Pagine

giovedì 18 giugno 2020

I Reportage
NOVI PAZAR
di Christian Eccher


Appunti di viaggio geopoetici

Il cielo plumbeo, coperto da un insistente, ottuso e compatto strato nuovoloso, taglia come una fredda lama di acciaio i monti che circondano Novi Pazar, il capoluogo della regione del Sangiaccato, al confine fra Serbia e Montenegro. Per i giochi della Storia che nei Balcani hanno sempre confuso e mischiato le carte, Novi Pazar si trova ora in Serbia. Non è facile raggiungere la città: per chi arrivi da Belgrado, c’è la possibilità di immettersi nella nuova autostrada “Miloš Veliki”, inaugurata recentemente e in pompa magna dal presidente della Repubblica Aleksandar Vučić; un nastro d'asfalto a due corsie inframmezzato da una serie di gallerie e curve, a volte anche ardite, lungo il quale sono disseminati cartelli marroni che esaltano la vita e le gesta di antichi re e imperatori serbi. Le biografie e le immagini di questi eroi contrastano con le scritte in cinese che compaiono sui fianchi dei ponti che attraversano l'autostrada: le forze della globalizzazione sono più forti del nazionalismo, o forse questi due fenomeni, l'amore per la patria e la svendita del territorio alle multinazionali straniere, sono in realtà segretamente alleati. I cinesi finanziano ormai da un decennio la costruzione di infrastrutture di vitale importanza per la regione balcanica, che permetteranno a Pechino di portare le merci prodotte in oriente ai porti dell'Adriatico e dello Jonio e da lì al cuore dell'Europa, a Budapest e a Berlino. Anche l’autostrada “Miloš Veliki” è stata costruita da un'azienda cinese con i crediti elargiti dal presidente Xi Jinping. Fino alla città di Čačak si viaggia comodamente, poi ci si immette sulla Strada Statale Ibarska, in serbo Ibarska Magistrala, che costeggia il fiume Ibar e collega il centro della Serbia a Kosovska Mitrovica; è diventata famosa perché proprio qui, il 3 ottobre del 1999, furono uccisi 4 rappresentanti del gruppo di opposizione serba, su ordine di Slobodan Milošević. Scampò miracolosamente all’attentato il leader del Movimento di Rinnovamento Serbo Vuk Drašković. La strada si attorciglia sul fondovalle, passa sotto il massiccio di Kopaonik, località sciistica molto amata dai belgradesi, per arrivare poi a Raška, dove si biforca: a destra si va verso il Kosovo, a sinistra si prosegue per Novi Pazar, che compare all'improvviso dopo una quindicina di chilometri. Una manciata di case arancioni e bianche, i palazzi grigi di epoca socialista al centro, intorno pascoli, puntinati di pecore, e più su i boschi di abeti che segnano il predominio del regno della natura montana sul paesaggio urbano.


Novi Pazar ha il colore dei prati e l'odore della carne arrostita. La facciata delle case unifamiliari è spesso nuda, e mostra senza pudore l'intimità della struttura in mattoni rossi. I padroni si sono preoccupati di rendere gli interni eleganti e confortevoli e ciò che appare all'esterno non conta: la facciata rimane non finita, ispida e senza malta o involucri esterni. A mezz'aria, la città è un intrico di cavi neri: le abitazioni sono collegate dai fili della luce e da quelli telefoni che attraversano le strade, superano gli incroci e si annodano su pali arrugginiti o sugli angoli e sui tetti degli edifici.
Novi Pazar ha il sapore del formaggio di capra e del caffè appena tostato. La piazza principale è ariosa, costellata da case basse, tipiche della cultura architettonica turca; c'è anche un lunghissimo palazzo di epoca socialista che, nonostante sia davvero imponente, non si fa notare. La facciata di questo stabile è caratterizzata da lobi in cemento che fuoriescono dal corpo principale in corrispondenza delle finestre: questo garantisce dinamicità all'intero complesso e maggiore luminosità agli appartamenti. Nella piazza si trova anche l'Università degli Studi Islamici, che attira studenti dal resto del Sangiaccato e dalla Bosnia. In cima alla collina, dietro alla piazza, fa bella mostra di sé ciò che resta della fortezza turca intorno a cui si è strutturato l'agglomerato urbano. Sono rimasti solo alcuni muri e una moschea; le restanti parti del fortino sono state trasformate in parco pubblico.


