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giovedì 18 giugno 2020

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada


Il greco ed il latino sono alle origini della lingua italiana. Quanto lo siano per le nostre di lingue, cioè le lingue madri dialettali della Calabria, è noto non solo agli studiosi e agli scrittori, ma anche ai molti appassionati, e a quanti si sforzano di non cancellare dal loro parlato i dialetti. La loro scomparsa equivarrebbe ad un vero e proprio genocidio culturale. Dovremmo invece esserne orgogliosi e custodirli; in questa ricerca del prof. Santagada c’è la riprova di come le parole dei nostri dialetti (e parlo anche del mio, quello di Acri), derivino da quelle antiche radici. Forse ora alcuni termini dei vostri dialetti, vi appariranno molto più nobili e preziosi di quanto immaginavate. [A. G.]

La copertina del libro

Questa ricerca si è originata per raccogliere le parole di provenienza greca, presenti nel dialetto. Poi, il lavoro si è allargato al latino e all’italiano, per cui la raccolta ha dovuto, necessariamente, inglobare un piccolo dizionario di parole dialettali, legate al mondo culturale greco, latino e italico. Questa raccolta ha anche la presunzione di dimostrare che il processo di formazione del linguaggio verbale, meglio, delle lingue, è unitario, nel senso che il codice è, grosso modo, lo stesso, che tiene presente il processo di formazione della vita, che si sostanzia della civiltà agropastorale, che è il risultato di un processo di contaminazione culturale, che trasmigrò dall’Oriente nel bacino del Mediterraneo, dando luogo alle lingue indo-europee. Inoltre, le lingue sono elementi fondativi dell’identità della persona, danno appartenenza e indicano appartenenza, formano il modo di pensare e strutturano la sintassi del discorso e le facoltà logiche. I dialetti, da sempre, furono vere e proprie lingue, anzi furono lingue-madri, nel senso letterale del termine. La capacità di far interloquire era molto limitata, in quanto il dialetto era la lingua di un territorio, fuori dal quale si parlava un altro dialetto, che, se pur non molto diverso, diventava poco comprensibile per gli stravolgimenti fonetici e per le inflessioni idiomatiche. Il lessico dei dialetti è, per lo più, ristretto e serve per esprimere bisogni concreti. La povertà lessicale è indizio di povertà culturale, che non esclude, però, la sapienza e la saggezza, acquisite attraverso le esperienze e maturate per le dure prove della vita. Il lessico di un paese è quello strutturato nel corso di millenni di storia, con metodi comuni e con il contributo di persone provenienti dalla Grecia o da Roma. Quando si dice goi’ (oggi), si indica un legame stretto non solo con hodie (hoc die) dei latini, ma anche con l’aspirazione data dalla h; quando si dice crai, è evidente il legame con cras. In italiano si disse dopodomani, nei paesi dell’Alto Jonio si continua a dire piscrai (post cras). L’articolo determinativo u (u pan’: il pane) è da collegare all’articolo determinativo greco , mentre l’articolo indeterminativo un (in dialetto: nu) non deriva da unus: uno solo, ma fu dedotto o dall’articolo greco o dall’u della chiamata (l’approccio con una persona qualsiasi, in latino quidam, avviene con u). L’articolo il richiama il pronome dimostrativo ille, così come is(s) dei Napoletani fu ricalcato da is dei latini. L’espressione dialettale macardii!, che in italiano dette luogo a magari in tutte le sue sfumature, fu dedotto da μάκαρ: beato, felice ed evoca ο μάκαρες: gli dèi beati.
La parola dialettale tiermini (confini) è tutt’uno con terminus: confine (variante termen terminis), che, a sua volta, è da collegare a τερμα, τερματος: meta, traguardo, concetto mutuato dal viaggio del bambino nel grembo materno, che, raggiunto il punto massimo, nasce, ponendo termine al suo cammino. Questo percorso logico fa capire le espressioni: i termini di un discorso o termini coincidenti, così come determinare la data di nascita del bambino o essere determinato a fare (determinazione). In altri luoghi terminus conosce le varianti, più propriamente latine, limiti (ad Amendolara ghimmit’) e confini, che rifanno lo stesso percorso logico di τερμα τερματος, se fines finis è da tradurre: va a nascere dentro dal crescere l’andare a mancare e limes limitis è da rendere: va a sciogliere il rimanere dal crescere l’andare a mancare. Da ricordare che la radice lim dette luogo a limen: soglia, parola dedotta, perché si trattava del puntolimite, prossimo alla soglia della porta d’uscita. Molto probabilmente totaro (in dialetto: iè nu totar’, ad indicare una persona alta, ma vuota mentalmente e incapace di