NOVI PAZAR
di Christian Eccher
Appunti di viaggio geopoetici
Il
cielo plumbeo, coperto da un insistente, ottuso e compatto strato nuovoloso,
taglia come una fredda lama di acciaio i monti che circondano Novi Pazar, il
capoluogo della regione del Sangiaccato, al confine fra Serbia e Montenegro.
Per i giochi della Storia che nei Balcani hanno sempre confuso e mischiato le
carte, Novi Pazar si trova ora in Serbia. Non è facile raggiungere la città:
per chi arrivi da Belgrado, c’è la possibilità di immettersi nella nuova
autostrada “Miloš Veliki”, inaugurata recentemente e in pompa magna dal
presidente della Repubblica Aleksandar Vučić; un nastro d'asfalto a due corsie
inframmezzato da una serie di gallerie e curve, a volte anche ardite, lungo il
quale sono disseminati cartelli marroni che esaltano la vita e le gesta di
antichi re e imperatori serbi. Le biografie e le immagini di questi eroi
contrastano con le scritte in cinese che compaiono sui fianchi dei ponti che attraversano
l'autostrada: le forze della globalizzazione sono più forti del nazionalismo, o
forse questi due fenomeni, l'amore per la patria e la svendita del territorio
alle multinazionali straniere, sono in realtà segretamente alleati. I cinesi
finanziano ormai da un decennio la costruzione di infrastrutture di vitale
importanza per la regione balcanica, che permetteranno a Pechino di portare le
merci prodotte in oriente ai porti dell'Adriatico e dello Jonio e da lì al
cuore dell'Europa, a Budapest e a Berlino. Anche l’autostrada “Miloš Veliki” è
stata costruita da un'azienda cinese con i crediti elargiti dal presidente Xi
Jinping. Fino alla città di Čačak si viaggia comodamente, poi ci si immette
sulla Strada Statale Ibarska, in serbo Ibarska Magistrala, che costeggia il
fiume Ibar e collega il centro della Serbia a Kosovska Mitrovica; è diventata
famosa perché proprio qui, il 3 ottobre del 1999, furono uccisi 4
rappresentanti del gruppo di opposizione serba, su ordine di Slobodan
Milošević. Scampò miracolosamente all’attentato il leader del Movimento di
Rinnovamento Serbo Vuk Drašković. La strada si attorciglia sul fondovalle,
passa sotto il massiccio di Kopaonik, località sciistica molto amata dai
belgradesi, per arrivare poi a Raška, dove si biforca: a destra si va verso il
Kosovo, a sinistra si prosegue per Novi Pazar, che compare all'improvviso dopo
una quindicina di chilometri. Una manciata di case arancioni e bianche, i
palazzi grigi di epoca socialista al centro, intorno pascoli, puntinati di
pecore, e più su i boschi di abeti che segnano il predominio del regno della
natura montana sul paesaggio urbano.
Novi Pazar ha il colore dei prati e l'odore della
carne arrostita. La facciata delle case unifamiliari è spesso nuda, e mostra
senza pudore l'intimità della struttura in mattoni rossi. I padroni si sono
preoccupati di rendere gli interni eleganti e confortevoli e ciò che appare
all'esterno non conta: la facciata rimane non finita, ispida e senza malta o
involucri esterni. A mezz'aria, la città è un intrico di cavi neri: le
abitazioni sono collegate dai fili della luce e da quelli telefoni che
attraversano le strade, superano gli incroci e si annodano su pali arrugginiti
o sugli angoli e sui tetti degli edifici.
Novi Pazar ha il sapore del formaggio di capra e del
caffè appena tostato. La piazza principale è ariosa, costellata da case basse,
tipiche della cultura architettonica turca; c'è anche un lunghissimo palazzo di
epoca socialista che, nonostante sia davvero imponente, non si fa notare. La
facciata di questo stabile è caratterizzata da lobi in cemento che fuoriescono
dal corpo principale in corrispondenza delle finestre: questo garantisce
dinamicità all'intero complesso e maggiore luminosità agli appartamenti. Nella
piazza si trova anche l'Università degli Studi Islamici, che attira studenti
dal resto del Sangiaccato e dalla Bosnia. In cima alla collina, dietro alla
piazza, fa bella mostra di sé ciò che resta della fortezza turca intorno a cui
si è strutturato l'agglomerato urbano. Sono rimasti solo alcuni muri e una
moschea; le restanti parti del fortino sono state trasformate in parco
pubblico.
Novi Pazar ha l'aguzza vertiginosità delle moschee
turche e il biancore della pietra di montagna. Il Sangiaccato (Sangiak in turco
significa “distretto”) esiste dal XV secolo, periodo in cui i turchi
conquistarono gran parte della penisola balcanica. Alcune famiglie slave
decisero di convertirsi all’islam: sono i cosiddetti bosgnacchi, vale a dire
gli abitanti della Bosnia e del Sangiaccato che professano la religione
musulmana. Dopo le guerre degli anni '90, il credo religioso è diventato
sinonimo di nazionalità.