Novi Pazar ha l'aguzza vertiginosità delle moschee turche e il biancore della pietra di montagna. Il Sangiaccato (Sangiak in turco significa “distretto”) esiste dal XV secolo, periodo in cui i turchi conquistarono gran parte della penisola balcanica. Alcune famiglie slave decisero di convertirsi all’islam: sono i cosiddetti bosgnacchi, vale a dire gli abitanti della Bosnia e del Sangiaccato che professano la religione musulmana. Dopo le guerre degli anni '90, il credo religioso è diventato sinonimo di nazionalità. 
A Novi Pazar c'è anche la Matica Bošnjačka, un’istituzione adibita alla conservazione della lingua e della cultura di questa nazione. La lingua, in realtà, è una variante del serbo-croato ma i bosgnacchi, così come i serbi e i croati, ritengono che si tratti di idiomi diversi. I problemi di quest'area cominciarono nel 1878, lontano da Novi Pazar, in Occidente, più esattamente a Berlino, quando le grandi potenze decisero che la Bosnia sarebbe passata sotto il controllo dell'Austria. I bosgnacchi musulmani opposero resistenza all'invasore cattolico, ma si dovettero presto ricredere: Vienna garantiva loro un'estrema libertà, una libertà molto più grande di quella di cui godevano i musulmani del Sangiaccato, una parte dei quali viveva sotto il regno di Serbia e un'altra sotto quello del Montenegro. La città di Novi Pazar, invece, rimase ancora sotto il controllo di Istanbul fino alla fine delle guerre balcaniche del 1912-1913, quando la Serbia e il Montenegro occuparono definitivamente l'intera regione. 


Dal 1941 al 1945, il Sangiaccato ballò, al ritmo della Furlana delle occupazioni nemiche: di quella nazista, di quella italiana (non illudetevi, gli italiani brava gente non sono stati meno crudeli dei tedeschi) dei cetnici serbi e degli ustascià croati. Il Sangiaccato si ritrovò ferito ma integro sotto la Jugoslavia di Tito, che tolse alla regione l'autonomia ma garantì 50 anni di tranquillità. Negli anni '90, poi, le danze ricominciarono, con i serbi che occupavano, i bosniaci musulmani di Sarajevo che subivano. La Serbia avrebbe voluto distruggere non solo la Bosnia, ma anche il Sangiaccato. Ancora oggi, sugli atlanti scolastici finanziati e pubblicati dall'Istituto geografico serbo il nome del Sangiaccato non compare, sostituito da quello di “Provincia di Raška”. Belgrado non riconosce ufficialmente la storia particolare di questa regione e, anche se apparentemente non ci sono grosse tensioni fra Novi Pazar e il governo centrale, l’insoddisfazione dei bosgnacchi è palpabile; non è un segreto che il sogno di ogni componente minoritaria, in Serbia, sia quello di allontanarsi il più possibile dai palazzi della politica belgradese.


Novi Pazar ha la sensualità delle ragazze musulmane che passeggiano lungo le vie del centro e la consistenza della seta dei vestiti multicolori da loro indossati.
In via I Maggio c’è una moschea. La moschea è bianca e abbacina nei giorni di sole. Il minareto è sottile e non ha la necessità di raggiungere le altezze celesti perché le case che costeggiano la strada sono basse. La via I Maggio è stretta, molto trafficata; a fianco della moschea c’è lo storico Caffè Teferić, in cui siedono sempre solo maschi. Il cameriere serve il caffè e il tè e spesso, grazie a un vassoio che pende e che può essere tenuto in mano da un sostegno molto simile a un artiglio, porta le bevande a domicilio nei dintorni. Sono soprattutto i negozianti che non si possono allontanare dal posto di lavoro a ordinare qualcosa. Fra il Teferić e la moschea c’è uno spazio vuoto, in cui sono visibili detriti di muri e schegge di specchi, un pettine, una bambola di pezza e lamiere divelte. Fino a pochi giorni fa, qui c’era un barbiere. Un uomo cocciuto, che ha rifiutato di vendere la propria bottega al muftì della moschea a fianco. Una notte di pioggia, un camion è finito fuori strada e ha distrutto la bottega del barbiere. Al caffè lo sanno tutti, per le strade ne parlano persino le ragazze: è stato il muftì a ordinare e a inscenare il falso incidente per punire il parrucchiere testardo. Lo sanno tutti, ma nessuno ha le prove.


Novi Pazar ha la trasparenza dell’acqua di fonte e la freschezza delle brezze di montagna. Al Teferić di Novi Pazar c’è oggi Nikola Janković, originario di Travnik, cittadina bosniaca che non è più quello che era prima delle guerre fratricide jugoslave. Negli anni ’80, Nikola si è trasferito a Novi Sad, in Voivodina, dove ha lavorato e tuttora lavora come editore: presto andrà in pensione. Magro e dinoccolato, Nikola ha un’eleganze innata, e lo testimoniano il cappello, che gli copre la fronte e la folta capigliatura nera, la giacca marrone e la camicia. Guarda con attenzione il capannello di persone che - all’angolo fra la strada e la piazza, sul ponte che attraversa lo stretto letto del fiume Jošanica - legge gli annunci mortuari. Chi se n’è andato oggi non sarà dimenticato domani. Anche qui, a fermarsi sono solo i maschi; lo sguardo rivolto agli annunci colorati di verde (il colore dell’Islam), stanno immobili, borbottano qualche parola, con la schiena dritta e le mani intrecciate dietro la schiena. Lungo la strada, le automobili rombano confuse e i passanti si affrettano verso punti indefiniti. Vita e morte unico fiore.