sapersi relazionare), fu dedotto da totus: tutto intero, che in dialetto venne tradotto: san’ san’, che beve quanto gli viene riferito. La parola paese (paìs’), che si può tradurre: il luogo di nascita di un bambino, fu dedotta dal greco πας: bambino. La parola del dialetto: u trutt’ (si dice, per lo più, che è un bambino irrequieto e incontrollabile a causarlo) fu dedotto dal verbo: τρύχω: estenuo, snervo, tormento, logoro, mentre l’italiano trotto è da collegare a τρόχος: corsa o all’aggettivo: τροχός: che corre velocemente. Quando in italiano si dice frugare, sicuramente si vuole dire: andare alla ricerca di cose minute, difficili da individuare, rinviando, inconsapevolmente, a fruges: semi di cereali; quando, in un dialetto, si dice scaliare, il verbo di riferimento  è σκαλεύω: razzolo, raspo, quando, poi, in un altro dialetto, si dice scirculiare, che indica una perquisizione minuziosa e accurata, molto probabilmente la parola di riferimento è χέρχνος: miglio, grano di miglio, che in italiano consentì il calco di cercare. Le parole della lingua madre sono quelle di immediata comprensione e di grande efficacia comunicativa, perché si riesce a enucleare tutto il valore simbolico che contengono e, talvolta, hanno forza evocatrice. Quando, nell’approccio comunicativo con persone degne di rispetto (sicuramente le persone anziane), si usa signurìa, la parola di riferimento è senior, da tradurre alla lettera: più grande, cui, da un punto di vista culturale, si deve deferenza, rispetto, ossequio, cui è riconosciuta la potestas, donde i significati dedotti: signore (fino a diventare una classe sociale: i signur’) e signoria (dei Medici), con i significati desunti: dominio, potere, autorità. Allora, la parola ssciullo non solo indica un rudere, ma rappresenta la disgrazia gravissima che si abbatte su una casa o una famiglia, in quanto si collega a σκλον: spoglie, preda (in latino spolia), a ricordare le distruzioni, le morti, le deportazioni, le spoliazioni, il servaggio, causati dal nemico invasore. Quindi, ssciullo mii! esprime una sciagura immane, una tragedia sconvolgente e lacerante, dalle conseguenze terribili e deprecabili, così come è personaggio da tragedia eschilea la madre che urla: tinti i can’mii! o anche tinta mia!, espressioni, che  ripropongono l’ottativo τυγχάνοιμι, da tradurre: quale sorte avversa si abbatte su di me! La stessa forza morale contiene l’espressione cintrata mia! (povera me!, fatta bersaglio di un destino avverso). Sentire la parola ch’rdogl’ (cordolium), pronunciata dalla madre nei confronti del figlio, significa condividere lo strazio per un dolore lancinante e immane, che ti scippid’ u cor’. Allora, rinunziare, con estrema facilità, al dialetto significa, anche, rinunziare alla nostra storia, alla nostra identità. Ci sono delle parole come gabbo, da cui fu dedotto gabbare, che esprimono la profonda saggezza delle nostre popolazioni, che invitano a non giudicare gli errori altrui, perché presto o tardi anche tu puoi incappare in quello sbaglio che oggi ti scandalizza; per cui il detto: u gabb’ coglid’, a iistimi’ (la bestemmia) no sintetizza quanto faticosamente ho cercato di spiegare. La lingua, come l’inglese, che è lingua internazionale, è da possedere, ma il dialetto, il mio dialetto, è da preservare, custodire, amare, perché il mio linguaggio è come una pepita: la gratti e luccica di bagliori vivi che illuminano un passato di grande civiltà, di profonda umanità, di pugnace difesa dell’onore e della dignità della famiglia. Grande è stato il senso di dignità delle nostre popolazioni, se si coniò a ritenn’, che non è parola solo da rendere da un punto di vista semantico (reciproca prestazione di lavoro), ma è un vero e proprio istituto sociale per preservare il decoro della donna, che, costretta dalle necessità della vita, doveva dare prestazioni di lavoro di restituzione, al fuori della propria casa e del proprio piccolo appezzamento di terreno, solo a persone di pari grado sociale, venendo meno, in questo caso, la subordinazione ad un padrone, di per sé disonorevole. Quindi l’onore prima di tutto, al punto che c’era un detto: o l’onore o una bella corona! Per concludere ci sono delle parole dialettali, come u spinn’, che hanno una pregnanza evocatrice di significati, che nessuna parola della lingua italiana può non solo esprimere, ma nemmeno suggerire. Un’espressione come: iè nu iuch (è un gioco) significa ciò che so fare con piacere e con facilità o come: Tengh’ u spinn’ (di timp’ (d)i ‘na vota) esprime un bisogno struggente di tornare a gustare un chi o un che cosa, che una volta mi ha deliziato e che, in questo momento, vorrei riassaporare.

