di
Nicola Santagada
Il
greco ed il latino sono alle origini della lingua italiana. Quanto lo siano per
le nostre di lingue, cioè le lingue madri dialettali della Calabria, è noto non
solo agli studiosi e agli scrittori, ma anche ai molti appassionati, e a quanti
si sforzano di non cancellare dal loro parlato i dialetti. La loro scomparsa
equivarrebbe ad un vero e proprio genocidio culturale. Dovremmo invece esserne
orgogliosi e custodirli; in questa ricerca del prof. Santagada c’è la riprova
di come le parole dei nostri dialetti (e parlo anche del mio, quello di Acri),
derivino da quelle antiche radici. Forse ora alcuni termini dei vostri
dialetti, vi appariranno molto più nobili e preziosi di quanto immaginavate.
[A. G.]
La copertina del libro |
Questa ricerca si è originata per
raccogliere le parole di provenienza greca, presenti nel dialetto. Poi, il
lavoro si è allargato al latino e all’italiano, per cui la raccolta ha dovuto,
necessariamente, inglobare un piccolo dizionario di parole dialettali, legate
al mondo culturale greco, latino e italico. Questa raccolta ha anche la
presunzione di dimostrare che il processo di formazione del linguaggio verbale,
meglio, delle lingue, è unitario, nel senso che il codice è, grosso modo, lo
stesso, che tiene presente il processo di formazione della vita, che si
sostanzia della civiltà agropastorale, che è il risultato di un processo di
contaminazione culturale, che trasmigrò dall’Oriente nel bacino del
Mediterraneo, dando luogo alle lingue indo-europee. Inoltre, le lingue sono
elementi fondativi dell’identità della persona, danno appartenenza e indicano
appartenenza, formano il modo di pensare e strutturano la sintassi del discorso
e le facoltà logiche. I dialetti, da sempre, furono vere e proprie lingue, anzi
furono lingue-madri, nel senso letterale del termine. La capacità di far
interloquire era molto limitata, in quanto il dialetto era la lingua di un
territorio, fuori dal quale si parlava un altro dialetto, che, se pur non molto
diverso, diventava poco comprensibile per gli stravolgimenti fonetici e per le
inflessioni idiomatiche. Il lessico dei dialetti è, per lo più, ristretto e
serve per esprimere bisogni concreti. La povertà lessicale è indizio di povertà
culturale, che non esclude, però, la sapienza e la saggezza, acquisite
attraverso le esperienze e maturate per le dure prove della vita. Il lessico di
un paese è quello strutturato nel corso di millenni di storia, con metodi
comuni e con il contributo di persone provenienti dalla Grecia o da Roma. Quando
si dice goi’ (oggi), si indica un legame stretto non solo con hodie
(hoc die) dei latini, ma anche con l’aspirazione data dalla h; quando si
dice crai, è evidente il legame con cras. In italiano si disse dopodomani,
nei paesi dell’Alto Jonio si continua a dire piscrai (post cras).
L’articolo determinativo u (u pan’: il pane) è da
collegare all’articolo determinativo greco ὁ, mentre
l’articolo indeterminativo un (in dialetto: nu) non deriva da unus:
uno solo, ma fu dedotto o dall’articolo greco ὁ o dall’u
della chiamata (l’approccio con una persona qualsiasi, in latino quidam,
avviene con u). L’articolo il richiama il pronome dimostrativo ille,
così come is(s) dei Napoletani fu ricalcato da is dei
latini. L’espressione dialettale macardii!, che in italiano dette luogo
a magari in tutte le sue sfumature, fu dedotto da μάκαρ: beato, felice
ed evoca οἱ μάκαρες: gli dèi beati.
La parola dialettale tiermini (confini) è tutt’uno con terminus:
confine (variante termen terminis), che, a sua volta, è da collegare
a τερμα, τερματος: meta, traguardo, concetto mutuato dal viaggio
del bambino nel grembo materno, che, raggiunto il punto massimo, nasce, ponendo
termine al suo cammino. Questo percorso logico fa capire le espressioni: i
termini di un discorso o termini coincidenti, così come determinare
la data di nascita del bambino o essere determinato a fare
(determinazione). In altri luoghi terminus conosce le varianti, più
propriamente latine, limiti (ad Amendolara ghimmit’) e confini,
che rifanno lo stesso percorso logico di τερμα τερματος, se fines finis
è da tradurre: va a nascere dentro dal crescere l’andare a mancare
e limes limitis è da rendere: va a sciogliere il rimanere dal
crescere l’andare a mancare. Da ricordare che la radice lim
dette luogo a limen: soglia, parola dedotta, perché si trattava
del puntolimite, prossimo alla soglia della porta d’uscita. Molto probabilmente
totaro (in dialetto: iè nu totar’, ad indicare una persona alta,
ma vuota mentalmente e incapace di sapersi relazionare), fu dedotto da totus:
tutto intero, che in dialetto venne tradotto: san’ san’, che beve
quanto gli viene riferito. La parola paese (paìs’), che si può tradurre:
il luogo di nascita di un bambino, fu dedotta dal greco παῖς: bambino.
