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sabato 2 maggio 2020

COME
di Alfonso Gianni*

Alfonso Gianni


Con questo lungo saggio Alfonso Gianni 
inizia la sua collaborazione con “Odissea”.

Una volta sconfitta la pandemia in corso che mondo troveremo? E prima ancora dovremmo chiederci, visto che fino a quando non viene sviluppato un vaccino efficace il virus continuerà ad essere un pericolo costante, come sarà possibile convivere con la sua persistenza, seppure contenuta? È una domanda a tutto tondo. Sia perché riguarda ogni ramo dell’attività umana, da quello produttivo a quello ricreativo e riproduttivo, sia perché coinvolge tutto il mondo. Per queste ragioni rispondere o almeno tentare di farlo, ad una simile domanda, significa praticare molti piani e terreni, entrare in diversi ordini di questioni. Approfittando della gentile ospitalità di Odissea, vorrei cominciare da qualche aspetto macroeconomico, con particolare riguardo alla discussione in atto su quale deve essere l’intervento che la Unione europea può immediatamente svolgere per affrontare una crisi di proporzioni gigantesche e in parte finora ignote. Se sarà possibile in una prossima occasione cercherò di concentrare l’attenzione su ipotesi di un possibile programma di ripresa del paese, senza alcuna pretesa di esaustività, ovviamente, ma per offrire qualche argomento al dibattito, anche se questo non facilita la brevità.

Mario Draghi

Quando Mario Draghi, nel suo ormai famoso intervento sul Financial Times del 25 marzo definì la pandemia di Covid-19 come “una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche”, qualcuno pensò che l’insolita enfasi delle parole usate da un uomo misurato nelle esternazioni pubbliche, nascondesse qualche progetto di autoinvestitura nella tormentata vicenda italiana. Era una lettura dal buco della serratura, non infrequente dalle nostre parti, ove la dietrologia si accompagna a un provincialismo di antiche origini. In realtà con quell’intervento Draghi forniva una lettura più che realistica della situazione pandemica e delle sue conseguenze economiche nel quadro mondiale e allo stesso tempo indicava la necessità, anzi la drammatica urgenza, di un intervento a ogni livello del potere politico pubblico a partire dall’Unione europea. D’altro canto l’ex presidente della Bce aveva da tempo ammonito che la sola politica monetaria sarebbe stata insufficiente per fare uscire l’Europa in salute dalla precedente crisi. Figuriamoci da questa.  “Esitare adesso - scrive Draghi sempre in quell’articolo - può avere conseguenze irreversibili: ci serva da monito la memoria delle sofferenze degli europei durante gli anni Venti”. Se il parallelismo tra emergenza sanitaria causata dalla pandemia e una guerra mondiale è ovviamente sbagliato, quanto purtroppo abusato, del tutto convincente è la previsione che, una volta sconfitto il morbo, troveremo un mondo in condizioni tali da richiamare alla memoria i periodi di ricostruzione postbellica.


La crisi è stata provocata da uno shock esogeno, si è sentito dire e scrivere frequentemente. Il che è solo parzialmente vero. Le grandi epidemie - ce lo ha ribadito quel bel libro di Jared Diamond Armi, acciaio e malattie - hanno segnato la storia dell’umanità e la geografia dei suoi insediamenti da oltre tredicimila anni. Ben prima, quindi, della nascita e lo sviluppo del capitalismo. Ma la velocità con la quale il Covid-19 ha invaso il mondo senza risparmiare nessun luogo e nessuna popolazione, il ripetersi di fenomeni pandemici entro lassi di tempo sempre più contratti hanno molto a che fare con le modalità di funzionamento del capitalismo su scala mondiale, con i percorsi delle catene del valore, con la moltiplicazione degli spostamenti di persone e cose, con lo sfruttamento intensivo della terra, gli allevamenti concentrati di animali destinati all’alimentazione, il deterioramento dell’aria, del suolo, delle acque.
Si moltiplicano e diventano assai più frequenti le crisi sanitarie così come quelle economico-finanziarie. La crisi attuale non ha paragone che con quella del ’29, le cui conseguenze è probabilmente destinata a superare. È una crisi universale che raccoglie in sé, prolunga e dilata le crisi precedenti. Specialmente laddove queste non erano state smaltite. Come quella iniziata negli Usa nel 2007 e approdata in Europa l’anno seguente senza averla ancora abbandonata.