A Novi Pazar c'è anche la Matica Bošnjačka,
un’istituzione adibita alla conservazione della lingua e della cultura di
questa nazione. La lingua, in realtà, è una variante del serbo-croato ma i
bosgnacchi, così come i serbi e i croati, ritengono che si tratti di idiomi
diversi. I problemi di quest'area cominciarono nel 1878, lontano da Novi Pazar,
in Occidente, più esattamente a Berlino, quando le grandi potenze decisero che
la Bosnia sarebbe passata sotto il controllo dell'Austria. I bosgnacchi
musulmani opposero resistenza all'invasore cattolico, ma si dovettero presto
ricredere: Vienna garantiva loro un'estrema libertà, una libertà molto più grande
di quella di cui godevano i musulmani del Sangiaccato, una parte dei quali
viveva sotto il regno di Serbia e un'altra sotto quello del Montenegro. La
città di Novi Pazar, invece, rimase ancora sotto il controllo di Istanbul fino
alla fine delle guerre balcaniche del 1912-1913, quando la Serbia e il
Montenegro occuparono definitivamente l'intera regione.
Dal 1941 al 1945, il
Sangiaccato ballò, al ritmo della Furlana delle occupazioni nemiche: di quella
nazista, di quella italiana (non illudetevi, gli italiani brava gente non sono
stati meno crudeli dei tedeschi) dei cetnici serbi e degli ustascià croati. Il
Sangiaccato si ritrovò ferito ma integro sotto la Jugoslavia di Tito, che tolse
alla regione l'autonomia ma garantì 50 anni di tranquillità. Negli anni '90,
poi, le danze ricominciarono, con i serbi che occupavano, i bosniaci musulmani
di Sarajevo che subivano. La Serbia avrebbe voluto distruggere non solo la
Bosnia, ma anche il Sangiaccato. Ancora oggi, sugli atlanti scolastici
finanziati e pubblicati dall'Istituto geografico serbo il nome del Sangiaccato
non compare, sostituito da quello di “Provincia di Raška”. Belgrado non
riconosce ufficialmente la storia particolare di questa regione e, anche se
apparentemente non ci sono grosse tensioni fra Novi Pazar e il governo
centrale, l’insoddisfazione dei bosgnacchi è palpabile; non è un segreto che il
sogno di ogni componente minoritaria, in Serbia, sia quello di allontanarsi il
più possibile dai palazzi della politica belgradese.
Novi Pazar ha la sensualità delle ragazze musulmane
che passeggiano lungo le vie del centro e la consistenza della seta dei vestiti
multicolori da loro indossati.
In via I Maggio c’è una moschea. La moschea è bianca e
abbacina nei giorni di sole. Il minareto è sottile e non ha la necessità di
raggiungere le altezze celesti perché le case che costeggiano la strada sono
basse. La via I Maggio è stretta, molto trafficata; a fianco della moschea c’è
lo storico Caffè Teferić, in cui siedono sempre solo maschi. Il cameriere serve
il caffè e il tè e spesso, grazie a un vassoio che pende e che può essere
tenuto in mano da un sostegno molto simile a un artiglio, porta le bevande a
domicilio nei dintorni. Sono soprattutto i negozianti che non si possono
allontanare dal posto di lavoro a ordinare qualcosa. Fra il Teferić e la
moschea c’è uno spazio vuoto, in cui sono visibili detriti di muri e schegge di
specchi, un pettine, una bambola di pezza e lamiere divelte. Fino a pochi
giorni fa, qui c’era un barbiere. Un uomo cocciuto, che ha rifiutato di vendere
la propria bottega al muftì della moschea a fianco. Una notte di pioggia, un
camion è finito fuori strada e ha distrutto la bottega del barbiere. Al caffè
lo sanno tutti, per le strade ne parlano persino le ragazze: è stato il muftì a
ordinare e a inscenare il falso incidente per punire il parrucchiere testardo.
Lo sanno tutti, ma nessuno ha le prove.
Novi Pazar ha la trasparenza dell’acqua di fonte e la
freschezza delle brezze di montagna. Al Teferić di Novi Pazar c’è oggi Nikola
Janković, originario di Travnik, cittadina bosniaca che non è più quello che
era prima delle guerre fratricide jugoslave. Negli anni ’80, Nikola si è
trasferito a Novi Sad, in Voivodina, dove ha lavorato e tuttora lavora come
editore: presto andrà in pensione. Magro e dinoccolato, Nikola ha un’eleganze
innata, e lo testimoniano il cappello, che gli copre la fronte e la folta
capigliatura nera, la giacca marrone e la camicia. Guarda con attenzione il
capannello di persone che - all’angolo fra la strada e la piazza, sul ponte che
attraversa lo stretto letto del fiume Jošanica - legge gli annunci mortuari.
Chi se n’è andato oggi non sarà dimenticato domani. Anche qui, a fermarsi sono
solo i maschi; lo sguardo rivolto agli annunci colorati di verde (il colore
dell’Islam), stanno immobili, borbottano qualche parola, con la schiena dritta
e le mani intrecciate dietro la schiena. Lungo la strada, le automobili rombano
confuse e i passanti si affrettano verso punti indefiniti. Vita e morte unico
fiore.
