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martedì 28 aprile 2020

AL DI LÀ DEL TUNNEL
di Luciano Abbonato*
 
Luciano Abbonato

Un commento al saggio di Marco Vitale

Carissimo Professore,
come sempre i suoi scritti sono fonte di grande ispirazione e aprono numerose vie ove il pensiero si può incanalare.
Mi piacerebbe seguire tutti gli spunti che lei ci offre per fornire un contributo di buon senso, se non tecnico, ma credo che la metafora del tunnel sia la via principale da seguire.
Per capire quale valle ci attende fuori dal tunnel credo dovremmo interrogarci preliminarmente su due risvolti di questa Pandemia: uno di natura metafisica e uno di natura geopolitica.
Questa disgrazia, le cui dimensioni, alla fine, potranno a ragione definirsi bibliche, potrebbe cambiare l’umanità e la direzione e le dimensioni di tale cambiamento non sono prevedibili al momento.
Ma un effetto già lo osserviamo: si sono improvvisamente assopite le tensioni legate al credo religioso; il mondo sembra essersi immerso in una pausa meditativa e nel fronte cristiano il Papa è diventato una presenza costante e un riferimento, non solo spirituale, essenziale. 
Esula da queste brevi riflessioni la possibilità di indagare sugli effetti della Pandemia sullo spirito umano, sui futuri stili di vita, sulla capacità di approcciarsi diversamente a fenomeni globali come l’inquinamento, il surriscaldamento globale, la povertà, la salute pubblica, il reale accesso ai diritti umani inalienabili e tra questi al diritto alla mobilità.
Ma il mondo sarà diverso alla fine di questa crisi; non sappiamo quanto, perché nonostante la scienza non sappiamo quanto durerà e quante sofferenze ancora porterà, ma sarà diverso.
Leoluca Orlando in un suo recente discorso ha detto che “si stanno creando le condizioni per una nuova umanità, una nuova solidarietà, una nuova dimensione culturale di vita”.
Questo tunnel quindi potrebbe essere, mi perdoni la metafora scientifica, un vero e proprio tunnel spazio-temporale, che ci porta non solo in una nuova valle, ma in una nuova epoca.


Non solo non siamo in grado di predire con certezza l’entità di questo cambiamento, ma non siamo neanche in grado di contrastare questa grande forza. Possiamo però prepararci.
E veniamo al secondo aspetto che vorrei sottoporre alla sua attenzione. La dimensione geopolitica. Non voglio porre il problema solo su un piano mercantilistico, ma c’è anche questo. La parola d’ordine che risuona martellante sui social-media americani in questo momento è: alla fine di questa crisi, comprate americano.
Le tensioni sovraniste sembrano essere destinate a crescere e la scarsa mobilità di uomini e merci con cui dovremo fare i conti per molto tempo sarà un ulteriore detonatore. In Europa ci troveremo ancor più schiacciati tra tre blocchi: la Cina, gli Stati Uniti e la Russia.
Hanno ragione Alberto Alesina e Francesco Giavazzi che in un editoriale del Corriere della Sera (5 aprile 2020) parlano di un secondo virus nel pianeta, il populismo che si manifesta in almeno quattro forme e attacca le democrazie del mondo: “… Proprio per evitare il ripetersi di quelle catastrofi si è iniziato, negli anni Cinquanta, il processo di cooperazione europea. Sparita l’Europa, come vorrebbero i sovranisti, Stati Uniti, Russia e Cina deciderebbero da soli le sorti dell’umanità, da come proteggerci contro i cambiamenti climatici, alle regole del commercio fra nazioni… I falchi del Nord Europa sembrano non capire che qui non si tratta di disquisizioni tecniche su eurobond e Mes, ma di compiere scelte che determineranno la sopravvivenza, o meno, dell’Europa… in un mondo in cui l’Unione Europea è rimasto uno dei rarissimi esempi di collaborazione tra stati”.
E veniamo allo snodo, a quello che potrebbe essere un collante tra la dimensione metafisica della crisi e la dimensione geopolitica e che oggi è soltanto un elemento disgregante: la politica.
Ernesto Galli della Loggia sempre sul Corriere della Sera, il 7 aprile scrive: “Nell’esperienza occidentale la politica è sempre stata debitrice verso la religione delle sue categorie fondamentali”… Ma è stata dalla cultura classica e insieme dal quella religiosa, da queste due decisive dimensioni del passato e del nostro legame con esso, che nel corso della storia gli europei hanno anche personalmente tratto la scala dei propri valori, l’insieme delle disposizioni psichiche, emotive ed ideali, che nelle più diverse circostanze li hanno orientati personalmente ai modelli della virtù individuale e del bene collettivo. Modelli che si sono rilevati così decisivi nel definire il rapporto del nostro continente con la politica, tanto intenso quanto fecondo. C’è bisogno di dire quanto oggi la fonte religiosa e quella della cultura classica appaiano inaridite, disertate dalle coscienze e perfino dalle conoscenze dei più? Da qui dunque la domanda se sia solo per un caso che proprio in coincidenza di un tale abbandono si manifesti la drammatica impotenza politico ideale della costruzione europea. Se sia solo per caso che oggi ci manchi qualsiasi pensiero forte, qualsiasi visione lungimirante, qualsiasi volontà generosa e grande”.