Le cifre della crisi economica

Gita Gopinath

Il World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale pubblicato il 14 aprile fornisce cifre impietose sul drammatico stato di salute dell’economia mondiale. Nella prefazione al Rapporto la capoeconomista del Fmi, Gita Gopinath, afferma che la recessione generata dalla pandemia “fa impallidire” quella prodotta dalla crisi economico-finanziaria globale del 2009. Infatti l’economia mondiale, secondo l’Fmi, calerà del 3% nel 2020. Un crollo di proporzioni inedite, cui farebbe seguito nell’anno successivo una ripresa del Pil globale, “molto incerta”, del 5,8%. Nel biennio “la perdita complessiva di Pil globale potrebbe essere di circa 9 mila miliardi di dollari, superiore alla somma delle economie di Giappone e Germania”, ha sottolineato Gopinath nell’intervento introduttivo che accompagna la diffusione del Rapporto. La differenza rispetto alla precedente già gravissima crisi di 11 anni fa è evidentissima se si considera che nel 2009 la perdita di Pil mondiale si era limitata allo 0,1%. «Questa - ribadisce l’economista- è una crisi veramente globale poiché nessun paese è risparmiato» con impatti «particolarmente forti» per i paesi che dipendono «dal turismo, dai viaggi, dall’ospitalità e dall’intrattenimento». «Per la prima volta dalla Grande Depressione, sia le economie avanzate sia i mercati emergenti e le economie in via di sviluppo sono in recessione», conclude Gopinath.
Si tratta di una crisi che aggredisce l’economia mondiale contemporaneamente dai due lati, quello della domanda e quello dell’offerta, il che, come vedremo, ha conseguenze rilevantissime sul come uscirne.


Ma l’analisi del Fmi fornisce per il prossimo futuro scenari ancora peggiori. Il rimbalzo del 2021 è incerto soprattutto perché la sua potenzialità è legata alla scomparsa della pandemia nella seconda metà del 2020. Ipotesi che più il tempo passa più appare improbabile, dal momento che la sua sconfitta è legata all’esistenza di vaccini e farmaci efficaci che per ora sono solo in via di ricerca o di prima sperimentazione. Gli analisti del Fmi avanzano prudentemente perciò tre possibili scenari, tutti peggiorativi di quello principale già così poco allegro. Se il tempo per fermare il contagio fosse più lungo la recessione sarebbe di tre punti maggiore, cui seguirebbe un rimbalzino di un solo punto percentuale nell’anno che viene. Ma se il 2021 ci presentasse la continuazione o la ripresa dell’ondata pandemica, anche quel punticino sparirebbe o cambierebbe di segno. Infine, se si sommassero i due scenari di cui sopra, l’esito sarebbe una recessione anche nel 2021 di 8 punti di Pil in meno rispetto a + 5,8% stimato.
Per quanto riguarda l’Eurozona la recessione penalizzerà - siamo nel primo scenario, quello meno peggiore - il nostro paese con una caduta del Pil nell’anno in corso pari al 9,1%. Le stime della Banca d’Italia sono un poco meno drammatiche, ma è chiaro che in poche settimane tutto è cambiato. Dallo 0,6% in più a 8,5 in meno, mentre nel 2009 la contrazione del Pil si fermò al 5%. Farà peggio di noi solo la povera Grecia (-10%), mentre duramente colpite saranno anche Germania (- 7%) e Francia (-7,2%). Anche per gli Stati uniti la prospettiva è pessima (- 5,9% di Pil), mentre la Cina resterà in positivo, ma solo per 1,2%. Il rapporto del Fmi si sofferma ovviamente anche sul quadro occupazionale che per l’Italia vede salire la disoccupazione dal 10% al 12,7%, raddoppiarsi al 14% in Portogallo, salire in Spagna al 20,8% e in Grecia al 22,3%. Solo la Germania si manterrà su livelli di disoccupazione leggermente superiori a quella che viene definita frizionale, sotto il 4%, mentre la media dell’Eurozona salirà al 10,4%. E bisognerà sempre ricordare che i maquillage effettuati ai criteri di calcolo dell’occupazione permettono di considerare in tale condizione anche chi lavora solo un’ora alla settimana. Si tratta quindi di un’occupazione con una larga percentuale di lavori precari, minimali e occasionali. Anche oltreoceano la disoccupazione picchierà forte e probabilmente influenzerà gli orientamenti elettorali negli Usa (sempre che le elezioni si tengano come previsto ai primi di novembre), dal momento che si passerebbe dal 3,7% del 2019 al previsto 10,4% a chiusura del 2020.