La parola del dialetto: u trutt’ (si dice, per lo più, che è un bambino
irrequieto e incontrollabile a causarlo) fu dedotto dal verbo: τρύχω: estenuo,
snervo, tormento, logoro, mentre l’italiano trotto
è da collegare a τρόχος: corsa o all’aggettivo: τροχός: che corre velocemente.
Quando in italiano si dice frugare, sicuramente si vuole dire: andare
alla ricerca di cose minute, difficili da individuare, rinviando,
inconsapevolmente, a fruges: semi di cereali; quando, in
un dialetto, si dice scaliare, il verbo di riferimento è σκαλεύω: razzolo, raspo,
quando, poi, in un altro dialetto, si dice scirculiare, che indica una
perquisizione minuziosa e accurata, molto probabilmente la parola di
riferimento è χέρχνος: miglio, grano di miglio, che in italiano
consentì il calco di cercare. Le parole della lingua madre sono quelle
di immediata comprensione e di grande efficacia comunicativa, perché si riesce
a enucleare tutto il valore simbolico che contengono e, talvolta, hanno forza
evocatrice. Quando, nell’approccio comunicativo con persone degne di rispetto
(sicuramente le persone anziane), si usa signurìa, la parola di
riferimento è senior, da tradurre alla lettera: più grande, cui,
da un punto di vista culturale, si deve deferenza, rispetto, ossequio, cui è
riconosciuta la potestas, donde i significati dedotti: signore
(fino a diventare una classe sociale: i signur’) e signoria (dei
Medici), con i significati desunti: dominio, potere, autorità.
Allora, la parola ssciullo non solo indica un rudere, ma
rappresenta la disgrazia gravissima che si abbatte su una casa o una famiglia,
in quanto si collega a σκῦλον: spoglie, preda
(in latino spolia), a ricordare le distruzioni, le morti, le
deportazioni, le spoliazioni, il servaggio, causati dal nemico invasore.
Quindi, ssciullo mii! esprime una sciagura immane, una tragedia
sconvolgente e lacerante, dalle conseguenze terribili e deprecabili, così come
è personaggio da tragedia eschilea la madre che urla: tinti i can’mii! o
anche tinta mia!, espressioni, che
ripropongono l’ottativo τυγχάνοιμι, da tradurre: quale sorte avversa
si abbatte su di me! La stessa forza morale contiene l’espressione cintrata
mia! (povera me!, fatta bersaglio di un destino avverso). Sentire la parola
ch’rdogl’ (cordolium), pronunciata dalla madre nei confronti del figlio,
significa condividere lo strazio per un dolore lancinante e immane, che ti
scippid’ u cor’. Allora, rinunziare, con estrema facilità, al dialetto
significa, anche, rinunziare alla nostra storia, alla nostra identità. Ci sono
delle parole come gabbo, da cui fu dedotto gabbare, che esprimono
la profonda saggezza delle nostre popolazioni, che invitano a non giudicare gli
errori altrui, perché presto o tardi anche tu puoi incappare in quello sbaglio
che oggi ti scandalizza; per cui il detto: u gabb’ coglid’, a iistimi’
(la bestemmia) no sintetizza quanto faticosamente ho cercato di
spiegare. La lingua, come l’inglese, che è lingua internazionale, è da
possedere, ma il dialetto, il mio dialetto, è da preservare, custodire, amare,
perché il mio linguaggio è come una pepita: la gratti e luccica di bagliori
vivi che illuminano un passato di grande civiltà, di profonda umanità, di
pugnace difesa dell’onore e della dignità della famiglia. Grande è stato il
senso di dignità delle nostre popolazioni, se si coniò a ritenn’, che
non è parola solo da rendere da un punto di vista semantico (reciproca
prestazione di lavoro), ma è un vero e proprio istituto sociale per preservare
il decoro della donna, che, costretta dalle necessità della vita, doveva dare
prestazioni di lavoro di restituzione, al fuori della propria casa e del
proprio piccolo appezzamento di terreno, solo a persone di pari grado sociale,
venendo meno, in questo caso, la subordinazione ad un padrone, di per sé
disonorevole. Quindi l’onore prima di tutto, al punto che c’era un detto: o
l’onore o una bella corona! Per concludere ci sono delle parole dialettali,
come u spinn’, che hanno una pregnanza evocatrice di significati, che
nessuna parola della lingua italiana può non solo esprimere, ma nemmeno
suggerire. Un’espressione come: iè nu iuch (è un gioco) significa
ciò che so fare con piacere e con facilità o come: Tengh’ u spinn’
(di timp’ (d)i ‘na vota) esprime un bisogno struggente di tornare a gustare un
chi o un che cosa, che una volta mi ha deliziato e che, in questo momento,
vorrei riassaporare.
