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lunedì 18 maggio 2020

LA FASE DUE
di Paolo Maria Di Stefano 

Paolo Maria Di Stefano

La Fase 2 preludio di ripresa

Io c’ero, quando, attorno al 1939/1940, e forse per qualche tempo a venire era in vigore il divieto di assembramento voluto dagli illuminati Capi di allora: gruppi di non più di tre persone a loro volta distanziati tra di loro - i gruppi - affinché le chiacchiere di paese non divenissero un pericolosissimo “rumor” politico, con danni forse irreversibili alla struttura stessa del regime e della Nazione fatta di milioni di eroi, artisti, poeti, da sempre e per sempre fascisti.
E comunque difficilmente controllabili.
Io c’ero, dicevo, e l’intervento di mio padre non lo dimenticherò mai. Mi pare fosse, la mia famiglia, già allora composta di quattro figli che non potevano essere assieme se non a casa, custoditi anche dai ricorsi di benpensanti che pensavano atto di opposizione al regime la mancata nascita di altri bambini, cosa gravissima per un magistrato ed una insegnante.
Un lampo della memoria, acceso dai quattro mesi che hanno preceduto questa misteriosa Fase 2, e dal lavoro - dicono- ininterrotto dei nostri Politici e Burocrati, tradottosi in centinaia di decreti e dunque anche in migliaia di pagine.


Non solo: uno o due metri di distanza “sociale” - a seconda delle circostanze - mi hanno ricordato le raccomandazioni sempre più pressanti di mia madre (e dei miei nonni) in presenza di raffreddori e ancor di più di sintomi influenzali: non avvicinatevi troppo agli altri bambini, lavatevi le mani, non toccate niente. State a casa, giocate tra di voi, studiate e leggete.
Ed ecco un aggancio in fondo inquietante. Questo: all’inizio degli attacchi del coronavirus, qualcuno di quelli che ancor oggi contano, ebbe a dire che, in fondo, non si trattava che di un aspetto del raffreddore, più grave e aggressivo, ma pur sempre di raffreddore. Dunque, stare attenti e non preoccuparsi più che tanto. Devo confessare che si trattò di una delle affermazioni a mio parere più preoccupanti, e per una ragione semplicissima: avete mai sentito parlare di un medico in possesso di una cura per il raffreddore? Io, mai. I miei raffreddori, nel corso della oramai mia lunga vita, sono sempre passati quasi da soli: al caldo sotto le coperte, e una aspirina ogni tanto. Più o meno come è accaduto per le influenze. E sempre come raccomandava mia madre quando ero piccolo.
Da oltre quattro mesi, lavarsi le mani spesso, non avvicinarsi agli altri a meno di un metro circa assieme alle mascherine non bastando, sono state chiuse tutte le attività produttive meno quelle a carattere alimentare, avendo qualcuno scoperto che chi non mangia ha buone probabilità di non sopravvivere. Un “fermi tutti” che naturalmente nessuno poteva aspettarsi senza conseguenze sul piano economico.


In pratica, un fermo quasi totale all’economia, con una perdita - si dice - attorno al quaranta per cento, con annessi e connessi. Ma soprattutto, una improvvisamente drastica limitazione alla libertà di ciascuno di noi, abituati da sempre a considerarci arbitri della nostra vita quotidiana, e non solo. E anche un atto di fiducia nella intelligente collaborazione di tutti, quasi subito smentita dalla cretineria trionfante di centinaia di persone alla Darsena, invasa da gente che non aveva potuto rinunciare a bere birra e ingurgitare salatini, con buona pace degli altri e dei rischi di contagio. Un po’ come quattro o cinque giorni dopo (mi pare attorno all’11 maggio), quando le vie del centro sono state prese d’assalto da automobilisti i quali, evidentemente, non vedevano l’ora di arrivare in vista del Duomo con la macchina: una edizione riveduta, ma non corretta più che tanto, di quando, qualche anno fa, i milanesi armati di automobile attendevano fin dalle sette del mattino che giungessero le nove e si aprisse il centro.
Con questo in più: che per far luogo agli automobilisti frustrati, mi hanno detto, gran parte della segnaletica stradale, divieti di sosta in testa, è stata banalizzata. Si può immaginare con quali conseguenze.
Un’idea geniale, sfociata ben presto in un invito a non usare i mezzi pubblici, per evitare - si è detto - l’affollamento. Per me, una delusione tutt’altro che lieve: la morte definitiva di una immagine, quella della Lombardia, fino ad allora da me ritenuta esempio luminoso di organizzazione efficientissima, peraltro già incrinata dai problemi relativi alla sanità: di previsione, di predisposizione dei mezzi di prevenzione di cura e del personale medico e infermieristico, di dimensionamento coerente delle risorse e così via.
Comunque, con - si è detto - un aspetto positivo: il fermo sarebbe stata un’ottima occasione per ripensare alla nostra vita quotidiana e per escogitare soluzioni diverse alle nostre istituzioni ed alla nostra cultura. Cosa, questa, possibilissima e costruttiva, e il silenzio di Milano deserta avrebbe creato un ambiente ideale al pensiero.