Lo straordinario messaggio pasquale di Papa Francesco


Papa Francesco non ha aspettato la pubblicazione dei dati del Fmi e nel giorno di Pasqua ha tenuto un discorso di rara tensione morale e politica, molte spanne al di sopra delle élites politiche europee per non dire mondiali. Ha chiesto “un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo” aggiungendo che “non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite” nella ricerca e nella costruzione di una pace definitiva. È entrato nel merito delle grandi questioni economiche e ambientali che affliggono il mondo. Ha incoraggiato “quanti hanno responsabilità politiche ad adoperarsi attivamente in favore del bene comune dei cittadini, fornendo i mezzi e gli strumenti necessari per consentire a tutti di condurre una vita dignitosa”. Ha sottolineato la necessità che “si mettano in condizione tutti gli Stati di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri”.


Infine ha avvertito l’Unione europea della “sfida epocale” che ha di fronte a sé “dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero”. Per questo - ha insistito il Pontefice - “non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative” dal momento che “l’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni”. Ma non si può dire purtroppo che queste parole, così penetranti e puntuali, abbiano trovato finora un conseguente riscontro tra i leader europei.

Il deludente quadro delle riunioni dei vertici europei


Giuseppe Conte

A giudicare dalle riunioni che hanno preparato quella del Consiglio europeo non vi era da navigare nell’ottimismo. Di questo si è accorto anche il Presidente del Consiglio. Infatti la sua infuocata conferenza stampa in diretta televisiva del 10 aprile - che tante critiche, per lo più a sproposito, ha ricevuto per l’aggressivo attacco all’opposizione di destra - se aveva un pregio era certamente quello di ridimensionare l’entusiasmo del tutto fuori luogo sparso nelle prime ore dal ministro Gualtieri sugli esiti dell’Eurogruppo virtuale del giorno prima. Il secondo tempo della partita si giocherà il 23 aprile, ma il primo tempo, per rimanere nelle metafore calcistiche usate dal nostro ministro dell’economia, non è affatto andato bene per i paesi che si contrapponevano al fronte del rigorismo capitanato da Germania e Olanda.


