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giovedì 18 giugno 2020

AMERICA
di Alfonso Gianni



Marx Renaissance negli Usa: coast to coast

Gli Stati Uniti non sono solo percorsi dalle grandi manifestazioni contro il razzismo di questi giorni, ma anche da un pensiero che fondandosi su basi marxiste, sta ridando forza e speranza alla sinistra americana. Anche se, per ora, nessuna affermazione può forse meglio sintetizzare la crisi del pensiero politico di sinistra della seguente: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Benché l’espressione sia molto usata e ricorra nelle opere di più autori, la sua attribuzione è incerta. Lo stesso Mark Fischer, che la usa per titolare uno dei capitoli di quello che può essere considerato il suo testamento intellettuale e politico, Realismo capitalista (Nero edizioni, 2017), ci lascia il dubbio se sia stata coniata da Fredric Jameson o da Slavoy Zizek. La soluzione più accreditata è che l’autore sia il primo e il secondo l’abbia poi rilanciata nei suoi numerosi scritti e interventi. Ma questo la rafforza, dandole il carattere di una implicita condivisione. In ogni caso la sua verità interna comincia ad essere messa in discussione da più di un segnale confortevole per una ripresa di un pensiero politico che si propone direttamente il superamento del sistema capitalistico, anche se in modo problematico. Almeno sul piano della ricerca teorica, più che su quello della delineazione di una coerente strategia.


Certamente il ritorno al pensiero di Marx, liberato dalle incrostazioni dei diversi marxismi che hanno preteso, in particolare nel secolo scorso, di implementarlo e attualizzarlo, ha tratto alimento anche dai più recenti studi filologici sui testi marxiani e soprattutto da un ampio e articolato movimento intellettuale internazionale che è stato giustamente chiamato  Marx renaissance, che  a partire dagli anni Novanta, si è fin qui sviluppato attorno alla rivisitazione del pensiero marxiano con contributi di grande qualità scientifica e che, pur essendo partito  da un ambito sostanzialmente accademico, ha mostrato di volere e sapere superare questi confini. Del resto la ripresa dell’interesse verso Marx e il marxismo è aiutata anche dalla nascita e dallo sviluppo di nuovi movimenti sociali, giovanili e femministi che alla ricerca delle cause ultime del loro disagio incontrano l’opera marxiana anche in modalità fertilmente critiche. Uno dei luoghi del mondo in cui questo avviene sono gli Stati uniti d’America. Ed è forse significativo che ciò avvenga mentre la centralità del colosso americano nei processi di crisi, trasformazione e dominio del sistema capitalistico è messa in discussione su molti fronti dallo sviluppo originale dei sistemi economico-politici asiatici, della Cina in particolare.
Il tema è ovviamente molto vasto. Qui ci si limita a focalizzare l’attenzione su due figure, intellettuali e politiche, anche se non certo le uniche nel panorama nordamericano: il trentenne Bhaskar Sunkara, che vive a Brooklyn, fondatore e direttore della rivista di grande successo Jacobin (di cui ora esiste anche un’edizione italiana), nonché editore della rivista accademica Catalyst: A Journal of Theory and Strategy e il sociologo Erik Olin Wright, nato a Berkeley, docente all’Università del Wisconsin, scomparso un anno fa a pochi giorni dal suo 72° compleanno. Figura, quest’ultima, non notissima al pubblico italiano anche per la mancanza di traduzione nella nostra lingua dei suoi scritti, cui hanno recentemente posto parziale rimedio le edizioni Punto Rosso di Milano, con la pubblicazione del breve Come essere anticapitalisti nel XXI secolo e del più esteso Capire la classe. Per “erodere” il capitalismo, cui seguirà tra poco Per un nuovo socialismo e una reale democrazia. Come essere anticapitalisti del XXI secolo ora in corso di stampa.

