IL GIUSTO PESO DELLE PAROLE
di
Angelo Gaccione
Dovremmo andarci cauti con le
parole e soppesarne tutta la portata. Troppo disinvoltamente se ne fa un uso
improprio per pigrizia mentale, per ignoranza storica, per incapacità di
saldare la parola alla cosa, per superficiale imitazione. Il più vieto
giornalismo televisivo, ma anche quello cartaceo che aveva, rispetto al primo,
conservato un minimo di decenza, sono da tempo divenuti incubatori, contenitori,
macinatori, diffusori, e banali “degradatori” di parole. Esiste un consumismo
delle parole di cui al pari del consumismo delle merci si fa uso e abuso, e
come le più precarie delle merci anche esse si usurano e si deteriorano.
Non c’è nulla di più pervasivo del linguaggio, soprattutto se
ridotto ai minimi termini; nulla che diventi più rapidamente di moda e che
altrettanto rapidamente si consumi. Prendiamo ad esempio alcuni vocaboli venuti
da qualche tempo in auge: solare - resilienza - impiattare. Hanno
talmente condizionato il lessico di entrambi i media (video e carta stampata),
che pare non ne possano fare a meno il colto e l’inclita. Era molto solare
la collega giornalista appena scomparsa, ma lo era anche il piccolo teppista
sfracellatosi con il motorino guidato contro mano. Così ci rivelano ai
microfoni televisivi gli amici del trapassato, intervistati.
Non ce n’è uno che da qualche tempo non sia solare, in
Italia; e non c’è mamma che non aspiri ad una futura nuora, naturalmente solare.
Quanto alla resilienza è diffusissima in ogni ambito e ne sono
stracarichi uomini e donne in egual misura. Una vera fortuna.
Gettonatissime poi le espressioni: in questo Paese, detto
questo, industria 1 punto zero… Fino a prima del coronavirus eravamo
approdati a un 4 punto zero e c’era da giurare che saremmo saliti ancora
più su, se la pandemia non ci avesse messo il becco. Adesso ignoro se siamo ridiscesi
ad uno zero punto zero, e bisognerà che giornali e televisioni ce ne
rendano edotti. Ad ogni modo non c’è parlante che non ne faccia uso, dal
momento che non c’è linguaggio senza parlanti.
Personale idiosincrasia a parte, su termini linguistici come
quelli testé presi in esame, si può con ironia sorvolare. Non è tollerabile,
invece, la noncurante faciloneria con cui, da quando il virus è venuto a farci
visita, ad ogni pie’ sospinto si tiri fuori la terribile parola guerra.
“Siamo in guerra”; “Stiamo combattendo una guerra”; “Dobbiamo vincere questa
guerra” e via guerreggiando. Non c’è bocca, penna, ceto sociale, ambiente
culturale e politico che non faccia uso di questa metafora marziale e
immaginifica. No, signori, non siamo affatto in guerra; dovreste pesare le
parole e conferire loro la giusta rilevanza. Se fossimo in guerra io non potrei
vergare (seppure ristretto forzatamente nel chiuso di una stanza da
troppi giorni) lo scritto che adesso state leggendo. Se fossimo in guerra io e
tutti voi saremmo divenuti polvere già nei primi attimi in cui le bombe
nucleari sarebbero state sganciate. Polvere dispersa nell’atmosfera assieme
alle macerie delle nostre case ridotte a loro volta in polvere. In polvere
sarebbero i nostri silenziosi magnifici edifici, gli scorci più belli e poetici
delle nostre città, i castelli, le cattedrali, le basiliche, i campanili, i conservatori,
i musei, i teatri, le biblioteche, gli archivi, gli orti botanici, i planetari,
i ponti, le stazioni, i grattacieli, i cimiteri, e gli ospedali non curerebbero
nessun infettato di coronavirus. Non ci sarebbero né luce elettrica né acqua
potabile, e tanto meno Supermercati, dove da mesi ci stiamo mettendo più o meno
ordinatamente in fila per comprare merci di ogni tipo, senza la penuria di
guerra e senza mercato nero. Ci sarebbe solo il buio invernale prodotto da
milioni e milioni e milioni di tonnellate e tonnellate e tonnellate di polveri
disperse nella stratosfera. E un silenzio annichilente: questo sì, spettrale.