Philippe Vilain |
Berta Corvi conversa con Philippe Vilain
Berta Corvi. La mia prima
domanda riguarda un tema sul quale ti sei soffermato più volte, anche con
fermezza: la cultura letteraria in un sistema di mercato democratico. Come
affrontare le sfide poste dalla letteratura contemporanea, che si presenta in
forme sempre nuove e diverse, per far fronte a un pubblico ampio e
diversificato, in un momento in cui la cultura letteraria è costantemente
soggetta a una pluralità di scelte e/o alla rivoluzione di Internet?
Philippe Vilain. A
mio avviso, con la massima obiettività possibile, senza negazioni ideologiche e
senza cedere a forme di rimpianto nostalgico o a profezie catastrofiche, la
questione è che la letteratura contemporanea, calata nel contesto dei
meccanismi di democratizzazione, iperproduzione e industrializzazione
culturale, e soprattutto obbedendo a una logica di profitto, abbia perso il suo
ideale letterario per inseguire un fine commerciale. Il paradosso è che, pur
appartenendo effettivamente alla cultura di massa, la letteratura non si
autodefinisce come intrattenimento culturale anche se, inevitabilmente, lo è
diventata. Di certo, come affermo nei miei saggi La littérature sans idéal e La passion d’Orphée, gran parte
della letteratura contemporanea ha abbandonato l’ideale estetico, la sacralità
del suo linguaggio, la potenza della Parola, optando piuttosto per una
scrittura di stampo giornalistico. La letteratura della scrittura è scomparsa
favorendo una letteratura basata sul soggetto. Facendo proprie opere superflue e
voci anonime dell’industria culturale, ha prodotto
un surplus di informazioni, finendo per diventare il “reportage universale”
profetizzato da Mallarmé e mantenendo solo un debole legame con la scrittura.
Non è un caso, del resto, che una società dei consumi si rispecchi in una
letteratura caratterizzata da un’iperproduzione che ne svilisce l’autorità e
produce un’omologazione generalizzata: tutte le opere sono uguali e il
dilettantismo si fa dominante. Chiunque scriva qualcosa
viene riconosciuto come scrittore.
C. Non dovremmo forse riproporre un
dibattito pubblico sulla cultura - in questo caso la cultura letteraria - e su
temi come libertà, educazione, autorità e gusto, essenziali per chi riflette
sul significato di “cultura” nel contesto di una società dei consumi e di una
cultura di massa, in cui la letteratura, distorta e trasformata in mero oggetto
di piacere e di svago, si perde, al punto che, secondo alcuni, viene ora
venduta “a basso costo”
nel mercato dei beni culturali?
V.
Nella migliore delle ipotesi sarebbe certamente auspicabile un dibattito serio
e costruttivo. Ma la letteratura, dopo aver acquisito basi solide, non è quasi
mai oggetto di riflessione o dibattito tra i suoi stessi attori: gli scrittori.
Ad ogni modo, credo che dovremmo indignarci,
citando l’espressione che il grande Stéphane Hessel utilizza nel
suo pamphlet Indignatevi!, facendo
emergere la nostra coscienza critica, opponendoci alla mercificazione della
letteratura e ripristinando un’etica dell’editoria per cui si pubblica meno, ma
meglio. In particolare, andrebbe ripensata la segmentazione del mercato dei
romanzi: il mercato francese dei romanzi non è segmentato, a differenza di
quello americano, che è nettamente suddiviso in literary fiction (il
romanzo letterario incentrato sulla scrittura), commercial fiction (il
romanzo popolare concepito come intrattenimento) e upmarket fiction (romanzo,
che combina aspetti letterari e di intrattenimento, rivolto al grande
pubblico). Il problema è che il mercato francese dei romanzi non è segmentato e
ciò alimenta l’illusione che tutta la produzione sia letteraria, con le parole
di Molière e lo stile letterario di Proust.
C. La letteratura si occupa di osservare e analizzare i
comportamenti sociali. Non è la mera testimonianza di un’epoca, è anche il
luogo in cui prendono forma le aspirazioni di un periodo storico. Spesso la
letteratura dei secoli passati è stata accusata di essere eccessivamente
teorica, e intellettuale e oscura, di focalizzarsi soprattutto
sull’introspezione psicologica, di interessarsi troppo ai meccanismi
dell’interiorità, di essere eccessivamente aristocratica, rivolgendosi
solo agli strati sociali da cui era nata, nonché di apparire, specie a partire
dal Romanticismo, piuttosto indebolita. La missione della letteratura è di
nobilitare i nostri pensieri, sentimenti e azioni. Se ciò non avviene,
cosa ci si può aspettare da un pubblico che rimane affascinato dai modelli
peggiori? Come può un autore contribuire a migliorare la società? La
letteratura può veramente influenzare il dinamismo sociale? Quali sono gli
ostacoli che la rendono inefficace?