Karl Marx

Bhaskar Sunkara è stato più fortunato e il suo più recente lavoro Manifesto socialista per il XXI secolo è stato prontamente tradotto ed editato da Laterza. La ragione sta nel carattere più politico e divulgativo del testo di Sunkara (famiglia di origini indiane), che collabora, tra gli altri, con The Nation e The Guardian e che è stato anche vicepresidente dei Socialisti democratici d’America. Il libro si divide in due parti, di dimensioni ben diverse. Nella prima l’Autore compie una rapida carrellata lungo la storia del movimento operaio da Marx ai giorni nostri. Nella seconda si cimenta con l’arduo compito di fornire le linee essenziali per una risposta ai problemi che quella lunga storia ha lasciato aperti o ha del tutto mancato. Il tutto è introdotto da un prologo dal taglio utopico e dalla forma narrativa - mettendo a confronto la condizione di un giovane lavoratore del 2019 con quelle che potrà avere nel 2036 - il cui titolo già comunica di per sé una intenzione chiara: “Un giorno nella vita di un cittadino socialista” è - ci informa Sunkara nella prima delle numerose e dense note che accompagnano il volume - “preso in prestito” da un saggio di Michael Walzer comparso sulla storica rivista Dissent: a quarterly of socialist opinion, che nacque nel 1954 per iniziativa di un gruppo di intellettuali liberal-progressisti che intendevano reagire al maccartismo, ma distinguersi anche dal comunismo, e “dissentire” proprio “dalla desolante atmosfera conformista che pervade negli Stati Uniti la vita sia intellettuale che politica”. Nel corso degli anni la rivista è diventata anche una delle sedi più prestigiose d'America per lo sviluppo della critica sociale; ha portato avanti in collaborazione con il Brooklyn Institute for Social Research, un progetto di digitalizzazione di numerose riviste letterarie e politiche, di breve durata, conservandone la memoria; alcuni dei suoi redattori più giovani si sono si sono identificati con il marxismo eterodosso e la democrazia radicale di Occupy Wall Street.
Sunkara ci fa sapere da subito - e la cosa verrà trattata diffusamente nella seconda parte del libro - che la sinistra negli Usa ha una sua lunga e originale storia che si colloca lungo l’asse di una radicalizzazione della socialdemocrazia, avvenuta attraverso aspri contrasti e numerose rotture, verso una originale forma di “socialismo democratico”, espressione che l’Autore intende “a tutti gli effetti “come un sinonimo di socialismo. “A distinguere la socialdemocrazia dal socialismo democratico - chiarisce Sunkara - non è tanto il fatto se uno ritenga che ci sia posto per la proprietà privata capitalista in una società equa, quanto piuttosto come agire rispetto alle lotte per le riforme. Oggi i migliori socialdemocratici lotterebbero per politiche macroeconomiche dall’alto per aiutare i lavoratori. Senza rifiutare ogni forma di competenza tecnocratica, i socialisti democratici sanno che serviranno disordini e lotte di massa dal basso per realizzare cambiamenti più duraturi e radicali”. Quindi Sunkara sa che, non chiamandosi fuori dalla complessa e tortuosa storia del movimento operaio internazionale, deve fare i conti con le sue diverse tradizioni inverate nel bene e nel male.

B. Sunkara

E lo fa, in modo necessariamente sommario, nella seconda parte del volume, ove prende in esame la storia dei movimenti e dei partiti comunisti come di quelli appartenenti alla socialdemocrazia europea, per spostare poi l’attenzione sui processi rivoluzionari del Terzo Mondo e sulle traversie della sinistra negli Stati uniti d’America. La critica all’esperienza comunista in Russia e poi in Cina è evidente ed esplicita, ma mai distruttiva. L’Autore è ben cosciente delle enormi difficoltà teoriche ma soprattutto pratiche di risolvere il problema del passaggio da una società ancora semifeudale ad una socialista, di quanti drammi sociali e dolore abbiano provocato le forzature in questa direzione, come di quali tragici abissi si sarebbero aperti se quelle rivoluzioni fossero state stroncate sul sorgere dalle forze reazionarie sostenute dal capitale internazionale.
I giudizi sui grandi protagonisti di queste rivoluzioni non sono teneri, ma neppure stroncanti, da Lenin a Mao, da Stalin, certamente il più inviso, a  Trotsky (“per caso a tredici anni ho preso in prestito La mia vita di Trotsky. Non mi piacque particolarmente - neanche adesso mi piace -, ma mi intrigò abbastanza da indurmi a leggere le biografie di Trotsky di Isaac Deutscher, le opere di pensatori socialisti democratici come Michael Harrington e Ralph Milliband, per arrivare infine al misterioso Karl Marx”). Si può dire che tra i grandi rivoluzionari del primo Novecento è solo la Luxemburg ad uscirne bene: in più passaggi l’Autore mostra di condividere le sue critiche ai potenziali processi degenerativi del bolscevismo. Colpisce, però, un’assenza. Per quanto necessariamente sommaria è nel libro la trattazione delle vicende della Terza Internazionale, troppo poca è l’attenzione che l’Autore dedica al passaggio dalla teoria del socialfascismo a quella dei fronti popolari, che invece ci attenderemmo di vedere sottolineata proprio perché utile a supportare le stesse conclusioni cui Sunkara giunge. Invece non si fa menzione alcuna dello snodo fondamentale rappresentato dal VII° e ultimo  congresso dell’Internazionale comunista, con il  celebre rapporto  di Georgi Dimitrov sul fascismo (“nelle nostre file si è avuta una sottovalutazione intollerabile del pericolo fascista, sottovalutazione che ancora oggi non è sormontata dappertutto”), che impresse una correzione di linea e di comportamenti a tutto il movimento comunista. Cosicché la “drastica inversione di rotta” dei comunisti, come lo stesso Sunkara la definisce, rischia di apparire più il frutto di qualche improvvisa e provvidenziale conversione, che non il punto di arrivo di un’analisi, di un dibattito e di una lotta interna al movimento comunista una volta tanto salutare.



