di
Franco Astengo
Una
giornata tragica davvero, quella del 20 luglio, segnata in Italia da ben tre
morti sul lavoro tra Roma e Vado Ligure: una giornata che si inserisce in un
corollario di vittime che rappresenta quasi lo sgranare quotidiano di un
rosario del sacrificio. Viene voglia di collegare questi drammatici eventi con
l’annuale ricordo della strage di Marcinelle avvenuta l’8 agosto 1956.
Un appuntamento con la memoria quello di Marcinelle
che .in questo 2020 segnato dall’ansia del ritrovare la vita, si presenta
ancora sulla strada della testimonianza di ciò che si può ancora ben definire
martirio.
La nostra
mente è tornata così a tante altre tragedie di questa natura, figlie dei tempi
e dei modi di uno sfruttamento eternamente intensivo nella logica del profitto
più vorace.
C’è un film “Cristo
tra i muratori” del 1949 che riassume questa costante sempre rinnovata
evidenza dello sfruttamento e del sacrificio e che potrebbe rappresentarla
ancora adesso in questa presunta “modernità”.
Tratto dal
romanzo Crist in Concrete di Pietro
Di Donato, che ha cercato di coniugare, non senza difficoltà ideali cristiani e
prospettive marxiste, il film venne concluso in Inghilterra, a causa degli
ostacoli creati al registra per supposte “attività antiamericane”, e racconta
la misera vita di Geremia, un muratore italiano nella New York degli anni Venti.
L’incisiva recitazione degli attori e l’ambientazione sobria sono in forte
sintonia con le poetiche del neorealismo e ne fanno quasi un archetipo della
narrazione del dramma del lavoro strappato in cambio del rischio della vita.
Arriviamo così
alla memoria di Marcinelle.
L’8
agosto di 58 anni fa, 262 minatori, tra i quali 136 italiani, morirono nelle
miniere di carbone a Charleroi, in Belgio, a causa di un incendio. Ricordarli
oggi significa trovare nel quotidiano le ragioni che ci fanno ancora cercare
una nostra civiltà diversa da questa nella quale che il morire per lavorare fa
ancora parte della più stretta attualità. Abbiamo ancora davanti agli occhi una foto dove
l’ingresso della miniera di Marcinelle assomiglia tanto all’ingresso di un
lager e il pensiero corre immediatamente all’ “Arbeit macht frei”.
Da
Marcinelle, 8 agosto 1956, a Vigna Murata e a Vado Ligure 2020, si dimostra
ancora per intero la veridicità dell’analisi marxiana: i morti, i sacrificati
all’idea del profitto, in quel tempo come adesso, soltanto degli sfruttati
portati all’estremo sacrificio. Nella modernità di oggi tutto questo non è
finito: pensiamo alle lavoratrici e ai lavoratori esposti, in tutto il mondo,
al contagio della pandemia soltanto per ragioni di accumulo di mero profitto. Nel loro dramma si ascolta il
respiro del mondo, si misura l’idea di uno sviluppo capitalistico globale che
intensifica lo sfruttamento, scuote le relazioni tra le potenze, modifica i rapporti
di forza tra le classi, spinge i padroni a schiacciare i proletari.
Nell’Occidente sviluppato e maturo emergono tratti di vero e proprio “ritorno
all’indietro” alle condizioni sociali della prima rivoluzione industriale,
quelle descritte dalle pagine di Dickens o di Zola. Aumenta la pressione sulla
condizione operaia in Europa come in America, il Sud del mondo viene usato per
esasperare la concorrenza e costruire le condizioni dell’esercito di riserva,
si sviluppa la politica imperialista contro i salari. Non si possono coltivare
illusioni localiste, nazionaliste, protezioniste: la sola strategia per
ricostruire, in Occidente come altrove è quella di una visione
internazionalista rappresentativa di tutti gli sfruttati. La memoria di Marcinelle,
momento storico esemplare nell’idea della ferocia dello sfruttamento, si lega
strettamente a ciò che sta accadendo attorno a noi a Roma come a Vado come
altrove e può servire a segnare l’indispensabile costanza della memoria
richiamandoci all’altrettanto indispensabile costanza dell’impegno.