Nikola Jankovic |
Novi Pazar ha la dura fatica delle salite e la caoticità delle case in costruzione. Safeta lavora in un negozio di abbigliamento sotto i portici del grande palazzo socialista in centro città. Conversa volentieri, soprattutto con Nikola che le chiede informazioni sul passato del Sangiaccato. Safeta ricorda gli anni ’90, quando quotidianamente partivano da Novi Pazar 30 autobus diretti in Svezia e a Istanbul. La terra tremava al passaggio dei carri armati e dei veicoli militari serbi che andavano a schierarsi lungo il fronte bosniaco. I bosgnacchi in Serbia non volevano restare, e molti di loro emigrarono, esattamente come al termine delle guerre balcaniche del 1912 e del 1913, quando migliaia di persone, fra slavi musulmani e turchi, lasciarono il Sangiaccato perché non volevano vivere in un paese ortodosso. Novi Pazar ha adesso circa 70.000 abitanti ma l’emigrazione è ancora forte. Al Parlamento di Belgrado, il Sangiaccato è rappresentato dal Partito Socialdemocratico del Sangiaccato guidato da Rasim Ljajić, attuale ministro del turismo e alleato del presidente Vučić. Ljajić è un medico che, durante gli studi universitari a Sarajevo, conobbe il presidente bosniaco Alija Izetbegović, il quale gli chiese di fondare un partito in Sangiaccato.
Ljajić non ci riuscì personalmente, ma incaricò a sua
volta Sulejman Ugljanin, che nel 2005 ruppe con l'alleato e fondò un proprio
gruppo politico, il Partito di Azione Democratica. Al giorno d'oggi, Ugljanin
rappresenta l'ala radicale dei bosgnacchi, quella che vorrebbe l'indipendenza
da Belgrado, mentre Ljajić rivendica il dialogo con le autorità serbe e
considera il Sangiaccato parte integrante della Repubblica di Serbia. Il
Sangiaccato è diviso politicamente: Ugljanin ha l'appoggio delle potenze
musulmane, in particolare della Turchia e degli Emirati Arabi, che finanziano
la costruzione di madrase e di moschee. Ljajić ha invece il sostegno non solo
delle istituzioni serbe, ma anche di quelle europee: lo slogan con cui il
Partito Socialdemocratico del Sangiaccato si presenterà alle elezioni nazionali
del 21 giugno è, non a caso, “Per un Sangiaccato europeo”.
Novi Pazar ha la violenza dei temporali estivi e la
forza del sole di agosto. Davanti al caffè e alla moschea c'è un edificio
basso, a due piani. Al pianterreno si trova una macelleria, al piano rialzato -
la cui porta secondaria dà sulla via adiacente, che si inerpica alla fortezza -
c'è una radio privata. Un ingresso, con un frigorifero e una piastra per
riscaldare l'acqua per il caffè, una piccola stanza che funge da regia e uno
studio minuto, in cui ci sono un tavolo, una sedia e un microfono che pende dal
soffitto. Della radio si occupa una donna dagli occhi verdi, di bassa statura,
magra, che, tramite un computer, fa partire i brani musicali. Il radiogiornale
lo conduce lei stessa dalla regia, senza andare nello studio. Con lei c'è il
figlio disabile, che a fatica cammina e che ha uno sguardo accesso, vivo.
Non riesce a parlare, mormora parole sconnesse e
incomprensibili. La donna arriva al lavoro al mattino, fa accomodare il figlio
su una poltrona e poi, per 8 ore, si occupa delle trasmissioni. “Il ripetitore
- dice - la nostra unica antenna, è sul monte lì a sinistra, ma non si vede, ci
sono le nuvole”. Il sorriso sincero tradisce preoccupazione e apprensione.
Mentre va in onda la pubblicità, sbuccia una mela, la fa a spicchi e la porge
al figlio. Il bambino, di circa 9 anni, allunga la mano ma non riesce a portare
lo spicchio direttamente alla bocca: con il braccio disegna un grande
semicerchio, come se stesse danzando, e poi a fatica il frutto dalla polpa
bianchissima arriva alle labbra. Mastica e sputa la metà di ciò che ha
mangiato, ha difficoltà a controllare il boccone, come se gli scivolasse fra i
denti e la lingua.
La madre interviene prontamente, asciuga
al figlio il mento sporco di frutta e di saliva, mentre il ragazzino si agita e
alza una mano al cielo. Le onde magnetiche, nel frattempo, si diffondono
ortogonalmente dal ripetitore sulla montagna; a intervalli e oscillazioni
regolari, accarezzano e attraversano la città, per poi disperdersi in quota,
sempre in linea retta, verso il Montenegro e l'Adriatico, che rimangono giù,
piegati dalla curvatura terrestre. Le onde continuano dritte, la troposfera non
le trattiene e neanche la ionosfera riesce a rifletterle; si perdono così negli
spazi siderali, nella fredda e immobile sterilità del buio astrale.