Più puntuale ed accurata appare la parte dedicata alla socialdemocrazia europea, di cui si individuano in modo articolato meriti e limiti. Anche nei punti più alti di questa storia, come nel caso svedese (si pensi al Piano Meidner più volte richiamato in questa seconda parte del libro) o in quello del governo di Mitterand degli anni Ottanta (con le sue 110 proposte per la Freancia), Sunkara individua un limite strutturale, quello di non volere che “la mobilitazione operaia esca dalla cabina elettorale”. Un doppio errore perché “per mantenere la stabilità elettorale, per potere mediare tra capitale e lavoro e per rendere le riforme esecutive, i socialdemocratici si tennero lontani da politiche di sinistra” ma “così facendo, paradossalmente finirono per danneggiare il proprio blocco elettorale, ossia l’origine stessa del loro potere”. Ma per Sunkara gli sforzi della socialdemocrazia non furono inutili. Egli richiama alla memoria l’analogia usata da Rosa Luxemburg quando paragonava il riformismo a una fatica di Sisifo. “Ma dopo anni di scivolamento verso il basso, il masso non si è ancora infranto - osserva Sunkara - Nelle società avanzate plasmate dai socialdemocratici, le vittorie - chiave della classe operaia si sono dimostrate durature e le persone sono protette dalle forme più estreme di povertà e insicurezza”.

Erik O. Wrigth

L’Autore pare qui sottovalutare quella rivoluzione conservatrice, messa in atto dal capitalismo globalizzato e neoliberista, che ha prodotto un attacco al welfare state smantellando conquiste consolidate. Allo stesso tempo però si rende conto che l’alternativa è fra “ritornare verso l’ortodossia economica o camminare verso la tradizione più radicale del socialismo democratico”. E Sunkara nelle conclusioni del suo libro mostra di volere marciare con decisione su questa seconda strada, considerando quindi le teorie e le esperienze della socialdemocrazia classica non solo datate, ma da superarsi. “Sanders e Corbyn - egli afferma - (…) offrono un’alternativa radicale a un centrosinistra decrepito. Hanno offerto parole come lotta di classe e redistribuzione a un pubblico che non aveva mai udito richieste di questo tipo. La socialdemocrazia della lotta di classe, pertanto, sta mobilitando la classe lavoratrice attraverso le campagne elettorali, invece di subordinare le lotte esistenti al fine di far eleggere poche persone. La differenza tra questa corrente politica e la socialdemocrazia di Tony Blair o anche id Olof Palme è evidente”.
Ma a questo punto sorge naturale la domanda: a sua volta la lotta di classe su quali classi concrete si può basare e sviluppare? E qui la riflessione di Sunkara incrocia, oggettivamente, il grande lavoro di ricerca svolto da Erik Olin Wright, molto apprezzato da uno studioso di vaglia quale fu Vittorio Rieser. Il sociologo americano, nato a Berkeley nel ’47, ma che ha svolto la sua docenza nell’Università del Wisconsin-Madison, ha condotto il suo lavoro lungo due direttrici di fondo. Da un lato ha cercato di inquadrare, partendo da una prospettiva marxista le cause e le conseguenze delle diseguaglianze nelle società occidentali, Dall’altro si è avventurato nella non facile impresa di delineare le possibili alternative al moderno capitalismo e le strade per arrivarci.


