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sabato 4 luglio 2020

DIALOGHI
di Berta Corvi

Philippe Vilain

Berta Corvi conversa con Philippe Vilain  
  
Berta Corvi. La mia prima domanda riguarda un tema sul quale ti sei soffermato più volte, anche con fermezza: la cultura letteraria in un sistema di mercato democratico. Come affrontare le sfide poste dalla letteratura contemporanea, che si presenta in forme sempre nuove e diverse, per far fronte a un pubblico ampio e diversificato, in un momento in cui la cultura letteraria è costantemente soggetta a una pluralità di scelte e/o alla rivoluzione di Internet?

Philippe Vilain. A mio avviso, con la massima obiettività possibile, senza negazioni ideologiche e senza cedere a forme di rimpianto nostalgico o a profezie catastrofiche, la questione è che la letteratura contemporanea, calata nel contesto dei meccanismi di democratizzazione, iperproduzione e industrializzazione culturale, e soprattutto obbedendo a una logica di profitto, abbia perso il suo ideale letterario per inseguire un fine commerciale. Il paradosso è che, pur appartenendo effettivamente alla cultura di massa, la letteratura non si autodefinisce come intrattenimento culturale anche se, inevitabilmente, lo è diventata. Di certo, come affermo nei miei saggi La littérature sans idéal e La passion d’Orphée, gran parte della letteratura contemporanea ha abbandonato l’ideale estetico, la sacralità del suo linguaggio, la potenza della Parola, optando piuttosto per una scrittura di stampo giornalistico. La letteratura della scrittura è scomparsa favorendo una letteratura basata sul soggetto. Facendo proprie opere superflue e voci anonime dell’industria culturale, ha prodotto un surplus di informazioni, finendo per diventare il “reportage universale” profetizzato da Mallarmé e mantenendo solo un debole legame con la scrittura. Non è un caso, del resto, che una società dei consumi si rispecchi in una letteratura caratterizzata da un’iperproduzione che ne svilisce l’autorità e produce un’omologazione generalizzata: tutte le opere sono uguali e il dilettantismo si fa dominante. Chiunque scriva qualcosa viene riconosciuto come scrittore.

C. Non dovremmo forse riproporre un dibattito pubblico sulla cultura - in questo caso la cultura letteraria - e su temi come libertà, educazione, autorità e gusto, essenziali per chi riflette sul significato di “cultura” nel contesto di una società dei consumi e di una cultura di massa, in cui la letteratura, distorta e trasformata in mero oggetto di piacere e di svago, si perde, al punto che, secondo alcuni, viene ora venduta “a basso costo” nel mercato dei beni culturali?

V. Nella migliore delle ipotesi sarebbe certamente auspicabile un dibattito serio e costruttivo. Ma la letteratura, dopo aver acquisito basi solide, non è quasi mai oggetto di riflessione o dibattito tra i suoi stessi attori: gli scrittori. Ad ogni modo, credo che dovremmo indignarci, citando l’espressione che il grande Stéphane Hessel utilizza nel suo pamphlet Indignatevi!, facendo emergere la nostra coscienza critica, opponendoci alla mercificazione della letteratura e ripristinando un’etica dell’editoria per cui si pubblica meno, ma meglio. In particolare, andrebbe ripensata la segmentazione del mercato dei romanzi: il mercato francese dei romanzi non è segmentato, a differenza di quello americano, che è nettamente suddiviso in literary fiction (il romanzo letterario incentrato sulla scrittura), commercial fiction (il romanzo popolare concepito come intrattenimento) e upmarket fiction (romanzo, che combina aspetti letterari e di intrattenimento, rivolto al grande pubblico). Il problema è che il mercato francese dei romanzi non è segmentato e ciò alimenta l’illusione che tutta la produzione sia letteraria, con le parole di Molière e lo stile letterario di Proust. 


C. La letteratura si occupa di osservare e analizzare i comportamenti sociali. Non è la mera testimonianza di un’epoca, è anche il luogo in cui prendono forma le aspirazioni di un periodo storico. Spesso la letteratura dei secoli passati è stata accusata di essere eccessivamente teorica, e intellettuale e oscura, di focalizzarsi soprattutto sull’introspezione psicologica, di interessarsi troppo ai meccanismi dell’interiorità, di essere eccessivamente aristocratica, rivolgendosi solo agli strati sociali da cui era nata, nonché di apparire, specie a partire dal Romanticismo, piuttosto indebolita. La missione della letteratura è di nobilitare i nostri pensieri, sentimenti e azioni. Se ciò non avviene, cosa ci si può aspettare da un pubblico che rimane affascinato dai modelli peggiori? Come può un autore contribuire a migliorare la società? La letteratura può veramente influenzare il dinamismo sociale? Quali sono gli ostacoli che la rendono inefficace?