A ricordare quella scala di valori europei, e in particolare la solidarietà, interviene Papa Francesco, nel bellissimo messaggio Ubi et Orbi pronunciato oggi in San Pietro in occasione della santa Pasqua: “Tra le tante aree del mondo colpite dal Coronavirus rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda guerra mondiale questo continente è potuto risorgere grazie ad un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha difronte a sé una sfida epocale dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda occasione di dare ulteriore prova di solidarietà anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni”.


Voglio essere ottimista Professore. Voglio credere che il messaggio del Papa non cadrà nel vuoto. Voglio credere che questa tragedia possa essere un una straordinaria occasione di riflessione e apprendimento. Voglio credere che quelle grandi forze ideali siano soltanto sopite dentro di noi. Anzi ne sono convinto, perché sotto la crosta miserabile politico-affaristica di questo grande Paese ci sono persone come Lei che sono profondamente radicate in quel pensiero forte e generoso.
Al punto in cui siamo oggi, tocca a noi riprendere quel pensiero forte e generoso, alla politica trovare ispirazione, trovare la propria ragion d’essere. E ciò forse attraverso nuovi protagonisti.
Credo che oggi noi europei dovremmo dedicare tutti i nostri sforzi verso un unico punto: la costruzione urgente degli Stati Uniti d’Europa. Ce lo chiede la storia, ce lo chiede il momento. E ciò non solo per lo stato di necessità in cui ci troviamo e in cui ci troveremo ancora nel futuro stante la scala delle crisi economiche, sociali e sanitarie; non solo per non ridurci in tanti staterelli in competizione tra loro, solo apparentemente sovrani, ma di fatto alla mercé delle tre grandi concentrazioni di potere mondiale; ma perché l’Europa è la nostra identità ed è l’unica strada per salvare l’ultra millenario patrimonio dell’umanità rappresentato dal nostro sistema di valori, fortemente radicato nella cultura classica e nella cristianità.
Sono convinto che tutto il resto seguirebbe in maniera naturale, con soluzioni e tempi oggi impensabili. Non mi sottraggo tuttavia a brevi notazioni su due temi centrali del suo scritto: debito pubblico e burocrazia, argomenti che, lo premetto, vedo strettamente collegati al nodo politico.
Da anni diciamo che l’Italia soffre di due grandi mali: il deficit e il debito pubblico.
Ma l’attenzione è stata distratta da due indicatori, deficit/Pil e debito/Pil, i cosiddetti “parametri di Maastricht”, con l’effetto da lei denunciato che la maggior parte degli addetti ai lavori si è conformata alla comoda idea che la crescita del Pil (nominale) potesse essere uno strumento per conseguire il rispetto degli indicatori e di conseguenza il governo del problema. Ragionamento matematico, ma ampiamente fallace alla luce dei fatti.
Da economisti d’impresa abbiamo cercato di proporre visioni, se non alternative, quanto meno complementari, guardando, ad esempio, il debito in valore assoluto. Sotto questo profilo, il problema del cosiddetto “ricatto del debito pubblico” non riguarda soltanto il pagamento degli interessi che ogni anno gravano sul bilancio dello Stato, ma forse principalmente l’ammontare complessivo delle rate (capitale e interessi) che vanno rimborsate e che dipendono anche dai tassi d’interesse ma in misura principale dall’entità e dalla vita media del debito.
Il debito pubblico italiano alla fine del 2019 ammonta a 2.400 miliardi di euro ed è composto per 2.000 miliardi di euro da titoli di Stato. La vita media residua è 7,3 anni, mentre la vita media residua ponderata dei titoli di stato è 6,8 anni, valore estremamente basso per un Paese che ha un rapporto debito/Pil superiore al 130%.
Il nostro debito pubblico è costituito per 561 miliardi, cioè quasi un quarto, da debiti a breve termine, con scadenza inferiore ad un anno, mentre se guardiamo ai soli Titoli di Stato nel corso del 2020 scadranno obbligazioni per 328 miliardi di euro.