Il primo percorso sembra muovere esattamente da dove Il Capitale di Marx si è bruscamente interrotto. Come si ricorderà nel capitolo 52° del opus magnum marxiano si affaccia perentoriamente la domanda che il pensatore di Treviri pone in primo luogo a se stesso “Che cosa costituisce una classe? (Karl Marx Il Capitale. Critica dell’economia politica Libro terzo, Volume quinto, Einaudi 1975, pag. 1188). Purtroppo poche righe dopo il testo si interrompe. Non prima però di averci fatto intravedere la complessità di quella definizione mancante e almeno per quali sentieri Marx non si sarebbe incamminato, tanto è vero che l’appartenenza degli individui alle tre classi fondamentali solo “a prima vista può sembrare che sia … dovuta all’identità dei loro redditi e delle loro forme di reddito”. Dunque dev’esserci ben altro. Ma cosa? Ed è la risposta che Wright ha cercato di dare sulla base dell’analisi puntuale della società americana, con un taglio intellettuale che lo iscrive nel filone del marxismo analitico. Quello che negli anni Ottanta diede vita ad un gruppo di studiosi che in modo un poco sbarazzino si faceva chiamare Nbsmg, un acronimo che sta per The Non-Bullshit Marxism Group (che si potrebbe tradurre, con una certa attenuazione della scherzosa trivialità del termine: “il gruppo di studiosi del marxismo che non cacciano balle”) di cui hanno fatto parte tra gli altri Gerry A. Cohen, John Roemer, Sam Bowles, Philippe Van Parijs, per citarne solo alcuni.
In Capire la classe. Per “erodere” il capitalismo, un volume che raccoglie saggi scritti tra il 1995 e il 2015, Wright affronta le diverse declinazioni del concetto di classe come sono apparse in autori quali Max Weber, Charles Tilly, Aage Sorensen, Michael Mann, David Grusky e Kim Weeden, Thomas Piketty, Jan Pakulski e Malcom Waters, Guy Standing. Seguirlo lungo questo non breve percorso è qui impossibile. Ma è importante rilevare alcune caratteristiche del suo metodo di lavoro e fare cenno alle conclusioni cui giunge sul piano analitico. Wright parte da Marx ma non si accontenta del marxismo, che non gli pare sufficientemente attrezzato per un’analisi minuta delle classi nelle attuali società. Ha bisogno di usare altre fonti culturali, di giungere ad una sorta di contaminazione sistemica capace di aprire nuove strade analitiche. Per usare le sue stesse parole Wright afferma che si può essere contemporaneamente, ma non in modo confusionario, “weberiani per lo studio della mobilità di classe, bourdieusiani - cioè seguaci di Pierre Bourdieu - per lo studio dei fattori determinanti degli stili di vita, e marxiani per la critica del capitalismo”. Sulla base di questo Wright rigetta una chiave di lettura “stratificazionista” cioè legata ad una rappresentazione delle classi secondo semplici suddivisioni quantitative di ricchezza, ma anche interpretazioni che trascurano la condizione economico reddituale, per valutare le classi solo in termine di potere.