V. Il dilagare della cultura dello spettacolo influisce in misura considerevole sui meccanismi della letteratura. Rendere la letteratura accessibile al maggior numero possibile di persone è fondamentale, a condizione che al pubblico venga offerta una letteratura degna di questo nome. Provenendo da un ambiente modesto, privo di cultura letteraria, se mi fossi limitato a leggere le riviste e i pochi libri di letteratura popolare diffusi tra il mio entourage, non avrei mai studiato Lettere e non sarei mai diventato uno scrittore. Solo grazie alla curiosità di affrontare una letteratura complessa, all’impegno e al desiderio di sforzami per capire il mondo, sono riuscito a migliorare la mia condizione. Come hai detto tu, la missione della letteratura è di nobilitare ed elevare il nostro spirito. Non è la letteratura che deve trovare noi, siamo noi a doverla cercare, elevando il nostro spirito e sforzandoci di comprenderla. La letteratura popolare, avvalendosi di tecniche semplicistiche, è concepita demagogicamente per sedurre il pubblico di massa, favorendo l’illusione intimistica di un’autentica passione per i libri. In realtà, le letture proposte sono sempre le stesse. Nulla viene messo in discussione e nulla è capace di sviluppare uno spirito critico. Questo tipo di letteratura mantiene il pubblico nello stato in cui l’ha trovato. Secondo me, invece, la lettura implica un’azione, un superamento di sé, una forma di trascendenza. La letteratura deve lavorare sul lettore con la stessa forza impiegata da “un colpo d’ascia nel mare ghiacciato che è dentro di noi”, come diceva Kafka. Dovrebbe trasformarci, non distrarci. Questa letteratura impegnativa e profonda si trova in libri molto accessibili come, ad esempio, Lo straniero di Camus, Lettera al padre di Kafka, Uomini e topi di Steinbeck. Questi testi brevi, essenziali, ma potenti, che costano meno dei mattoni best seller, consentono di comprendere il mondo, l’umanità. È per questo che auspico una condizione di “elitarismo per tutti”.

Vilain nel suo studio

C.
Secondo te, ci stiamo muovendo verso una nuova oralità della letteratura? Non credi che alcuni concetti fondamentali della nostra cultura siano espressi attraverso il canto, il teatro e il cinema? Non ritieni che questo sia un enorme sistema culturale basato sulla comunicazione non scritta e non inquadrato in un sistema educativo, e che, per sua natura, rimane intrappolato in schemi ripetitivi in una continua espansione? Non è inquietante che nel contesto odierno la conoscenza e la pratica linguistica siano oralizzate e che alla dimensione orale della cultura venga attribuita la massima importanza?

V. La letteratura, in effetti, si sta oralizzando. Il motivo per cui così tante persone scrivono e riescono a pubblicare, nonostante il calo dei lettori e la disaffezione nei confronti della cultura letteraria, sta nel fatto che la letteratura si presenta sempre di più come un mezzo di espressione, operando una volgarizzazione della parola scritta ed esaltando l’espressione piuttosto che la scrittura. Esprimersi non richiede le capacità letterarie, la pratica rigorosa e la conoscenza della storia della letteratura che, invece, sono essenziali per scrivere. Pertanto, qualsiasi persona che parlando esprima qualcosa oggi può appropriarsi della letteratura intesa nel senso più ampio del termine. L’oralità produce una letteratura commerciale densa di dialoghi e caratterizzata da una scrittura semplificata ridotta alle più elementari forme di espressione, a tecniche di base, a testi facili da scrivere e da leggere, basati sull’alternanza tra descrizione dell’azione e dialogo. Nella letteratura commerciale non esistono passaggi che stimolano la riflessione e le descrizioni letterarie sono prive di complessità. Dovremmo essere preoccupati per questa oralizzazione della cultura? Non saprei. Credo semplicemente che questo fenomeno non farà che aumentare in proporzioni significative le differenze sociali tra le classi culturalmente dominanti, che hanno la capacità di accedere al potere della parola scritta, e quelle culturalmente dominate, che, per comodità, mancanza di spirito critico e di libertà di scelta, purtroppo sceglieranno l’oralità.


