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mercoledì 29 aprile 2020

I TRENI CHE TARDANO GIÀ IN PARTENZA
di Mihal Ramač


Ivan è arrivato con due borse e una chitarra. Era indignato nei confronti dei soldati, si vergognava dell’impotenza dei propri connazionali, era amareggiato per aver dovuto lasciare la propria patria. Era convinto che il comunismo sarebbe scoppiato come un pallone. A me e ai miei coetanei interessavano solo i bagni, il calcio e i balli. Va bene, anche accarezzare le ragazze. Sapevamo che l’estate precedente si era molto parlato dei russi e dei cecoslovacchi, non ci preoccupavamo però come si preoccupavano gli adulti. Non volevamo saper nulla di qualsivoglia comunismo. Ivan era solo di qualche anno più vecchio, aveva terminato il secondo anno dell’Università ma era immerso nella politica fino al collo. Ogni sera ci raccontava di quanto gli si era gonfiato il petto la scorsa primavera e di come aveva trovato ributtante l’arrivo dei carri armati sulla passeggiata cittadina. Poi prendeva la chitarra e cantava le canzoni proibite dopo l’arrivo dei russi. Con quelle canzoni e con il suo atteggiamento da focoso anticomunista, conquistava il cuore delle ragazze più facilmente di noi.
Sono passati vent’anni da quell’estate. Ivan se n’era andato alcuni mesi dopo il suo arrivo. Mi ha lasciato la chitarra. Si è fatto vivo da Roma, poi da Monaco di Baviera. Spesso penso a lui quando sono seduto sul treno che va verso nord. In quei treni, la cosa più importante è tenere al sicuro il passaporto, i soldi e il biglietto di ritorno. Su quei treni ho conosciuto un infinito numero di personaggi che nessuna letteratura socialista è mai riuscita a creare, anche se sono i figli legittimi del socialismo reale. Non hanno studiato scienze economiche, eppure conoscono esattamente i difetti delle politiche economiche dei propri paesi e di quelli limitrofi. Non hanno studiato giornalistica, eppure sanno che i giornali nei loro paesi sono utili solo per accendere il fuoco e per avvolgere le uova. Non hanno letto gli articoli di fondo e non hanno dato neppure un’occhiata al listino dei cambi valute. Anche senza questo, però, sanno infallibilmente il valore del dollaro nei confronti dello zlot. Senza calcolatrice, cambiano i fiorini in corone e i lei in dinari. Ogni denaro è utile se si spende in maniera intelligente. Non seguono i resoconti di borsa, ma sanno sempre e con esattezza che cosa bisogna procurarsi dall’altra parte della frontiera per rivenderlo e guadagnarci da quest’altra parte. Non hanno studiato Diritto, ma sanno che il Diritto è sempre dalla parte dei più forti. Per questo hanno imparato a superare in astuzia quelli che sanno di non poter in alcun modo vincere in politica. A differenza dei loro Stati, sono sempre in attivo quando vendono e quando comprano. Non si dichiarano internazionalisti, anche se si sentono perfettamente a casa in tutti i mercati del mondo, dove colmano le mancanze delle economie socialiste, che sono sempre esemplari e perfette, ma solo sulla carta.
Il libero mercato si manifesta soprattutto lì dove l’economia pianificata non lascia libertà. I passeggeri dei treni strapieni che vanno dal Baltico al Mediterraneo sanno che i loro politici mentono appena aprono bocca. Conoscono l’antica regola per cui non sarà certo chi l’ha distrutta a rimettere a posto l’economia domestica. Sanno che la casa non si salva dalla distruzione semplicemente ridipingendone la facciata. Non si preoccupano troppo della politica, non sanno quanto dureranno gli Stati fondati sulle menzogne, ma sanno che devono darsi da fare se vogliono sopravvivere. Per questo, riempiono le borse di tutto cià che possono comprare, si stipano sui treni, risolvono i numerosi problemi che i poliziotti di frontiera danno loro e alla fine trasformano la roba trasportata in denaro. Con quei soldi comprano altra roba, preziosa e ricercata nei posti di provenienza. Dadi per il brodo, vestiti e calze, abiti per bambini, porcellana e cristalli, stoffe, cotone e lana, attrezzi per tutti i mestieri, tester e chiavi inglesi, rotoli di cavi, materiale elettrico, scaffali, candele di automobili, spine e interruttori, pezzi di ricambio per automobili e biciclette, magnetofoni e giacche di pelle, tessuti ricamati e centrini di pizzo, pentole e padelle, binocoli e compassi, fornelli elettrici, camicie e stivali militari, asciugamani, medicine, vernici e tempere, profumi per ogni gusto e portafoglio, cioccolate e vodka, tende e tappeti, spumanti, conserve, quadri senza cornici e cornici d’oro... Tutto al prezzo di uno o pochissimi spiccioli.
Nelle stazioni o nei parchi vicino, nelle vie centrali o periferiche, davanti agli stadi, nei passaggi sotterranei, ovunque ci sia un posto utile, il mercato nero corregge gli errori che il grande Lenin e il suo allievo Stalin hanno creato nel sistema. Un centinaio di persone più coraggiose e intraprendenti della maggioranza dei propri conterranei crepano di caldo o di freddo sui treni che si scuotono fino all’inverosimile, tollerano la puzza e la polvere, i ladri, i poliziotti e i doganieri, portano con sé borsette e attaccano pacchi di soldi sotto l’ascella o alla cintura, nascondono catenine d’oro nelle calze o nelle mutande, mangiano kifle, burek e pastette, mercanteggiano e litigano, arrivano a destinazione, tornano a casa e finalmente tirano un sospiro di sollievo: ancora una volta sono riusciti ad aver ragione dell’onnipresente vita mostruosa a cui la vita nel bisogno e nell’obbedienza li ha costretti. Non appena si riposano e si riprendono, partono per una nuova avventura. Chi non vuole rischiare, rimane nella propria povera casa, si lamenta e li invidia. E aspetta che lo Stato gli offra ciò che gli serve. A ciascuno secondo il proprio bisogno, come è scritto nei manuali.