La ragione è semplice. Il punto discriminante era la messa in campo o meno degli euro o coronabonds che dir si voglia. Ma nel documento finale non compare neppure la parola. Nella parte dedicata al Recovery Fund, la soluzione voluta in particolare dalla Francia e sostenuta dall’Italia, si dice solo che si è convenuto “di lavorare su un fondo di recupero … temporaneo, mirato e commisurato ai costi straordinari dell’attuale crisi … fatte salve le indicazioni dei Capi di governo, le discussioni sugli aspetti giuridici e pratici di tale fondo, comprese le sue relazioni con il  bilancio dell’Ue, le sue fonti di finanziamento e gli strumenti finanziari innovativi, coerenti con i trattati dell’Ue, prepareranno il terreno per una decisione”. Quindi tutto è stato rimandato al Consiglio europeo del 23 aprile in una situazione di totale incertezza. Sappiamo che il fronte del rigore non voleva neppure che si usasse il termine “lavorare” riferito al da farsi sul Fondo di recupero, che avrebbe preferito un termine ancora più vago, ma ciò che purtroppo conta è che il termine bonds è rimasto escluso e la dichiarazione della Merkel contraria ai medesimi ha trovato piena conferma. Come si faccia a presentare tutto ciò come una vittoria è francamente incomprensibile. Si è trattato di un compromesso al ribasso, di un brutto accordo. In sostanza il nocciolo della questione, ovvero la mutualizzazione dei rischi del debito non è passata. Né le incertezze e le ambiguità risultano superate dalla risoluzione, peraltro non vincolante approvata a maggioranza dal Parlamento europeo il 17 aprile nella quale si esortano i Ventisette a qualche forma di mutualizzazione dei debiti pubblici per rispondere allo shock economico provocato dalla pandemia. Le cose sarebbero state più chiare e nette se fosse passato l’emendamento proposto dai Verdi ma, appunto, così non è stato. Naturalmente la risoluzione alternativa dal taglio programmatico presentata dal Gue/Ngl non ha avuto miglior fortuna”. Ci si può aggrappare al fatto che poiché il testo - appoggiato da popolari, liberali e socialisti ma con divisioni, soprattutto nel mondo politico italiano - invita Bruxelles a “proporre un massiccio programma di rilancio i cui investimenti sarebbero finanziati da un accresciuto bilancio europeo cosi come da obbligazioni per la ripresa garantite dallo stesso bilancio comunitario, senza comportare la mutualizzazione del debito esistente”, non risulterebbe invece esplicitamente esclusa la mutualizzazione di debiti futuri. Ma ciò che avrebbe dovuto diventare il cuore del documento, pur non vincolante, è stato lasciato nel vago.

La questione del Mes


Abbiamo invece un Mes (Meccanismo europeo di stabilità), cui il governo italiano dice che non ricorrerà, come ha ribadito con foga Conte, che prevede la non condizionalità per spese sanitarie “dirette o indirette” - ma chi sarà in grado di porre una linea di demarcazione fra le une e le altre? -, mentre queste tornano ad agire su un utilizzo dei prestiti per la ripresa economica. La condizionalità non è evitata, solo limitata, nei tempi e nei campi di applicazione, ma con un meccanismo assurdo e tutt’altro che sicuro per chi lo dovesse accettare. Lo stesso Conte ha poi esplicitamente riconosciuto che nulla è deciso e certo in merito alle modalità di funzionamento del Mes, sul cui eventuale ricorso sarà il Parlamento a doversi pronunciare. Da un lato è bene che finalmente si chiami in causa il Parlamento per potere decidere. Ed è giusto che questo avvenga sulla base di una conoscenza precisa delle condizioni con cui avverrebbe un eventuale ricorso al Mes. Ma tutto ciò equivale a riconoscere il carattere indeterminato della situazione nella quale non solo il nostro governo si trova, in balia degli umori e dei giochi delle alleanze dei paesi più forti.
Ma vi è anche un altro aspetto che emerge. La presunta non condizionalità vale e dura solo per il periodo della pandemia, finita la quale tornano a funzionare le vecchie regole, come del resto è stato scritto nel comunicato finale dell’Eurogruppo ove si chiarisce che i prestiti (naturalmente di questo si tratta non di aiuti a fondo perduto) sarebbero fatti nel quadro delle linee esistenti (le Eccl) “seguendo le disposizioni del Trattato Mes”. Il Mes non è un’istituzione caritatevole, come sanno bene i paesi che sono stati indotti a farvi ricorso, quali Grecia, Spagna, Portogallo, ma praticamente una banca che agisce con il cuore sempre dalla parte del creditore come del resto viene esplicitamente detto. Fornisce prestiti, non aiuti. Da restituire e il vantaggio per l’Italia sarebbe solo per gli interessi più bassi. Per di più la sua “potenza di fuoco”, anche se la si usasse tutta, è limitata (410 miliardi).
Ha quindi perfettamente ragione Francesco Saraceno (Il Sole 24 Ore del 15 aprile) a parlare di “inconsistenza temporale”, ovvero un impegno ‘politico’ assunto oggi non può vincolare le decisioni future. Perciò non è affidabile, o non lo è sufficientemente, anche se alcune interpretazioni delle norme statutarie traggono la conclusione che l’Italia potrebbe avere un diritto di veto rispetto alla riproposizione di condizioni non accettabili. Non solo. Ma l’idea - di cui abbiamo visto la ben scarsa credibilità - di fare valere la condizionalità solo per il periodo della pandemia e quindi di rimettere la porta sui vecchi cardini appena questa finisce, fa trapelare la convinzione che tutto possa tornare come era prima, per quanto riguarda gli indirizzi finanziari, economici e produttivi. Esattamente come si è fatto dopo la fase acuta della precedente crisi economico-finanziaria. 