C. Sei un autore di grande rilievo sia in Francia che in Italia. Sei dei tuoi romanzi, Faux-père (trad. Falso padre), Confessiond’un timide (trad. Quadernetto sulla timidezza), Pas son genre (trad. Non il suo tipo), La femme infidèle (trad. La moglie infedele), La fille à la voiture rouge (trad. La ragazza dalla macchina rossa) e Un matin d’hiver (trad. Un mattino d’inverno), sono stati tradotti dall’editore italiano Gianni Gremese. Queste traduzioni ti hanno portato al successo nel nostro Paese. Sei anche il direttore della collana “Narratori Francesi Contemporanei” edita da Gremese. Se non sbaglio, è l’unica raccolta di letteratura francese diretta da uno scrittore francese. Aggiungiamo a questo il premio Scrivere per amore che ti è stato conferito nel 2012 a Verona dal presidente della giuria Vittorio Sgarbi e l’adattamento cinematografico di Non il suo tipo in Italia, diventato Sarà il mio tipo? E altri discorsi sull’amore, un film che ha riscosso un notevole successo. Grazie alle traduzioni di pubblicazioni recenti, i lettori italiani hanno così l’opportunità di scoprire le opere e gli autori francesi più interessanti del momento, accedendo a una letteratura molto più ricca di quanto ci si aspetti. Non sarebbe una buona occasione per rafforzare la cooperazione culturale franco-italiana, rendendola più visibile e proficua? Qual è la missione del direttore di una collana? Il tuo lavoro punta a creare una sorta di famiglia letteraria?

V. Certamente, è questa la mia missione: rafforzare la cooperazione franco-italiana, che peraltro si inserisce in un’antica tradizione di scambio tra i due Paesi, in particolare attraverso eventi culturali e scambi di residenza tra artisti e scrittori. A questo proposito, è importante ricordare il lavoro straordinario degli editori italiani e, in particolare, quello di Gianni Gremese che ha avuto l’audacia, in un contesto economico difficile per l’editoria, di creare la splendida collana Narratori Francesi Contemporanei, con l’obiettivo di promuovere la letteratura francese in collaborazione con l’Ambasciata di Francia, gli Instituts e le Alliances françaisese le università italiane. Il mio obiettivo non è di intensificare la produzione ma, soprattutto, di trasmettere una concezione impegnativa della letteratura in un panorama in cui la letteratura commerciale regna sovrana, anche se è stata fortemente scossa dalle conseguenze della pandemia. Desidero aumentare la visibilità della letteratura più impegnativa e degli scrittori francesi di talento, che offrono una scrittura di qualità, tra cui autori meno conosciuti (presto pubblicheremo Trancher, il romanzo della giovane scrittrice promettente Amélie Cordonnier), o altri più noti che in Italia non sono mai stati tradotti o non lo sono più, come ad esempio, Le dernier hiver du Cid di Jérôme Garcin che racconta, con una scrittura di rara qualità, molto in stile francese, gli ultimi giorni dell’attore Gérard Philipe. Sono consapevole che è un compito di grande rilevanza e complessità, ma voglio credere che ci sia ancora un posto, almeno simbolico, per questo tipo di letteratura, sempre che riusciamo a trovare i mezzi per promuoverla. È questa categoria di letteratura impegnativa che desidero promuovere con la mia immagine.

C. A proposito degli standard elevati e rigorosi che imponi ai tuoi testi teorici e letterari, permettimi di citare Un mattino d’inverno. Il tuo ultimo romanzo, scritto in modo eccezionale, con uno stile ricercato e impeccabile, e con una trama geniale e ben strutturata, è stato un vero successo e sicuramente sarà fonte d’ispirazione per tutti! Dalla tua penna fuoriesce la testimonianza di una lettrice che hai conosciuto durante un convegno universitario. Nelle tue pagine racconti l’enigmatica scomparsa di Dan, il marito di Julie, e descrivi in modo efficace e incisivo la vita dell’eroina. Il romanzo si sofferma in modo attento sui pensieri di questa donna, sconvolta e destabilizzata, che si tormenta l’anima con una serie di dubbi e interrogativi circa il suo comportamento. Philippe, ti sei magistralmente calato nei panni della protagonista portandola a esprimere la sua confessione, il suo disagio, il sovraccarico emotivo che ha affrontato. È stato difficile per te immedesimarti in un personaggio femminile?