Gli Stati socialisti-modello con i loro Politburo, i comitati centrali, le accademie della scienza e i vari istituti, con migliaia di scienziati pagati profumatamente e pluripremiati, professori e propagandisti, non sono neanche lontanamente lucidi ed efficienti come i loro cittadini. Non si sono ricordati di produrre o di importare quello che è necessario. Non si sono ricordati che le dame di tutti i paesi vogliono vestiti decenti e belli, che tutti gli artigiani del mondo hanno bisogno di smerigliatrici e trapani... che il mondo cambia continuamente e non ci sono frontiere ed eserciti che possano fermare il tempo.
Ho cercato di spiegare tutto questo a un ragazzo dell’Ohio sul treno Budapest-Praga in una notte di maggio, 12 anni dopo la Primavera di Praga. Grazie ai libri, lui conosceva molto più di me i sistemi politici ed economici al di là della cortina di ferro. Non aveva però mai visto la follia con i propri occhi. Non aveva mai visto i vagoni di seconda classe da cui per poco non cadono fuori le persone esauste, che da giorni non si lavano, e le valigie, e i pacchetti. Non ha mai venduto di contrabbando nemmeno una penna biro. Non riusciva a capire perché i poliziotti alla frontiera lo interrogavano e lo controllavano come se fosse sospetto. I suoi appunti sembravano più pericolosi dei pacchi di 30 kg pieni di chissà quali merci. Lo mandava fuori di testa ciò che in questa parte del mondo è normale.
A me hanno chiesto solamente dove andassi e che cosa ci fosse nella piccola borraccia che stava sul tavolino. Con un sorriso hanno declinato il mio gentile invito a favorire. Andavo a Praga a seguire, per poi farne un resoconto, la visita del Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia alla Repubblica Socialista della Cecoslovacchia. Allora avevo già ben capito perché Ivan se ne fosse andato dalla propria patria, dopo aver messo in due valigie tutto ciò che era necessario per cominciare una nuova vita nel mondo libero.
Ho scritto con un linguaggio sterile il mio articolo nelle sale del quartiere di Hradčany perché potevo esclusivamente riportare quello che dicevano i due capi di governo e i loro collaboratori. Non era ancora tempo - solo due anni fa - di scrivere che al socialismo di quelle parti non restava che scoppiare come fosse un palloncino. I treni del contrabbando che partono già in ritardo e i mercati dell’Europa dell’Est erano la più viva testimonianza che una storia stava per finire. (1989)

PS: Ivan dell’inizio della storia vive oggi nella sua patria libera con una pensione tedesca. La maggior parte dei suoi coetanei ha pensioni ceche, ma in ogni caso europee. I miei coetanei e io - che un tempo compativamo coloro che venivano dai paesi comunisti, e qualche volta li insultavamo anche - adesso siamo da compatire. Ora è il nostro paese a trovarsi dietro la cortina di ferro, e tutto quello che da qui si potrebbe vendere di contrabbando è già stato venduto.
[Da “Zov Vedrih Vidika”, Mediterran Publishing, Novi Sad. Trad. it. di Christian Eccher]