Questa formulazione esclude in partenza qualsiasi volontà di trasformazione o di semplice modificazione del modello di sviluppo economico. Per fare solo un esempio, le spese per dotare il nostro paese di un servizio sanitario nazionale efficiente in ogni angolo dello stivale e pronto a sopportare emergenze sanitarie sempre più frequenti, non possono essere catalogate semplicemente come spese sanitarie, ma sono un investimento in difesa di un diritto primario che ha la forza di indirizzare e sviluppare l’intera economia per finalità diverse da quelle del passato. Se quindi, passata la pandemia, si dovesse sottostare in caso di prestiti alle forche caudine della cosiddetta Troika, che la Grecia ha dolorosamente conosciuto, non si potrebbe operare alcuna trasformazione nel modello produttivo e sarà impossibile sviluppare forme di difesa e di prevenzione verso nuove non improbabili epidemie.
Se si guarda poi alla modalità e all’entità degli interventi previsti dal progetto Sure per il lavoro e dalla Bei per le piccole e medie imprese il quadro non migliora. Complessivamente è prevista una spesa che non supera i 500 miliardi. Ma ce ne vorranno molti di più.  

La necessità e la fattibilità dei coronabonds



Le dimensioni di questa crisi sono mondiali, ancora più ampie di quella, tutt’altro che smaltita in Europa, che partì nel 2007/2008. Non si intravedono né termine né vie d’uscita, anche perché sono legati alla sconfitta del virus che solo lo sviluppo e la libera diffusione di un vaccino possono garantire. Abbiamo già detto che siamo di fronte ad una crisi che si accanisce sia sul lato della domanda che dell’offerta. Soluzioni classicamente keynesiane non sono possibili. Per quanto maggiormente desiderabile in termini di giustizia sociale, un intervento che mirasse solo allo sviluppo dei consumi, quindi mettendo in condizione le persone comuni di spendere avrebbe scarsa efficacia a fronte di una mancata offerta di qualche cosa da comprare. Soprattutto perché questa nuova crisi sottolinea il nesso terribilmente distorto fra modello di sviluppo e di vita e la condizione sociale e ambientale.
La famosa questione del “cosa”, “quanto” e “per chi” produrre torna di drammatica attualità. D’altro canto sono proprio le crisi che possono offrire l’occasione imperdibile per grandi trasformazioni o per il loro esatto e tragico contrario. Quindi bisogna intervenire sul fronte delle imprese con un grande piano pubblico coordinato a livello europeo e contemporaneamente e subito con un sostegno universale al reddito delle persone.  Per questa ragione se l’Europa non vuole disintegrarsi è necessario l’intervento di uno strumento comune di debito che distribuisca il rischio tra tutti i membri dell’Unione mettendoli così al riparo da speculazioni di ogni genere.