V. Questa è un’ottima domanda, che implica anche una riflessione più generale sulle questioni di genere nella scrittura. Per quanto mi riguarda, non credo che esista un tipo di scrittura maschile e uno femminile. Tuttavia, ritengo che su alcuni temi uomini e donne non condividono la stessa esperienza. Un uomo, ad esempio, non è in grado di descrivere la maternità nel modo efficace in cui lo farebbe una donna. Di conseguenza, non tutti i temi possono essere affrontati a priori da entrambi i sessi. Questo vale anche quando si scrive nei panni di un personaggio di un sesso differente dal proprio. È vero che le parole che ho utilizzato in Un mattino d’inverno appartengono a una donna, ma credo che non sarebbero state molto diverse se a pronunciarle, al contrario, fosse stato un uomo di fronte alla scomparsa di sua moglie. Spesso la parola scaturisce indipendentemente dal genere sessuale a cui apparteniamo. È una parola ontologica che proviene dal profondo del nostro io, dalle zone più remote del nostro essere. In un certo senso, parliamo attraverso gli eventi, i dolori e le gioie della nostra esperienza, e ci immedesimiamo nei personaggi letterari, sia maschili che femminili, perché riconosciamo gli stessi sentimenti ed emozioni che anche noi abbiamo vissuto. È solo grazie alla sua sensibilità e alle sue capacità empatiche che lo scrittore riesce a dare forma a un personaggio. È così che ho dipinto questa donna: in realtà, nel descriverla, più che in una donna mi sono immedesimato in un essere sofferente, una persona afflitta dalla scomparsa di un suo caro. In lei si materializzano tutte le perdite e i dolori della sua vita. Ritengo che il compito della scrittura sia di perseguire questa universalità.


C. Il tema dell’amore è al centro della tua scrittura da più di 23 anni. Com’è cambiato il tuo modo di raccontare questo sentimento nel corso degli anni? Ritieni che ci sia stata un’evoluzione tra il tuo primo romanzo, “L’Éntreinte” (1997, Gallimard) e l’ultimo “Un mattino d’inverno” (2019, Grasset - 2020, Gremese)? A livello stilistico, pensi di esprimere le tue sensazioni e i tuoi pensieri in modo diverso? 

V. In effetti, ho sempre scritto di amore, fin da quando ho iniziato a scrivere all’età di 18 anni. Il tema dell’amore mi affascina particolarmente, perché l’amore, l’incontro con l’Altro, che mette in discussione il nostro io e il senso stesso dell’esistenza, è uno dei momenti più importanti della nostra vita. Ad esempio, il mio primo romanzo inedito, intitolato Les murs sans fenêtre, che ho riportato alla luce su richiesta di un ricercatore universitario, già trattava in modo rudimentale di una storia d’amore. Mi rendo conto che in tutti questi anni non ho fatto altro che scrivere lo stesso romanzo, e come Moravia, di cui ammiro l’opera, mi sono concentrato sull’amore coniugale, sull’innamoramento, sullo smarrimento e la disillusione, nonché sulla grammatica dei sentimenti: il pudore nell’esprimere i propri sentimenti, l’ossessione della gelosia, il senso di colpa per amare troppo o non amare abbastanza, la paura di un impegno serio, il desiderio di paternità, il pensiero dell’adulterio, la vergogna per la differenza sociale e culturale o per la differenza d’età, il senso di mancanza. I miei romanzi, simili a favole morali con una fabula essenziale, sono caratterizzati da una povertà strutturale che ne fa emergere il dramma intrinseco: nei miei romanzi non accade quasi nulla. Sono pochi i colpi di scena, i dialoghi e le descrizioni delle azioni. Ciò che li anima è soprattutto un rapporto d’amore che si evolve inesorabilmente verso la fine. Indagando le passioni dell’anima, questi romanzi rivisitano l’estetica classica, cercando di recuperare il senso della complessità e della tragedia dell’amore. Nonostante dal mio primo romanzo L’Éntreinte (1997) a Un mattino d’inverno (2019) la mia visione dell’amore si sia naturalmente trasformata, tutti i miei romanzi si nutrono di una paradossale visione romantica dell’amore, che io chiamo il mio romanticismo senza illusioni. Come me, i miei narratori sono lucidi sognatori che si appassionano, ma non riescono a non pensare che quella passione prima o poi finirà e non sempre sono in grado di abbandonarsi al presente. Per loro al desiderio di amore e di passione si associa anche un bisogno più profondo di oblio.