V.
Il dilagare della cultura dello spettacolo influisce in misura considerevole
sui meccanismi della letteratura. Rendere la letteratura accessibile al maggior
numero possibile di persone è fondamentale, a condizione che al pubblico venga
offerta una letteratura degna di questo nome. Provenendo da un ambiente
modesto, privo di cultura letteraria, se mi fossi limitato a leggere le riviste
e i pochi libri di letteratura popolare diffusi
tra il mio entourage, non avrei mai studiato Lettere e non sarei mai diventato
uno scrittore. Solo grazie alla curiosità di affrontare una letteratura
complessa, all’impegno e al desiderio di sforzami per capire il mondo, sono
riuscito a migliorare la mia condizione. Come hai detto tu, la missione della
letteratura è di nobilitare ed elevare il nostro spirito. Non è la letteratura
che deve trovare noi, siamo noi a doverla cercare, elevando il nostro spirito e
sforzandoci di comprenderla. La letteratura popolare, avvalendosi di tecniche
semplicistiche, è concepita demagogicamente per sedurre il pubblico di massa,
favorendo l’illusione intimistica di un’autentica passione per i libri. In
realtà, le letture proposte sono sempre le stesse. Nulla viene messo in discussione
e nulla è capace di sviluppare uno spirito critico. Questo tipo di letteratura
mantiene il pubblico nello stato in cui l’ha trovato. Secondo me, invece, la
lettura implica un’azione, un superamento di sé, una forma di trascendenza. La
letteratura deve lavorare sul lettore con la stessa forza impiegata da “un
colpo d’ascia nel mare ghiacciato che è dentro di noi”, come diceva Kafka.
Dovrebbe trasformarci, non distrarci. Questa letteratura impegnativa e profonda
si trova in libri molto accessibili come, ad esempio, Lo straniero di Camus, Lettera al padre di
Kafka, Uomini e topi di
Steinbeck. Questi testi brevi, essenziali, ma potenti, che costano meno dei
mattoni best seller, consentono di comprendere il mondo, l’umanità. È per
questo che auspico una condizione di “elitarismo per tutti”.
Vilain nel suo studio |
C. Secondo te, ci stiamo muovendo verso una nuova oralità della letteratura? Non credi che alcuni concetti fondamentali della nostra cultura siano espressi attraverso il canto, il teatro e il cinema? Non ritieni che questo sia un enorme sistema culturale basato sulla comunicazione non scritta e non inquadrato in un sistema educativo, e che, per sua natura, rimane intrappolato in schemi ripetitivi in una continua espansione? Non è inquietante che nel contesto odierno la conoscenza e la pratica linguistica siano oralizzate e che alla dimensione orale della cultura venga attribuita la massima importanza?
V.
La letteratura, in effetti, si sta oralizzando. Il motivo per cui così
tante persone scrivono e riescono a pubblicare, nonostante il calo dei lettori
e la disaffezione nei confronti della cultura letteraria, sta nel fatto che la
letteratura si presenta sempre di più come un mezzo di espressione, operando
una volgarizzazione della parola scritta ed esaltando l’espressione piuttosto
che la scrittura.
Esprimersi non richiede le capacità letterarie, la pratica rigorosa e la
conoscenza della storia della letteratura che, invece, sono essenziali per
scrivere. Pertanto, qualsiasi persona che parlando
esprima qualcosa oggi può appropriarsi della
letteratura intesa nel senso più ampio del termine. L’oralità produce una
letteratura commerciale densa di dialoghi e caratterizzata da una scrittura
semplificata ridotta alle più elementari forme di espressione, a tecniche di
base, a testi facili da scrivere e da leggere, basati sull’alternanza tra
descrizione dell’azione e dialogo. Nella letteratura commerciale non esistono
passaggi che stimolano la riflessione e le descrizioni letterarie sono prive di
complessità. Dovremmo essere preoccupati per
questa oralizzazione della cultura? Non saprei. Credo semplicemente
che questo fenomeno non farà che aumentare in proporzioni significative le
differenze sociali tra le classi culturalmente dominanti, che hanno la capacità
di accedere al potere della parola scritta, e quelle culturalmente
dominate, che, per comodità, mancanza di spirito critico e di libertà di
scelta, purtroppo sceglieranno l’oralità.
