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sabato 11 aprile 2020

Spigolature
IL GIUSTO PESO DELLE PAROLE
di Angelo Gaccione 
 
Angelo Gaccione a Villa Dalmè
15 agosto 2019
  
Dovremmo andarci cauti con le parole e soppesarne tutta la portata. Troppo disinvoltamente se ne fa un uso improprio per pigrizia mentale, per ignoranza storica, per incapacità di saldare la parola alla cosa, per superficiale imitazione. Il più vieto giornalismo televisivo, ma anche quello cartaceo che aveva, rispetto al primo, conservato un minimo di decenza, sono da tempo divenuti incubatori, contenitori, macinatori, diffusori, e banali “degradatori” di parole. Esiste un consumismo delle parole di cui al pari del consumismo delle merci si fa uso e abuso, e come le più precarie delle merci anche esse si usurano e si deteriorano.
Non c’è nulla di più pervasivo del linguaggio, soprattutto se ridotto ai minimi termini; nulla che diventi più rapidamente di moda e che altrettanto rapidamente si consumi. Prendiamo ad esempio alcuni vocaboli venuti da qualche tempo in auge: solare - resilienza - impiattare. Hanno talmente condizionato il lessico di entrambi i media (video e carta stampata), che pare non ne possano fare a meno il colto e l’inclita. Era molto solare la collega giornalista appena scomparsa, ma lo era anche il piccolo teppista sfracellatosi con il motorino guidato contro mano. Così ci rivelano ai microfoni televisivi gli amici del trapassato, intervistati.
Non ce n’è uno che da qualche tempo non sia solare, in Italia; e non c’è mamma che non aspiri ad una futura nuora, naturalmente solare. Quanto alla resilienza è diffusissima in ogni ambito e ne sono stracarichi uomini e donne in egual misura. Una vera fortuna.
Gettonatissime poi le espressioni: in questo Paese, detto questo, industria 1 punto zero… Fino a prima del coronavirus eravamo approdati a un 4 punto zero e c’era da giurare che saremmo saliti ancora più su, se la pandemia non ci avesse messo il becco. Adesso ignoro se siamo ridiscesi ad uno zero punto zero, e bisognerà che giornali e televisioni ce ne rendano edotti. Ad ogni modo non c’è parlante che non ne faccia uso, dal momento che non c’è linguaggio senza parlanti.
Personale idiosincrasia a parte, su termini linguistici come quelli testé presi in esame, si può con ironia sorvolare. Non è tollerabile, invece, la noncurante faciloneria con cui, da quando il virus è venuto a farci visita, ad ogni pie’ sospinto si tiri fuori la terribile parola guerra. “Siamo in guerra”; “Stiamo combattendo una guerra”; “Dobbiamo vincere questa guerra” e via guerreggiando. Non c’è bocca, penna, ceto sociale, ambiente culturale e politico che non faccia uso di questa metafora marziale e immaginifica. No, signori, non siamo affatto in guerra; dovreste pesare le parole e conferire loro la giusta rilevanza. Se fossimo in guerra io non potrei vergare (seppure ristretto forzatamente nel chiuso di una stanza da troppi giorni) lo scritto che adesso state leggendo. Se fossimo in guerra io e tutti voi saremmo divenuti polvere già nei primi attimi in cui le bombe nucleari sarebbero state sganciate. Polvere dispersa nell’atmosfera assieme alle macerie delle nostre case ridotte a loro volta in polvere. In polvere sarebbero i nostri silenziosi magnifici edifici, gli scorci più belli e poetici delle nostre città, i castelli, le cattedrali, le basiliche, i campanili, i conservatori, i musei, i teatri, le biblioteche, gli archivi, gli orti botanici, i planetari, i ponti, le stazioni, i grattacieli, i cimiteri, e gli ospedali non curerebbero nessun infettato di coronavirus. Non ci sarebbero né luce elettrica né acqua potabile, e tanto meno Supermercati, dove da mesi ci stiamo mettendo più o meno ordinatamente in fila per comprare merci di ogni tipo, senza la penuria di guerra e senza mercato nero. Ci sarebbe solo il buio invernale prodotto da milioni e milioni e milioni di tonnellate e tonnellate e tonnellate di polveri disperse nella stratosfera. E un silenzio annichilente: questo sì, spettrale.