Questo vuol dire che nel 2020 lo Stato italiano, oltre a dover stanziare sul proprio bilancio circa 70 miliardi di euro per pagare gli interessi, dovrà riuscire, per rimborsare i titoli in scadenza, a far sottoscrivere nuove emissioni per un pari controvalore (328 miliardi, appunto), risorse che inevitabilmente vengono drenate dall’economia, con un significativo effetto di definanziamento degli investimenti privati (effetto spiazzamento).
Noi italiani avremmo da tempo dovuto cercare, attraverso nuove emissioni a lunghissimo termine, di avvicinare la vita media del nostro debito pubblico a quella del Regno Unito (15 anni) e comunque a quello di Svizzera e Belgio (9-10 anni), circostanza quest’ultima che consentirebbe, a parità di condizioni (e di entità di debito), di liberare circa 100 miliardi di euro annui di liquidità per il sistema economico. 
Naturalmente in questa fase il debito dovrà crescere significativamente per finanziare le minori entrate fiscali e la spesa aggiuntiva anticrisi e diventa più che mai necessario allungarne il profilo di ammortamento.
Ecco perché la sua idea di un “Nuovo prestito della ricostruzione” - con una scadenza minima di 30 anni e una quota rilevante di irredimibile - mi convince: sarebbe contestualmente una straordinaria occasione per rendere realmente sostenibile il nostro debito pubblico - senza scaricarlo sull’Europa - e mobilitare risorse pubbliche e private utili per sostenere l’economia e rilanciare gli investimenti. E in questo quadro la prospettiva Eurobond diventerebbe allo stesso tempo secondaria e maggiormente percorribile.
Gli investimenti privati ripartiranno, ma quello che mi preoccupa di più è la spesa pubblica, a partire dai fondi europei anticrisi, dove ci scontriamo con un’altra “mala bestia”: la burocrazia.
Ma qui devo premettere un giudizio di valore: la mia esperienza mi dice che la forza della burocrazia è la debolezza della politica e quanto più la politica è debole, inesperta e insicura, tanto più essa tende ad accentrare e burocratizzare. Voglio fare qualche esempio.
La protezione civile, che dovrebbe essere finanziata interamente sul bilancio dello Stato, ha avviato a metà marzo una raccolta di fondi privati per l’emergenza Covid-19 al fine di acquistare dispositivi di protezione individuale e ventilatori. Poiché in una fase iniziale vari soggetti, tra cui i singoli ospedali, avevano avviato iniziative analoghe, il Codacons è addirittura intervenuto sull’Anac e sulla Presidenza del Consiglio affinché la raccolta, previo immancabile tavolo tecnico, venisse concentrata sulla Protezione civile. Ed è stato accontentato. Risultato: a un mese di distanza, in una fase in cui mancano ancora perfino le mascherine per i medici, sono stati raccolti 120 milioni di euro e spesi appena 25 milioni. Anche in questo ambito, se vogliamo banale, dove si poteva e si doveva operare spediti senza pubblicare un bando di gara in Gazzetta Ufficiale per una spesa di qualche centinaio di migliaia di euro, la politica ha fatto entrare la burocrazia.