Wright insiste nel sostenere che “nella tradizione marxiana la classe sia un tipo particolare di relazione sociale” così come il capitalismo è un sistema sociale di produzione, e quindi ciò che conta non è tanto il “tipo di occupazione” quanto “il tipo di relazione sociale in cui ti trovi nella struttura economica”. Per meglio chiarire questo punto essenziale vale la pena di riportare la sua pacata critica  all’imponente lavoro dell’autore del fortunatissimo Il Capitale nel XXI secolo : “Thomas Piketty e i suoi colleghi hanno prodotto una straordinaria massa di dati sull’ineguaglianza di reddito e di ricchezza che include dati sui più ricchi dei ricchi… Ma l’analisi di Piketty finisce per oscurare processi cruciali trattando il capitale e il lavoro esclusivamente come fattori di produzione che ottengono proventi. Se vogliamo capire veramente le tendenze inquietanti nelle diseguaglianze di reddito e ricchezza, e soprattutto se vogliamo trasformare le relazioni di potere che generano queste tendenze, dobbiamo andare oltre le categorie convenzionali dell’economia per individuare le relazioni di classe che generano una crescita esponenziale della diseguaglianza economica”.
Questo insistere sul carattere sociale del sistema capitalistico è in Wright - ma possiamo dire anche in Sunkara - decisivo per fondare una nuova strategia anticapitalista. Wright analizza quattro logiche strategiche che sono state alla base del pensiero e delle lotte anticapitalistiche, che così riassume “rompere/frantumare (smashing), riformare/temperare/addomesticare (taming), resistere (resisting) e fuggire (escaping)”. Non è difficile individuare per ciascuna di queste strategie protagonisti e politiche che le portano avanti anche sullo scenario europeo. Nel corso della storia del movimento operaio internazionale simili strategie si sono anche combinate tra loro. Ma nessuna di queste, secondo Wright, risponde interamente o da sola alle esigenze che una lotta contro l’attuale capitalismo. 


Tra queste quella della rottura è la più lontana dal suo pensiero. Quindi cerca la sua strada lungo un altro percorso, quello della “erosione” del capitalismo. “Mentre l’idea strategica di erodere il capitalismo è talvolta implicita nelle lotte sociali e politiche, non è generalmente in primo piano come principio organizzativo centrale di una risposta alla ingiustizia sociale” Perché lo diventi bisogna arrivare ad una migliore comprensione del concetto di “sistema sociale”. Wright non accetta una visione del capitalismo come totalità. Anzi, afferma che “chiamiamo un sistema economico così complesso ‘capitalismo’, quando è definibile capitalismo ‘solo’ la parte dominante nella determinazione delle condizioni economiche della vita e dell’accesso alla vita per la maggior parte delle persone”. Questa compressione concettuale della natura del capitalismo odierno permette quindi a Wright di fondare la sua strategia anticapitalistica sulla possibilità di eroderne le basi attraverso “la costruzione di relazioni economiche più democratiche, egualitarie e partecipative negli spazi e nelle crepe possibili all’interno di questo complesso sistema”. Si avverte quindi un’eco lontana delle “casematte” gramsciane.



Ma qui lo stesso Wright individua due problemi di assai greve portata. Il primo è rappresentato dal fatto che “erodere il capitalismo è dunque possibile solo se, nonostante le caratteristiche di classe dello stato capitalistico, è comunque possibile utilizzare lo Stato per creare nuove regole del gioco che possano facilitare l’espansione delle relazioni emancipatorie non-capitalistiche”. Quindi si deve concludere che secondo Wright il socialismo può nascere e svilupparsi dentro il sistema capitalistico stesso che lo partorirebbe seppure con dolore? Se così fosse saremmo tornati nell’alveo della socialdemocrazia, con solo qualche ammodernamento di facciata, prospettiva che come abbiamo visto Sunkara da parte sua respinge con forza. Ed anche leggendo con attenzione Wright si capisce che egli vuole andare più in là. Infatti parla di un “processo di ‘spostamento’ del capitalismo dal suo ruolo dominante nell’economia”.
Ma non si può non osservare che qui si svela un punto debole nel ragionamento del sociologo di Berkeley. Infatti i processi di crisi dello stato-nazione e ancor più della democrazia, prodotti proprio dall’invasività su scala nazionale e internazionale del moderno capitalismo, rendono questa desiderata utilizzazione dello stato da un lato improbabile, dall’altro debole quanto alle sue possibilità erosive del sistema economico sociale. Wright non si nasconde dietro alla difficoltà, se ne rende perfettamente conto e infatti, rispondendo ad una domanda degli intervistatori nel volumetto citato, riferendosi al nostro Vecchio continente, afferma che: “Uscire dall’Europa renderebbe le cose ancora peggiori (…) Avremmo più possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione europea che se semplicemente democratizzassimo gli stati membri e ci liberassimo della Ue”.