In testa, oltre alla questione sanitaria, l’economia e dunque i processi di scambio che dell’economia, e non solo, sono l’anima.
Cosa per me assolutamente entusiasmante: finalmente tutti noi avremmo potuto verificare e prepararci se del caso a modificare “il modo di essere soggetti, attivi e passivi, del fenomeno economico”.
Intanto, rivedendo il concetto stesso di “fenomeno economico” e di “scambio”. Magari attraverso corsi di formazione e di aggiornamento organizzati secondo una parte introduttiva, generale e comune a tutti, e parti specifiche per gli operatori di ogni settore merceologico, al fine di individuarne la reale causa (il fine ultimo) di ognuno e organizzarci tutti per ottenere il miglior risultato, a sua volta correttamente individuato e descritto nei particolari.
Tanto per intenderci: cosa significa scambiare? E poi, chi sono gli attori dello scambio specifico avente per oggetto il prodotto chiamato (ad esempio) salume oppure servizio di ristorazione oppure ancora automobile o macchina utensile o comunicazione (…)? E come ciascuno di essi si muove e perché? E che ruolo ha la pianificazione di gestione di ogni specifico tipo di scambio? E come gioca il territorio? E come la stagione? E via dicendo.

Giuseppe Conte
E tutto questo in un mondo, la nostra Italia, che pare non disporre più di gestori degli scambi efficienti ed efficaci, e sempre di più sembra affidare le proprie fortune a piccole e medie imprese, nella gestione delle quali l’improvvisazione regna sovrana, mentre le grandi sembrano impotenti a muoversi.
Molto da cambiare, dunque, e molto da rifare, almeno a sentire le interminabili discussioni che animano le trasmissioni sui media e riempiono le pagine della carta stampata.
Ma non mi pare in questo tempo forzatamente libero politici ed economisti ed operatori economici siano andati più in là di affermazioni di principio del tutto inutili, alcune in particolare rivolte alla critica delle attività di un   Governo che forse si muove a tentoni, ma che si muove e - come sempre accade quando si tenta - con più di un risultato almeno nell’immediato positivo. E questo non solo in epoca drammatica per il virus in atto, ma anche in presenza di una opposizione incolta e pronta solo a criticare quanto il Governo fa, guardandosi bene dal proporre soluzioni alternative.
E qui si impone, a mio parere, una annotazione su quello che si può anche chiamare “caso Conte”.

Milano. La Galleria deserta
Nato quasi per caso, dal delirare congiunto di due bande di scugnizzi incolti e facinorosi, sostenuti dalla sola volontà (peraltro inconscia) di degradare ogni forma di cultura, il destino ha voluto che si trovasse un accordo sul nome di un professore universitario - Giuseppe Conte, appunto - dotato per professione di una cultura superiore, il quale ha in breve superato tutti i Presidenti che lo hanno preceduto negli ultimi venti o trenta anni. È uno che propone e tenta di fare e fa, cosa mai successa nel nostro da questo punto di vista non fortunatissimo Paese. Può darsi che Egli non sia l’eccellenza, ma è senza dubbio il meno peggiore di tutti i Presidenti del Consiglio che si sono succeduti in Italia.
E il tutto con un buon livello di signorilità e di chiarezza.
Così portando in evidenza anche una situazione di cui nessuno parla: il più importante virus con il quale conviviamo è quella autolatria che ci pervade tutti, a tutti i livelli, con gradi diversi di virulenza, e che tutti ci spinge a crederci depositari della verità e dunque anche delle soluzioni più opportune, soprattutto in politica.


Eppure, a me sembra che all’autolatria sia possibile opporre un rimedio efficace: un approfondimento della cultura operato con onestà di intenti, in grado di metterci di fronte ai nostri limiti non soltanto a parole. Al momento, sembra che il massimo della autolatria si manifesti - in politica - innanzitutto nella Lega, seguita da Fratelli d’Italia a distanza brevissima. Il 2 giugno, Festa della Repubblica, dovremmo vedere i risultati del pensiero autolatra di questi e degli altri partiti che costruiscono la destra italiana.
Personalmente li aspetto, questi risultati, con qualche preoccupazione in più. C’è chi si oppone a riconoscere diritti a chi, arrivato in Italia, è stato sfruttato nell’agricoltura nella raccolta dei frutti, che senza di loro sarebbero marciti, poiché il popolo italiano autolatra alla base si rifiuterebbe di fare lavori ritenuti non degni e non retributivi. Raccogliere i pomodori e le arance e l’insalata e gli ortaggi (…) sarebbero tra questi, e la manodopera straniera garantirebbe la raccolta a costi prossimi alla schiavitù, cioè al minimo della sopravvivenza.


Che è, poi, uno dei risultati del guardare alla politica, all’economia ed alla religione ed ai rapporti tra loro da un punto di vista quanto meno distorto anche da parte di noti autolatri. Basti leggere quanto ha scritto in materia il professor Ernesto Galli della Loggia, al quale, forse, non farebbe male un approfondimento almeno sul concetto di politica e su quello di religione, oltre che su quello di economia: potrebbe scoprire che molto c’è da fare proprio in materia di conoscenza degli ambiti della analisi dei comportamenti e della elaborazione teorica di materie - la Politica, l’Economia e, su di un piano diverso, la religione. E scusate se è poco!
Anche come risultato dello stare a casa a pensare: la necessaria e comunque indefinita convivenza con il corona virus potrebbe giovarsene alla grande.