Come hanno recentemente osservato un gruppo di economisti e di giuristi su un blog tedesco (https://verfassungsblog.de/the-case-for-corona-bonds/), qualsiasi proposta di strutturazione di emissioni di obbligazioni ordinarie in Europa deve fare i conti con la famosa disposizione "senza salvataggio" (art.125 del Tfue). Ma questo articolo non si applica ai corona bonds. Il suo scopo è prevenire un salvataggio, vale a dire la mutualizzazione del debito di uno o più Stati membri, come pure la monetizzazione secca del debito, come hanno osservato gli stessi economisti che in un appello l’hanno recentemente caldeggiata. I corona bonds sono invece debiti reciproci sin dall'inizio e questo loro carattere non è solo una formalità in quanto dovrebbero finanziare progetti europei comuni con alcune entrate. Anche nella misura in cui i proventi dei corona bonds dovessero venire utilizzati a beneficio dei singoli Stati membri, ciò avverrà comunque nell'ambito di progetti europei comuni. In effetti, l’art. 125, primo comma, del Tfue afferma che l’Unione non si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni pubbliche ad ogni livello di qualsiasi Stato membro “fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico”. Quindi l’aggiramento dei vincoli posti dai Trattati non avverrebbe in virtù di ingegnose costruzioni finanziarie, ma in base alla finalizzazione comune dell’investimento. D’altro canto obbligazioni comuni vennero messe in opera a metà degli anni ’70 per aiutare i paesi europei in difficoltà a causa della famosa crisi petrolifera verificatasi in quel periodo, come nel caso delle obbligazioni comunitarie del 1975 stabilite dal regolamento 397/75.


Questo permetterebbe di raggiungere un obiettivo davvero importante: mentre si risponde all’emergenza si tracciano le strade per far fare veri passi in avanti all’unità europea dal punto di vista politico-istituzionale, non solo monetario. Il che imporrebbe immediatamente di ingrandire lo striminzito bilancio europeo, ora limitato all’1% del Pil complessivo. Per farlo la Ue può, anche in base ai Trattati vigenti, “istituire nuove categorie di risorse proprie” (art.311 Tfue) e armonizzare le norme in materia fiscale (si pensi alla carbon tax, alla web tax, alla Tobin tax).

 La cecità delle classi dirigenti europee


Alcuni commentatori hanno fatto ironie mal riposte sul concetto di solidarietà, sostenendo che non la si può applicare alle vicende economiche. Lasciamo da parte un attimo il fatto che una simile convinzione nasconde una visione della società prigioniera del peggiore modello capitalistico. Essa è falsa anche in base a un ragionamento di pura convenienza economica. Con la rinascita dei protezionismi, con la guerra dei dazi, con il First America di Trump (primo importatore di merci tedesche) e la scelta cinese di puntare sul mercato interno (la Cina è il principale partner commerciale della Germania) dove finiranno le merci tedesche da esportare, colonna dorsale di un’economia mercantilistica come quella teutonica, se il mercato europeo si sfarina, in un quadro già segnato dalla Brexit? Basterebbe questa considerazione per evidenziare tutta la cecità della classe dirigente tedesca e non solo. Eppure gli avvertimenti non sono mancati. Nelle scorse settimane oltre 600 economisti a livello mondiale si sono espressi per una soluzione tipo eurobond; così hanno fatto economisti e intellettuali tedeschi, da Habermas a Honnet, fino all’Istituto di economia di quel paese. Ma la ragione non ha prevalso. Come dicevano i latini “Quos deus perdere vult dementat prius”.


Certo la soluzione ideale richiederebbe che la Bce diventasse effettivamente un prestatore in ultima istanza. Infatti questo obiettivo non è affatto alternativo a quello dei coronabonds. Anzi la loro emissione lo avvicinerebbe, perché lo si potrebbe ottenere se la Bce garantisse l’acquisto comunque dei titoli emessi qualora essi non venissero assorbiti dal mercato. Ma intanto riuscire a mettere in campo concretamente i coronabonds spezzando la resistenza del fronte rigorista sarebbe un passo decisivo in questa direzione.
Basterebbe? No, serve un controllo sui movimenti di capitale, una profonda riforma del prelievo fiscale che riduca la crescente divaricazione dei redditi, una patrimoniale, un vero piano europeo di investimenti in settori innovativi  e ambientali, insomma un social-green - new-deal, che per funzionare deve garantire non solo lavoro ma che nessuno sia privo di reddito. E neppure soltanto questo. Ciò che questa pandemia ci insegna è la nostra fragilità e quella della tanto osannata globalizzazione capitalistica.  La necessità di una modifica radicale del sistema economico-sociale che il capitalismo ha prodotto non è forse mai stata tanto evidente come oggi.