Neoliberisti

Non posso dimenticare che nel 1999, per la gestione dei fondi privati dell’emergenza Kosovo (Missione Arcobaleno-gestione fondi privati), il Governo si orientò diversamente, nominando un Commissario indipendente, mi pare si chiamasse Marco Vitale, che operò con efficienza e trasparenza, spendendo in tempi record, in progetti talvolta estremamente complessi, i 129 miliardi di lire raccolti. 
Lei ricorderà che qualche tempo fa le scrissi auspicando che il Governo potesse emanare un decreto di due righe autorizzando procedure dirette e snelle per gli approvvigionamenti Covid-19. E invece nulla è stato fatto per anticipare e semplificare le forniture e nonostante l’emergenza sanitaria fosse stata dichiarata il 31 gennaio, le prime procedure “d’urgenza”, bandite ovviamente tramite Consip, sono state pubblicate soltanto a metà marzo, alcune sono andate male (con conseguenti scandali e arresti), e ad oggi risultano aggiudicate gare per appena 307 milioni di euro, probabilmente non ancora effettivamente spesi, con l’effetto che i dispositivi di protezione individuale e i reagenti per i tamponi scarseggiano drammaticamente.
La colpa è della burocrazia? Come dare la colpa alla sola burocrazia quando gli indirizzi sono tardivi e confusi e le norme sono degne di un’enciclopedia?
Quando la politica ha orizzonti limitati finisce per non distinguersi più dalla burocrazia, la visione diventa propaganda, la strategia diventa tattica e l’azione, procedura.


Lei ha ricordato che questo Paese ha ancora un grande patrimonio: i comuni.
Non possiamo dimenticare che anche le procedure centralizzate per l’urgentissimo sussidio di 600 euro e per la cassa integrazione sono fallite e che non un solo euro è pervenuto ancora per questa via nelle tasche dei cittadini italiani (e forse qui ha ragione qualche consulente del lavoro illuminato che sostiene che alla ripresa la migliore forma di sostegno ai lavoratori e alle imprese è una forte riduzione del cuneo fiscale).
I Comuni invece, non a caso, hanno già speso le poche risorse ricevute e continuano a fronteggiare in isolamento, insieme agli ospedali, questa prima grande ondata, garantendo il welfare e la pace sociale.
Molti sindaci, oltre a spendere quel poco che gli è stato assegnato, hanno realizzato autonomamente una iniziativa seria sul piano fiscale: sospendere la tassazione locale per manifesta inesigibilità. Si aspetta da settimane il decreto che dovrebbe avallare questa operazione, ma è già stato comunicato che gli oneri rimarranno a carico dei bilanci dei Comuni che in cambio riceveranno un prestito dalla Cassa depositi e prestiti. Un prestito!!!
Una politica forte e lungimirante avrebbe dirottato 10 miliardi di euro, dei 400 promessi al sistema imprenditoriale italiano, agli enti locali, ripristinando l’entità dei trasferimenti statali inopinatamente azzerati a partire dal 2011 da questo finto federalismo fiscale.
E anche qui non credo che il problema sia burocratico, ma concordo che a livello locale la burocrazia si governa molto meglio.
Caro Professore, la politica spesso ci ricorda il proprio primato. Concordo! E allora dico che oggi, nel nostro Paese, l’Europa, il debito, la spesa pubblica e la burocrazia sono parte un unico grande problema… Politico!

*Economista d’impresa, Magistrato della Corte dei conti
[Palermo, domenica di Pasqua 12 aprile 2020]