Alcuni esempi di parole del dialetto amendolarese
Abbusc-care, procurarsi qualcosa di
necessario, andando alla ricerca. Si può rendere anche: andar per
boschi, per il fatto che βοσκή significa: pascolo, nutrimento
e βόσκω: pascolo, mangio, mi nutro di. Quando la fame mordeva, si andava
in campagna alla ricerca di verdure spontanee, di funghi, tendendo trappole
ecc.
Catui’, è parola che si usa in alcuni
paesi dell’Alto-Jonio e indica il seminterrato usato a magazzino, stalla o
pollaio. Sorprende che non abbia il significato di κατ-οικία: dimora,
abitazione, ma è stata formata con calchi greci: κατά: giù, in basso
e οἶκος: casa,
abitazione, dimora, antro.
Ceramil’, indicano le tegole, i
coppi e derivano da κεραμίς κεραμίδος: tegola.
Cirasa, è parola ricalcata da τό
κεράσιον: ciliegia.
Cofana, indica una cesta piena e si
collega a κόφινος: canestro, cesta.
Crai, significa: domani, da
collegare a cras dei latini, che si può tradurre: scorre il passare
dal mancare, volendo significare che, a causa della notte, periodo di
riposo, le attività vengono rinviate.
Crupu, fu ricalcato da κόπρος: sterco.
È avvenuta, da un punto di vista fonico, una metatesi di posizione, per cui da
κόπρος si è avuto κρόπος (cropo e, quindi, crupu).
Cullura, altrove anche tort’n’, è
una ciambella di pasta intrecciata, beneaugurante, preparata, per lo più, per
Pasqua. Il calco di riferimento è κολλύρα: focaccia, pane biscottato.
Furis’, (forese) era colui che viveva
nella masseria, addetto ai lavori particolarmente più duri e faticosi. Il calco
originario è sicuramente: φορός: che porta, che spinge, che, tra
l’altro, dette luogo a φορέω: porto, trasporto. Anche forte fu dedotto
da questa radice. C’è, inoltre, il calco più pertinente: φόρησις: il portare.
Lagana, da λάγανον: lagana, è una
sfoglia larga e sottile per preparare, in Grecia, la focaccia. Con questa
parola si indica, appunto, una sfoglia di pasta stesa con il mattarello
(laganatur’) per preparare tagliolini, tagliatelle ecc.
Macardi’, è espressione che indica: Dio
lo voglia! Fu dedotta dal calco greco: μακάριος: beato, felice e/o
da μακαρία: felicità, beatitudine. Anche l’esclamativo magari
rinvia agli stessi calchi.
Mappina, con il significato di straccio,
strofinaccio, fu dedotta dal latino mappa, che, a sua volta, fu
ricalcata da μάππα, con lo stesso significato di: tovagliolo, salvietta,
pannolino.
Scifo, è il trogolo del maiale e fu
ricalcato da σκύφος: tazza di legno. Da σκύφος fu dedotto schifo
della lingua italiana.
Scrima, indica la scriminatura dei
capelli e fu ricalcata da ἔκκριμα: ciò che viene
separato. In italiano ha dato luogo a discrimine e a discriminare.
Vacare, è verbo che si usa nel dialetto
di Aprigliano e fu ricalcata dal latino vaco vacas: sono non
occupato, sono libero di. Nel processo formativo della vita indica la
creatura in grembo che mangia e beve e che non fa nulla. Dal participio
presente vacans vacantis fu dedotta la parola italiana vacanza.
Invece, vacante del dialetto di Amendolara fu dedotto dalla radice vac,
che dette luogo a vacuus: vuoto, che indica il grembo senza la
creatura.
Vrazz’, le braccia è parola
ricalcata da: brachium, a sua volta dedotta dal greco: βραχίων
βραχίονος. Da vrazz’ si dedussero: vrazzat’ e abbrazz’.