Il Consiglio europeo del 23 aprile


Chi si aspettava la soluzione dei vari problemi aperti in questa drammatica crisi economica moltiplicata dalla pandemia è rimasto senz’altro deluso dalle conclusioni del Consiglio europeo del 23 Aprile. In realtà gli esiti, peraltro interlocutori o comunque non concludenti, cui è giunto il Consiglio europeo non costituiscono certo una sorpresa rispetto alle varie prese di posizione assunte nella immediata vigilia. Tra le quali va sottolineato un quasi impercettibile, ma significativo, ammorbidimento dei toni di Angela Merkel, frutto, forse, di un’accresciuta consapevolezza della prossimità all’orlo del burrone e dei vari pronunciamenti favorevoli all’esercizio del principio della solidarietà che si sono manifestati crescentemente anche all’interno del suo paese.
In sostanza i Ventisette hanno incamerato le misure prospettate dai ministri delle Finanze che appunto prevedevano l’intervento del Mes non proprio senza condizionalità, ma comunque soft (i cui caratteri, e non sono dettagli, sono però ancora da definire); la creazione di uno strumento per finanziare la cassa integrazione o sistemi simili nei Paesi membri (Sure); l’utilizzo della Banca europea degli investimenti (Bei) in aiuto alle imprese. Il complesso di questi interventi raggiunge i 540 miliardi e dovrebbe entrare in vigore il 1° giugno. Ma tutto ciò comporterà una ulteriore maratona negoziale, vista la quantità e il peso delle questioni cosiddette tecniche, ma che comportano conseguenze di sostanza, su cui i vari Paesi devono ancora trovare un preciso accordo.
Infine il Consiglio europeo ha dato mandato alla Commissione europea di mettere a punto il Fondo per il rilancio economico (Recovery Fund). Lo dovrà fare entro il 6 maggio, spostando di una settimana la data precedentemente prevista. Sul punto decisivo quindi il Consiglio ha deciso di non decidere e non era difficile immaginarselo. La ragione è che sulla cosiddetta quarta gamba su cui dovrebbe poggiare l’intervento europeo, permangono differenze evidenti che si sono manifestate ampiamente anche nelle dichiarazioni successive alla riunione da parte dei vari capi di Stato e di governo. In sostanza si prevede che la Commissione europea dovrà prendere denaro a prestito sui mercati finanziari e aumentare la quota delle risorse proprie nel bilancio comunitario, che salirebbe dall’1,2% del Pil europeo al 2%. In realtà ne servirebbe di più. Il finanziamento del Fondo potrebbe avvenire con l’emissione di titoli di debito da parte dalla stessa Commissione, il che è perfettamente coerente con l’art.122 del Trattato che prevede spese speciali in caso di calamità naturali e catastrofi indipendenti dalle responsabilità dei vari Stati.