Nikola Jankovic

Novi Pazar ha la dura fatica delle salite e la caoticità delle case in costruzione. Safeta lavora in un negozio di abbigliamento sotto i portici del grande palazzo socialista in centro città. Conversa volentieri, soprattutto con Nikola che le chiede informazioni sul passato del Sangiaccato. Safeta ricorda gli anni ’90, quando quotidianamente partivano da Novi Pazar 30 autobus diretti in Svezia e a Istanbul. La terra tremava al passaggio dei carri armati e dei veicoli militari serbi che andavano a schierarsi lungo il fronte bosniaco. I bosgnacchi in Serbia non volevano restare, e molti di loro emigrarono, esattamente come al termine delle guerre balcaniche del 1912 e del 1913, quando migliaia di persone, fra slavi musulmani e turchi, lasciarono il Sangiaccato perché non volevano vivere in un paese ortodosso. Novi Pazar ha adesso circa 70.000 abitanti ma l’emigrazione è ancora forte. Al Parlamento di Belgrado, il Sangiaccato è rappresentato dal Partito Socialdemocratico del Sangiaccato guidato da Rasim Ljajić, attuale ministro del turismo e alleato del presidente Vučić. Ljajić è un medico che, durante gli studi universitari a Sarajevo, conobbe il presidente bosniaco Alija Izetbegović, il quale gli chiese di fondare un partito in Sangiaccato. 


Ljajić non ci riuscì personalmente, ma incaricò a sua volta Sulejman Ugljanin, che nel 2005 ruppe con l'alleato e fondò un proprio gruppo politico, il Partito di Azione Democratica. Al giorno d'oggi, Ugljanin rappresenta l'ala radicale dei bosgnacchi, quella che vorrebbe l'indipendenza da Belgrado, mentre Ljajić rivendica il dialogo con le autorità serbe e considera il Sangiaccato parte integrante della Repubblica di Serbia. Il Sangiaccato è diviso politicamente: Ugljanin ha l'appoggio delle potenze musulmane, in particolare della Turchia e degli Emirati Arabi, che finanziano la costruzione di madrase e di moschee. Ljajić ha invece il sostegno non solo delle istituzioni serbe, ma anche di quelle europee: lo slogan con cui il Partito Socialdemocratico del Sangiaccato si presenterà alle elezioni nazionali del 21 giugno è, non a caso, “Per un Sangiaccato europeo”.
Novi Pazar ha la violenza dei temporali estivi e la forza del sole di agosto. Davanti al caffè e alla moschea c'è un edificio basso, a due piani. Al pianterreno si trova una macelleria, al piano rialzato - la cui porta secondaria dà sulla via adiacente, che si inerpica alla fortezza - c'è una radio privata. Un ingresso, con un frigorifero e una piastra per riscaldare l'acqua per il caffè, una piccola stanza che funge da regia e uno studio minuto, in cui ci sono un tavolo, una sedia e un microfono che pende dal soffitto. Della radio si occupa una donna dagli occhi verdi, di bassa statura, magra, che, tramite un computer, fa partire i brani musicali. Il radiogiornale lo conduce lei stessa dalla regia, senza andare nello studio. Con lei c'è il figlio disabile, che a fatica cammina e che ha uno sguardo accesso, vivo. 


Non riesce a parlare, mormora parole sconnesse e incomprensibili. La donna arriva al lavoro al mattino, fa accomodare il figlio su una poltrona e poi, per 8 ore, si occupa delle trasmissioni. “Il ripetitore - dice - la nostra unica antenna, è sul monte lì a sinistra, ma non si vede, ci sono le nuvole”. Il sorriso sincero tradisce preoccupazione e apprensione. Mentre va in onda la pubblicità, sbuccia una mela, la fa a spicchi e la porge al figlio. Il bambino, di circa 9 anni, allunga la mano ma non riesce a portare lo spicchio direttamente alla bocca: con il braccio disegna un grande semicerchio, come se stesse danzando, e poi a fatica il frutto dalla polpa bianchissima arriva alle labbra. Mastica e sputa la metà di ciò che ha mangiato, ha difficoltà a controllare il boccone, come se gli scivolasse fra i denti e la lingua. 
La madre interviene prontamente, asciuga al figlio il mento sporco di frutta e di saliva, mentre il ragazzino si agita e alza una mano al cielo. Le onde magnetiche, nel frattempo, si diffondono ortogonalmente dal ripetitore sulla montagna; a intervalli e oscillazioni regolari, accarezzano e attraversano la città, per poi disperdersi in quota, sempre in linea retta, verso il Montenegro e l'Adriatico, che rimangono giù, piegati dalla curvatura terrestre. Le onde continuano dritte, la troposfera non le trattiene e neanche la ionosfera riesce a rifletterle; si perdono così negli spazi siderali, nella fredda e immobile sterilità del buio astrale.