!) è tra le cose che valga la pena fare per spendere utilmente il tempo, della clausura forzata che stiamo subendo, con una riflessione che ci fa crescere in consapevolezza, libertà e autenticità. E che dà strumenti per una visione complessa e intensa di tutte le nostre lotte orientate a sopravvivere e a vivere con dignità.
Consigliandovi vivamente di acquistare la ristampa su carta delle edizioni Eleuthera (quando riapriranno le librerie), lascio ora parlare l’autore, con stralci dalla sua prefazione a mo’ di antipasto:

“Eufemismi come «società tecnologica» o «società industriale», così diffusi nella letteratura ecologica contemporanea, tendono a mascherare con espressioni metaforiche la brutale realtà di una società predatoria. Tendono a distogliere la nostra attenzione dalla natura sfruttatrice di un’economia strutturata sulla competizione anziché sui bisogni degli esseri umani e della vita non umana. Così, la tecnologia e l’industria vengono rappresentate come i protagonisti malvagi di questo dramma, al posto del mercato e dell’illimitata accumulazione di capitale, al posto cioè di un sistema di accumulazione, di «crescita», che alla fine si mangerà l’intera biosfera, se gli si consentirà di sopravvivere abbastanza a lungo.
Agli enormi problemi sistemici creati da questo ordine sociale si devono aggiungere gli enormi problemi sistemici creati da una mentalità che cominciò a svilupparsi assai prima della nascita del capitalismo e che in esso è stata completamente assorbita. Mi riferisco alla mentalità strutturata attorno alla gerarchia e al dominio, in cui il dominio dell’uomo sull’uomo ha dato origine al concetto che dominare la natura fosse «destino», anzi necessità dell’umanità. Ora, il fatto che nel pensiero ecologico abbia cominciato a filtrare l’idea che questa concezione del «destino» umano sia perniciosa è certo confortante. Tuttavia non si è ancora compreso chiaramente come questa concezione sia sorta, perché persista e come possa essere eliminata. E invece si devono esplorare le origini della gerarchia e del dominio, se si vuole trovare un rimedio allo sconquasso ecologico. Il fatto che la gerarchia in tutte le sue forme - dominio dell’anziano sul giovane, dell’uomo sulla donna, dell’uomo sull’uomo in forma di subordinazione di classe, di casta, di etnia o di una qualsiasi delle altre possibili stratificazioni di status sociale - non sia stata identificata come un ambito di dominio assai più ampio del solo dominio di classe appare come una delle carenze cruciali del pensiero radicale. Nessuna liberazione sarà mai completa, nessun tentativo di creare un’armonia tra gli esseri umani e tra l’umanità e la natura potrà mai avere successo, finché non saranno state sradicate tutte le gerarchie e non solo le classi, tutte le forme di dominio e non solo lo sfruttamento economico.
Queste idee costituiscono il nucleo essenziale della mia concezione di ecologia sociale e di questo libro, L’ecologia della libertà.
Ho accuratamente sottolineato l’uso che faccio del termine «sociale», quando mi occupo di questioni ecologiche, per introdurre un altro concetto fondamentale: nessuno dei principali problemi ecologici che ci troviamo oggi ad affrontare può essere risolto senza un profondo mutamento sociale. È questa un’idea le cui implicazioni non sono ancora state pienamente assimilate dal movimento ecologico. Portata alle sue logiche conclusioni significa che non si può pensare di trasformare la società presente un po’ alla volta, con piccoli cambiamenti. (…)
Si deve accettare il fatto che l’attuale società capitalista debba essere rimpiazzata da quella che io chiamo «società ecologica», cioè da una società che implichi i radicali mutamenti sociali indispensabili per eliminare gli abusi ecologici. Anche sulla natura di tale società ecologica si deve approfonditamente riflettere e dibattere. Alcune conclusioni in merito sono quasi ovvie. Una società ecologica, se deve eliminare il concetto stesso di dominio sulla natura, deve essere non gerarchica e senza classi. A questo proposito, non si può non riandare ai fondamenti dell’ecoanarchismo di un Kropotkin e ai grandi ideali illuministi di ragione, libertà e forza emancipatrice dell’istruzione portati avanti da un Errico Malatesta e un Camillo Berneri. Meglio, gli ideali umanisti che guidarono i pensatori anarchici di un tempo devono essere nel loro complesso recuperati e fatti progredire nella forma di un umanesimo ecologico che incarni una nuova razionalità, una nuova scienza, una nuova tecnologia. (…)


L’ecologia sociale, così come la presento in questo libro, lancia un messaggio che non è primitivista né tecnocratico. Essa cerca di definire il posto dell’umanità nella natura - posto singolare, posto straordinario – senza ricadere in un mondo di cavernicoli anti-tecnologici, da un lato, e senza volare via dal pianeta con fantascientifiche astronavi e stazioni orbitali, dall’altro. 