Ursula von der Leyen

Il punto di maggiore attrito, e che rimane del tutto aperto, è se questo fondo erogherà prestiti o sovvenzioni. A favore di questa ultima soluzione si sono ovviamente schierati i paesi più bisognosi, mentre sulla prima opzione stanno quelli del Nord. Ursula von der Leyen non si è sbilanciata e ha quindi annunciato un mix tra le due cose. Ed è su questo che probabilmente si lavorerà e si litigherà in vista del 6 maggio. A favore di aiuti in luogo di prestiti si stanno pronunciando numerosi e autorevoli economisti, giustamente preoccupati dall’appesantimento del debito nei prossimi mesi nei paesi che già l’avevano alto e che hanno pagato un prezzo maggiore alla pandemia in corso. Ad esempio, Lucas Guttemberg, vicedirettore del Jacques Delors Centre di Berlino, insieme ad altri economisti, sostiene nettamente la tesi che l’implementazione del concetto di solidarietà comporta in questa fase la concessione di aiuti. Guttenberg ritiene che gli eurobond in questa fase non sarebbero lo strumento ideale, perché si concentra sull’immediatezza. Una cosa però potrebbe non eliminare l’altra: aiuti subito ed emissione di eurobond, magari perpetui, tali cioè da non prevedere il rimborso del capitale ma solo la maturazione degli interessi, come ha sostenuto lo stesso George Soros. Il varo degli eurobond è infatti la misura che si proietta più di altre al di là della grave contingenza e permetterebbe un passo in avanti nel travagliato percorso dell’unità europea. Proprio per questo incontra la netta contrarietà delle parti più retrive dell’élite europea.
Lo si comprende facilmente prestando attenzione alle parole di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank ed ex consigliere di Angela Merckel. “In Germania - dichiara ad Affari&Finanza del 20 aprile - c’è un ampio sostegno a favore di una solidarietà europea in questa grave crisi. Questo include aiuti in campo medico e gli aiuti finanziari (…) Tuttavia - egli aggiunge - una sostanziale espansione aggiuntiva e a lungo termine della responsabilità comune, modificherebbe radicalmente la natura dell’unione monetaria (…) quindi - conclude - la priorità è ora quella di fornire aiuti pragmatici e disponibili in tempi brevi”. In altre parole ciò che potrebbe superare gli storici limiti della Ue, cioè quella di essere solo un’unione monetaria, è esattamente inviso a chi la vuole rinserrare entro quella costrizione. Ma è esattamente questa condizione che la può portare al fallimento.


Dal canto suo, pur non essendo sufficiente, la Bce il suo ruolo lo svolge. Oltre agli acquisti dei titoli sul mercato secondario per ingenti quantità - superando di fatto la cosiddetta capital key che avrebbe imposto acquisti in proporzione alla quota capitale di ogni singolo stato membro, comprando più titoli italiani che tedeschi - la Bce ha assunto una decisione importante e che ci riguarda da vicino: quella di disarmare di fatto il potere delle agenzie di rating decidendo di accettare come garanzia collaterale dalle banche anche i titoli di Stato che venissero considerati al di sotto dei livelli di investimento, cioè i cosiddetti junk bonds, ovvero i “titoli spazzatura”. Un sollievo, viste le condizioni tristi del nostro rating. 
Il cammino verso una vera e propria, stabilizzata e organizzata, mutualizzazione del debito è ancora lungo, pieno di incertezze e di trabocchetti. Ma diversi tabù cominciano a cadere. Persino la modifica dei Trattati non appare più un’ipotesi fantascientifica, anche perché la dura realtà dimostra quanto essi fossero inadatti a fronteggiare situazioni che pur non essendo affatto imprevedibili, certamente fuoriescono da un tracciato di tranquilla normalità. Quando un insieme di norme non riesce a fare questo, fallisce il suo compito più importante che è quello di affrontare e risolvere la straordinarietà. Quindi va cambiato e in modo radicale. Molti sostengono che i Trattati siano di fatto immutabili e che dunque si farebbe prima a pensare a un’uscita dell’Italia dall’Eurozona o addirittura dall’intera Ue. Ma una simile soluzione getterebbe immediatamente il nostro paese nelle mani della speculazione internazionale e dei giochi delle maggiori potenze a livello internazionale. Se c’è una cosa non negativa in questo mare di negatività è che la questione non solo della sospensione del Patto di stabilità, già attuata seppure in maniera temporanea, ma anche una eventuale revisione dei Trattati non è più un tabù. Anche se farlo concretamente richiede ancora molti sforzi e un cammino non breve.

*Saggista. Condirettore di “Alternative per il Socialismo” 
e già parlamentare.