Alcuni esempi di parole del dialetto amendolarese


Abbusc-care, procurarsi qualcosa di necessario, andando alla ricerca. Si può rendere anche: andar per boschi, per il fatto che βοσκή significa: pascolo, nutrimento e βόσκω: pascolo, mangio, mi nutro di. Quando la fame mordeva, si andava in campagna alla ricerca di verdure spontanee, di funghi, tendendo trappole ecc.

Catui’, è parola che si usa in alcuni paesi dell’Alto-Jonio e indica il seminterrato usato a magazzino, stalla o pollaio. Sorprende che non abbia il significato di κατ-οικία: dimora, abitazione, ma è stata formata con calchi greci: κατά: giù, in basso e οκος: casa, abitazione, dimora, antro.

Ceramil’, indicano le tegole, i coppi e derivano da κεραμίς κεραμίδος: tegola.

Cirasa, è parola ricalcata da τό κεράσιον: ciliegia.

Cofana, indica una cesta piena e si collega a κόφινος: canestro, cesta.

Crai, significa: domani, da collegare a cras dei latini, che si può tradurre: scorre il passare dal mancare, volendo significare che, a causa della notte, periodo di riposo, le attività vengono rinviate.

Crupu, fu ricalcato da κόπρος: sterco. È avvenuta, da un punto di vista fonico, una metatesi di posizione, per cui da κόπρος si è avuto κρόπος (cropo e, quindi, crupu).

Cullura, altrove anche tort’n’, è una ciambella di pasta intrecciata, beneaugurante, preparata, per lo più, per Pasqua. Il calco di riferimento è κολλύρα: focaccia, pane biscottato.

Furis’, (forese) era colui che viveva nella masseria, addetto ai lavori particolarmente più duri e faticosi. Il calco originario è sicuramente: φορός: che porta, che spinge, che, tra l’altro, dette luogo a φορέω: porto, trasporto. Anche forte fu dedotto da questa radice. C’è, inoltre, il calco più pertinente: φόρησις: il portare.

Lagana, da λάγανον: lagana, è una sfoglia larga e sottile per preparare, in Grecia, la focaccia. Con questa parola si indica, appunto, una sfoglia di pasta stesa con il mattarello (laganatur’) per preparare tagliolini, tagliatelle ecc.

Macardi’, è espressione che indica: Dio lo voglia! Fu dedotta dal calco greco: μακάριος: beato, felice e/o da μακαρία: felicità, beatitudine. Anche l’esclamativo magari rinvia agli stessi calchi.

Mappina, con il significato di straccio, strofinaccio, fu dedotta dal latino mappa, che, a sua volta, fu ricalcata da μάππα, con lo stesso significato di: tovagliolo, salvietta, pannolino.

Scifo, è il trogolo del maiale e fu ricalcato da σκύφος: tazza di legno. Da σκύφος fu dedotto schifo della lingua italiana.

Scrima, indica la scriminatura dei capelli e fu ricalcata da κκριμα: ciò che viene separato. In italiano ha dato luogo a discrimine e a discriminare.

Vacare, è verbo che si usa nel dialetto di Aprigliano e fu ricalcata dal latino vaco vacas: sono non occupato, sono libero di. Nel processo formativo della vita indica la creatura in grembo che mangia e beve e che non fa nulla. Dal participio presente vacans vacantis fu dedotta la parola italiana vacanza. Invece, vacante del dialetto di Amendolara fu dedotto dalla radice vac, che dette luogo a vacuus: vuoto, che indica il grembo senza la creatura.

Vrazz’, le braccia è parola ricalcata da: brachium, a sua volta dedotta dal greco: βραχίων βραχίονος. Da vrazz’ si dedussero: vrazzat’ e abbrazz’.