C. Durante i loro brevi soggiorni o i lunghi viaggi nella penisola italiana, gli scrittori francesi spesso hanno elaborato descrizioni e racconti disseminati di impressioni: Lamartinein Meditazioni evoca le sue “sensazioni”; Zola, nel suo romanzo Roma, dimostra di essere un acuto osservatore, nonché uno dei primi ad aver analizzato la cultura italiana; Sade fa iniziare Viaggio in Italia con un’attenta disamina delle varie realtà italiane; Chateaubriand scorge la sua Bretagna natale nelle cascate di Tivoli e, di fronte alle tombe della Via Appia, riflette sullo stato di smarrimento in cui versano le civiltà; in Roma, Napoli e Firenze Stendhal racconta di aver provato un’ebbrezza simile a una sorta di “follia”, che successivamente verrà definita sindrome di Stendhal. Grazie ai racconti dei suoi viaggi in opere come Il CorricoloLe Speronare Une année à Florence, Dumas (padre) è considerato il primo grande resocontista francese di viaggi. Questo interesse degli scrittori francesi per l’Italia è proseguito fino al XX secolo. Venezia è al centro di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust ed è la principale fonte di ispirazione per Henri de Régnier e Maurice Barrès. In LesItaliens d’aujourd’hui, René Bazin descrive i quartieri poveri di Napoli. Questa città sembra essere la culla di vari intellettuali francesi. Anche tu sei appassionato dell’Italia e soprattutto di “Napule”, come dicono a gran voce i napoletani. Questa passione per Napoli ti ha fornito spunti di riflessione? In qualche modo, è passata attraverso la tua scrittura? Come spieghi questa forza che ha Napoli e che le altre città sembrano non avere?

Philippe Vilain

V.
Dal Romanticismo con i Grand Tour alla fine del XVIII secolo, gli scrittori francesi sono sempre stati attratti dall’Italia. Potrei continuare la tua lista con nomi di scrittori contemporanei che hanno seguito le tracce dei loro illustri predecessori, come Dominique Fernandez, Patrick Modiano, Annie Ernaux, Philippe Sollers, ecc. L’Italia ci ammalia e ci impressiona perché ci fa entrare nella bellezza, proiettandoci in una sorta di oblio temporale. Per quanto mi riguarda, pur apprezzando molte città italiane, come la sobria Torino, non mi sento cittadino di nessuna, se non di Napoli. Solo di Napoli, che per me non è soltanto una città, è molto di più. È la città in cui mi sono sentito subito a casa e dove mi sono poi trasferito. Come scriveva Stendhal, il più italiano tra gli scrittori francesi, “la vera patria è quella dove si incontrano più persone che ti assomigliano”. Se questo è vero, allora la mia patria è Napoli, perché i napoletani sono le persone che mi assomigliano di più, quelli con cui la mia anima fraternizza. Porto Napoli nel cuore, come se fosse un amore, una passione forte. I napoletani fanno parte della mia anima, come se fossero miei fratelli. Quello che mi piace di più di Napoli è la sua autenticità. Questa città non cerca di compiacere nessuno, ma mostra il suo splendore al suo stato naturale, senza alcuna ostentazione urbana, senza sottomettersi culturalmente alle logiche della globalizzazione: Napoli conserva il suo carattere, la sua passione, la sua esclusività, le sue peculiarità (si parla tanto napoletano quanto italiano) e la sua forte personalità, che se non ti vampirizza ti respinge. Napoli non vuole essere amata, né diventare qualcos’altro, anche se, in effetti è caratterizzata da una diversità intrinseca. Potremmo dire che “Napoli è un’altra cosa”. Inoltre, sotto molti aspetti, Napoli potrebbe non essere considerata una città italiana. I napoletani si sentono giustamente abbandonati. Ultimamente molte cose mi hanno fatto indignare, come ad esempio, il disprezzo che la gente prova per questa città, il facile moralismo della serie Gomorra e l’autore commerciale Saviano che riduce una città alla delinquenza e ai sentimenti negativi. Ma Napoli sa rinascere sempre dalle ceneri, perché possiede una grande nobiltà d’animo. È una città in cui uomini e donne esprimono amore, tolleranza, aiuto reciproco e solidarietà, l’esatto opposto di tutti gli stereotipi negativi che molti le attribuiscono. A Napoli non si scende a compromessi quando si parla di ospitalità umana e infatti, in opposizione al governo locale, molti migranti sono stati accolti. Nonostante le difficoltà economiche, non volevamo essere complici di una strage, non volevamo assistere a “un bagno di sangue”, come ha ben espresso con ammirevole forza poetica Luigi de Magistris durante il suo discorso all’Institut français il 14 luglio 2018. Napoli ha un forte senso di umanità. Forse è “l’ultima speranza dell’umanità”, come diceva Luciano de Crescenzo, regista di Così parlò Bellavista. Nel mio libro, Mille couleurs de Naples, ho voluto rendere omaggio a Napoli, la mia città d’adozione, restituendole il posto che le spetta nel cuore delle persone.