L’umanità, sostengo, è parte della natura anche se differisce profondamente dalla vita non umana per la capacità che ha di pensare concettualmente e di comunicare simbolicamente. La natura, a sua volta, non è semplicemente una scena panoramica da guardare passivamente attraverso una finestra; essa è l’insieme dell’evoluzione, l’evoluzione nella sua totalità, proprio come l’individuo è la sua intera biografia, non una semplice somma di dati numerici che misurano il suo peso, la sua altezza e magari la sua «intelligenza» e via di seguito. Gli esseri umani non sono soltanto una delle tante forme di vita, una forma meramente specializzata per occupare una delle tante nicchie ecologiche nel mondo naturale. Sono esseri che, per lo meno potenzialmente, potrebbero rendere l’evoluzione biotica autocosciente e consapevolmente autodirezionata. Con questo non voglio dire che mai l’umanità arriverà ad avere una conoscenza sufficiente delle complessità del mondo naturale tale da poter prendere il «timone» dell’evoluzione naturale e dirigerla del tutto a sua volontà. Anzi, le mie riflessioni sulla spontaneità nel primo capitolo di questo libro mirano proprio a suggerire la prudenza negli interventi sul mondo naturale, a sostenere che si deve modificare con grande cautela. Ma (…) quello che veramente ci fa unici, singolari nello schema ecologico delle cose è che possiamo intervenire in natura con un grado di autocoscienza e di flessibilità sconosciuto a tutte le altre specie. (…)
L’ecologia radicale non può essere indifferente alla realtà materiale della vita umana, non può essere indifferente alle relazioni sociali né a quelle economiche. Il delicato equilibrio esistente tra l’uso della tecnologia a fini di libertà e il suo uso a fini distruttivi per il pianeta è materia di giudizio sociale, ma un giudizio che viene insensatamente offuscato quando ecologisti sui generis denunciano la tecnologia come un male irrecuperabile o la esaltano come una virtù indiscutibile. È curioso, mistici e tecnocrati hanno un’importante caratteristica in comune: né gli uni né gli altri sanno esaminare a fondo una questione o seguirne la logica al di là delle più elementari e semplicistiche premesse.
Una nuova politica dovrebbe, secondo me, implicare la creazione di una sfera pubblica «di base» estremamente partecipativa, a livello di città, di paese, di villaggio, di quartiere. Il capitalismo certamente ha prodotto tanta distruzione dei legami comunitari quanta devastazione del mondo naturale. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte alla semplificazione delle relazioni umane e non umane, alla loro riduzione alle più elementari forme interattive e comunitarie. Ma laddove esistono ancora legami comunitari e laddove, anche nelle più grandi città, possono nascere interessi comuni, questi devono essere coltivati e sviluppati. (…) 
Per quanto possa apparire discutibile in Europa (ma meno, ritengo, negli Stati Uniti), credo alla possibilità di una confederazione di libere municipalità come contropotere di base che si opponga alla crescente centralizzazione del potere da parte dello Stato-nazione. Su questo terreno, vorrei far notare, una politica ecologica è non solo possibile in molti casi, ma anche coerente con l’ecologia concepita come studio delle comunità, sia umane sia non umane. Una società ecologica presuppone quelle forme partecipative, di base, comunitarie che tale politica si prefigge di realizzare nel futuro. L’ecologia non è nulla se non si occupa del modo in cui le forme di vita interagiscono tra loro per costruire comunità e per evolversi come comunità. (…)
La natura non è semplicemente un «regno della necessità», come direbbe Marx, ma un regno di libertà nascente e potenziale che potrebbe trovare la sua piena espressione in una società ecologica creata da esseri umani pienamente realizzati.