C. Sei un autore di grande rilievo sia in
Francia che in Italia. Sei dei tuoi romanzi, Faux-père (trad. Falso padre), Confessiond’un timide (trad. Quadernetto sulla timidezza), Pas son genre (trad. Non il suo tipo), La femme infidèle (trad. La moglie infedele), La fille à la voiture rouge (trad. La ragazza dalla macchina rossa) e Un matin d’hiver (trad. Un mattino d’inverno), sono
stati tradotti dall’editore italiano Gianni Gremese. Queste
traduzioni ti hanno portato al successo nel nostro Paese. Sei anche il
direttore della collana “Narratori Francesi Contemporanei” edita
da Gremese. Se non sbaglio, è l’unica raccolta di letteratura francese
diretta da uno scrittore francese. Aggiungiamo a questo il premio Scrivere per amore che ti è
stato conferito nel 2012 a Verona dal presidente della giuria Vittorio Sgarbi e
l’adattamento cinematografico di Non il suo tipo in
Italia, diventato Sarà il mio tipo? E altri
discorsi sull’amore, un film che ha riscosso un
notevole successo. Grazie alle traduzioni di pubblicazioni recenti, i lettori
italiani hanno così l’opportunità di scoprire le opere e gli autori francesi
più interessanti del momento, accedendo a una letteratura molto più ricca di
quanto ci si aspetti. Non sarebbe una buona occasione per rafforzare la
cooperazione culturale franco-italiana, rendendola più visibile e
proficua? Qual è la missione del direttore di una collana? Il tuo lavoro
punta a creare una sorta di famiglia letteraria?
V. Certamente, è questa la mia missione:
rafforzare la cooperazione franco-italiana, che peraltro si inserisce in
un’antica tradizione di scambio tra i due Paesi, in particolare attraverso
eventi culturali e scambi di residenza tra artisti e scrittori. A questo
proposito, è importante ricordare il lavoro straordinario degli editori
italiani e, in particolare, quello di Gianni Gremese che ha avuto
l’audacia, in un contesto economico difficile per l’editoria, di creare la
splendida collana Narratori Francesi Contemporanei, con l’obiettivo di
promuovere la letteratura francese in collaborazione con l’Ambasciata di
Francia, gli Instituts e le Alliances françaisese le
università italiane. Il mio obiettivo non è di intensificare la produzione ma,
soprattutto, di trasmettere una concezione impegnativa della letteratura in un
panorama in cui la letteratura commerciale regna sovrana, anche se è stata
fortemente scossa dalle conseguenze della pandemia. Desidero aumentare la
visibilità della letteratura più impegnativa e degli scrittori francesi di
talento, che offrono una scrittura di qualità, tra cui autori meno conosciuti
(presto pubblicheremo Trancher,
il romanzo della giovane scrittrice promettente Amélie Cordonnier), o
altri più noti che in Italia non sono mai stati tradotti o non lo sono più,
come ad esempio, Le
dernier hiver du Cid di Jérôme Garcin che
racconta, con una scrittura di rara qualità, molto in stile francese, gli
ultimi giorni dell’attore Gérard Philipe. Sono consapevole che è un
compito di grande rilevanza e complessità, ma voglio credere che ci sia ancora
un posto, almeno simbolico, per questo tipo di letteratura, sempre che
riusciamo a trovare i mezzi per promuoverla. È questa categoria di letteratura
impegnativa che desidero promuovere con la mia immagine.
C. A proposito degli standard elevati e
rigorosi che imponi ai tuoi testi teorici e letterari, permettimi di
citare Un mattino d’inverno. Il
tuo ultimo romanzo, scritto in modo eccezionale, con uno stile ricercato e
impeccabile, e con una trama geniale e ben strutturata, è stato un vero
successo e sicuramente sarà fonte d’ispirazione per tutti! Dalla tua penna
fuoriesce la testimonianza di una lettrice che hai conosciuto durante un
convegno universitario. Nelle tue pagine racconti l’enigmatica scomparsa di
Dan, il marito di Julie, e descrivi in modo efficace e incisivo la vita
dell’eroina. Il romanzo si sofferma in modo attento sui pensieri di questa
donna, sconvolta e destabilizzata, che si tormenta l’anima con una serie di
dubbi e interrogativi circa il suo comportamento. Philippe, ti sei
magistralmente calato nei panni della protagonista portandola a esprimere la
sua confessione, il suo disagio, il sovraccarico emotivo che ha affrontato. È
stato difficile per te immedesimarti in un personaggio femminile?
