di
Fulvio Papi
F. Braudel |
Non è possibile riesumare in poche righe l’analisi di Braudel nella sua imponente opera I giochi dello scambio sulla formazione sociale del capitalismo, sostanzialmente, dal punto di vista teorico, in rapporto con Weber e in opposizione alle tesi di Sombart. Il tema che domina la ricerca storica è sempre il rapporto tra il capitalismo dello scambio mercantile e la formazione dello stato moderno. Si tratta di una narrazione che tiene conto della pluralità di contingenze in epoche e ambienti sociali e politici differenti che, nella loro concretezza, non può essere circoscritta a una omogenea storia lineare. Basta pensare alla formazione delle classi dirigenti nel rapporto tra nobiltà e grandi mercanti, tra le forme di finanziamento dello stato, la funzione dominante del credito e l’esercizio del potere regale. Vi sono temi di ordine generale che possono essere rievocati: lo stato moderno non si costruisce tramite una burocrazia centralizzata. Il che fa pensare quanto sia corretta l’opinione di chi considera importante l’opera di Hegel del 1820, in cui egli disegna lo stato moderno proprio perché alla figura fondamentale del sovrano, unisce un’efficiente burocrazia. È un momento storico in cui è opinione comune che la ricchezza di uno stato derivi dalla quantità d’oro che possiede al confronto di altri stati. La politica economica dello stato moderno nei suoi rapporti internazionali è impegnata a non trasferire fuori dallo stato quantità di metallo prezioso superiore a quello che deriva dalla esportazione dei propri prodotti. La vera rivoluzione avviene quando la valutazione della ricchezza non avviene più attraverso la quantità dell’oro, ma tramite la produttività del lavoro. Anche qui il processo è molto più lento di quanto non sia oggi la nostra concettualizzazione.
W. Sombart |
Pensiamo, ad esempio, che Ricardo stesso, l’economista che sulla strada aperta da Locke, mette al centro della produzione della ricchezza la dimensione del lavoro, è contrario all’esportazione di capitali nazionali. L’economia viene considerata come un elemento della competitività degli stati. Nel giudizio storico è infatti considerato in ascesa uno stato come la Prussia che avvia riforme atte a potenziare la sua efficienza economica al contrario dell’Austria dove prevede una stagnazione economica. Il passo ulteriore è dato dal fatto che, nel passaggio dalla manifattura alla fabbrica, la classe sociale che eroga il lavoro richiede un riconoscimento economico adeguato; si aprono due storie moderne, quella inglese dove la classe in ascesa viene integrata progressivamente nello stato politico e quella francese dove lo stato è diretto da una oligarchia economica e nobiliare che vuole tenere ai margini del potere politico la classe lavoratrice con politiche che non escludono la repressione più violenta. Poiché il significato delle parole deriva dal senso sociale e culturale che esse assumono in una storia, è ben poco originale pensare che la parola lavoro, come nella nostra Costituzione, divenga fondante dello stato medesimo.
Nella prospettiva di Braudel questa è un’altra e ulteriore
circostanza del rapporto tra la forma economica e la struttura dello stato,
almeno come problema aperto alle varie contingenze di questo rapporto. E questa
considerazione è tanto più valida in quanto la pratica del lavoro subisce
mutamenti radicali che, a loro volta, favoriscono la formazione di differenze
economiche e sociali radicali nel riconoscimento economico e sociale del
lavoro. Sentiamo ogni giorno notizie sulle forme estreme dello sfruttamento del
lavoro che, oltre la giusta indignazione morale, meriterebbe un’analisi
corretta come formazione del costo di produzione per entrare nel mercato nel
modo più favorevole. In questo caso la parola “lavoro” ha un ben diverso
significato da quello di categorie che, attraverso una lunga e faticosa
competizione, hanno raggiunto una protezione sociale che oggi dà luogo a
comportamenti corporativi, anche se va detto che le protezioni sociali con un
mutamento internazionale dell’economia rischia di diventare più incerta. Lo
stato si trova a mediare tra il senso etico che ha dato a se stesso e
l’apertura internazionale di tutti i livelli del mondo economico.
Se per una incredibile ventura toccasse a noi di continuare
l’opera di Braudel sul rapporto tra stato e mondo economico che è storicamente
trasformato, avremmo difficoltà molto serie. Sono venuti meno quasi tutti gli
elementi su cui si era costruito questo rapporto. Il neo-liberismo è stata
l’ideologia economica e sociale che ha ridato piena autonomia all’orizzonte
economico, ponendo il suo calcolo come forma del valore sociale. Era ovvio che
questa prospettiva avrebbe arricchito i più ricchi, proprietari o manager, e
declassato altri ceti. Una descrizione seria dovrebbe proprio partire
dall’esame di tutte le conseguenze che ne sono arrivate: per semplificare a
livello sociale e a livello di una ecologia planetaria. Questa non è né
l’economia, né la morale, è la struttura complessa della nostra storia. A
livello intuitivo direi che la cultura economica non è sufficiente a dominare
l’oggetto che storicamente si è prodotto e che sarebbe necessario poter fruire
di una nuova forma di conoscenza, un sapere integrato dall’equilibrio di
cognizioni storiche, economiche, sociali, demografiche, culturali (in senso
antropologico), politiche. Tutti saperi, chiusi nelle proprie “ontologie” che
danno, ciascuno, panorami troppo parziali e incapaci di descrivere un piano
d’azione che affronti il cambiamento che l’irrazionalità (anche della
“ragione”) della nostra storia richiede per una collettiva “salvezza”. So
perfettamente che si tratta di un compito così difficile (e forse improbabile)
che ad alcuni fa tornare di moda il celebre detto di Heidegger secondo cui
“solo un dio ci potrebbe salvare”. Certo, in qualche modo, ci arrangeremo nel
solito compromesso che i poteri reali riescono a trovare con prezzi molto alti
che tanti devono pagare. Ma, una ragione capace di dominare la complessità del
“mondo”, ha qui la sua ultima prova.