C’è poi un secondo aspetto che Wright non dimentica: quale deve essere il soggetto portante di questa strategia erosiva? Da qui appunto l’importanza dell’analisi delle classi. Wright pensa alla “formazione di un attore collettivo politicamente coerente” seppure formato socialmente da figure appartenenti a campi eterogenei, pur rimanendo - egli dice - la classe “al centro di tale azione collettiva, in quanto, dopo tutto, l’obiettivo della lotta è la trasformazione della struttura di classe; e questo è ciò che significa nel profondo erodere il capitalismo”. Ma, come non esiste per Wright una forma pura di capitalismo, così non esiste altrettanta purezza nella determinazione della composizione di classe. Vi è in Wright quasi una concezione ‘quantistica’ della condizione di classe nella complessa realtà sociale; gli individui possono avere “collocazioni contradditorie - ovvero simultanee - di classe”. L’erosione del capitalismo diventa a questo punto rifondazione e allargamento della democrazia da un lato e abbattimento processuale, ma reale, dei confini classisti. Purtroppo esattamente il contrario di quello che oggi accade. Ma proprio per questo il lungo lavoro analitico e la riflessione di Wright, non scevra da contraddizioni e nodi da sciogliere, appare comunque utile nella costruzione di un pensiero politico di sinistra. 



E allora possiamo tornare a Sunkara. Nella parte conclusiva del suo libro il giovane di Brooklyn piglia di petto diverse e non facili questioni. Da un lato critica l’idea di “cambiare il mondo senza prendere il potere” circolata ampiamente negli anni Novanta e nei primi del nuovo millennio, anche grazie all’esperienza zapatista e alle riflessioni di John Halloway (Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi, edizioni IntraMoenia, Napoli 2004 e Che fine ha fatto la lotta di classe? Roma, Manifestolibri, 2007); dall’altro - e soprattutto - se la prende con “l’enfasi sulla mobilitazione elettorale dei nostri giorni”. Per uscire dalla tenaglia dei limiti del movimentismo e dei vicoli ciechi cui conduce l’elettoralismo, Sunkara introduce un tema che pareva scomparso dalla più recente letteratura di sinistra: quello del partito politico.
Pur non sottovalutando l’esperienza di Corbyn nel Partito laburista “in generale, però, non dovremmo cercare di controllare partiti socialdemocratici ormai screditati”, scrive Sunkara, e quindi cita esplicitamente come positiva l’azione di ricostruzione della sinistra posta in atto da Die Linke tedesca, dal Bloque de Izquierda portoghese, da Podemos in Spagna. Anche se ci lascia il dubbio di cosa pensi di Syriza, Sunkara precisa che “un partito politico dovrebbe essere l’anello di collegamento decisivo tra le correnti esplicitamente socialiste e il più ampio movimento dei lavoratori”, tra cui sono determinanti quelli impegnati nella logistica e i nuovi precari, per giungere ad una cosa sola: “un movimento socialista dei lavoratori”.
Quindi Sunkara scrive parole appassionate sulla necessità del socialismo che scaturisce oltre che dall’aggravarsi delle ingiustizie sociali, dalle modificazioni climatiche indotte dal modello e dalle finalità produttive di un distruttivo capitalismo e dallo stato di guerra guerreggiata da cui il mondo non è mai uscito. Eppure finora abbiamo fallito, ragiona Sunkara, ma questo non significa che non possiamo imparare a volare. Perciò le ultime pagine del volume sono dedicate a Lucio Magri, all’apologo brechtiano del sarto di Ulm e a Pietro Ingrao. Già, nemo propheta in patria, ma altrove sì.

Riferimenti:



Bhaskar Sunkara
Manifesto socialista per il XXI secolo,
Laterza, Bari-Roma 2019, pagine 290, euro 18,00

Erik Olin Wright
Come essere anticapitalisti nel XXI secolo,
con una intervista all’Autore di Lorenzo Zamponi e Marta Fana
e una presentazione del medesimo a cura di Denise Celentano,
Edizioni Punto Rosso, Milano 2017, pagine 84, euro 9,00

Erik Olin Wright Capire la classe. Per “erodere” il capitalismo,
a cura di Roberto Mapelli e Alessio Olivieri,
Edizioni Punto Rosso, Milano 2019, pagine 316, euro 18,00