V. Questa è un’ottima domanda, che
implica anche una riflessione più generale sulle questioni di genere nella
scrittura. Per quanto mi riguarda, non credo che esista un tipo di scrittura
maschile e uno femminile. Tuttavia, ritengo che su alcuni temi uomini e donne
non condividono la stessa esperienza. Un uomo, ad esempio, non è in grado di
descrivere la maternità nel modo efficace in cui lo farebbe una donna. Di
conseguenza, non tutti i temi possono essere affrontati a priori da entrambi i
sessi. Questo vale anche quando si scrive nei panni di un personaggio di un
sesso differente dal proprio. È vero che le parole che ho utilizzato in Un mattino d’inverno appartengono
a una donna, ma credo che non sarebbero state molto diverse se a pronunciarle,
al contrario, fosse stato un uomo di fronte alla scomparsa di sua moglie.
Spesso la parola scaturisce indipendentemente dal genere sessuale a cui
apparteniamo. È una parola ontologica che proviene dal profondo del nostro io,
dalle zone più remote del nostro essere. In un certo senso, parliamo attraverso
gli eventi, i dolori e le gioie della nostra esperienza, e ci immedesimiamo nei
personaggi letterari, sia maschili che femminili, perché riconosciamo gli
stessi sentimenti ed emozioni che anche noi abbiamo vissuto. È solo grazie alla
sua sensibilità e alle sue capacità empatiche che lo scrittore riesce a dare
forma a un personaggio. È così che ho dipinto questa donna: in realtà, nel
descriverla, più che in una donna mi sono immedesimato in un essere sofferente,
una persona afflitta dalla scomparsa di un suo caro. In lei si materializzano
tutte le perdite e i dolori della sua vita. Ritengo che il compito della
scrittura sia di perseguire questa universalità.
C. Il tema dell’amore è al centro della
tua scrittura da più di 23 anni. Com’è cambiato il tuo modo di raccontare
questo sentimento nel corso degli anni? Ritieni che ci sia stata
un’evoluzione tra il tuo primo romanzo, “L’Éntreinte”
(1997, Gallimard) e l’ultimo “Un mattino
d’inverno” (2019, Grasset -
2020, Gremese)? A livello stilistico, pensi di esprimere le tue sensazioni
e i tuoi pensieri in modo diverso?
V.
In effetti, ho sempre scritto di amore, fin da quando ho iniziato a scrivere
all’età di 18 anni. Il tema dell’amore mi affascina particolarmente, perché
l’amore, l’incontro con l’Altro, che mette in discussione il nostro io e il
senso stesso dell’esistenza, è uno dei momenti più importanti della nostra
vita. Ad esempio, il mio primo romanzo inedito, intitolato Les murs sans fenêtre,
che ho riportato alla luce su richiesta di un ricercatore universitario, già
trattava in modo rudimentale di una storia d’amore. Mi rendo conto che in tutti
questi anni non ho fatto altro che scrivere lo stesso
romanzo, e come Moravia, di cui ammiro
l’opera, mi sono concentrato sull’amore coniugale, sull’innamoramento, sullo
smarrimento e la disillusione, nonché sulla grammatica dei sentimenti: il
pudore nell’esprimere i propri sentimenti, l’ossessione della gelosia, il senso
di colpa per amare troppo o non amare abbastanza, la paura di un impegno serio,
il desiderio di paternità, il pensiero dell’adulterio, la vergogna per la
differenza sociale e culturale o per la differenza d’età, il senso di mancanza.
I miei romanzi, simili a favole morali con una fabula essenziale, sono
caratterizzati da una povertà strutturale che ne fa emergere il dramma
intrinseco: nei miei romanzi non accade quasi nulla. Sono pochi i colpi di
scena, i dialoghi e le descrizioni delle azioni. Ciò che li anima è soprattutto
un rapporto d’amore che si evolve inesorabilmente verso la fine. Indagando le
passioni dell’anima, questi romanzi rivisitano l’estetica classica, cercando di
recuperare il senso della complessità e della tragedia
dell’amore. Nonostante dal mio primo romanzo L’Éntreinte (1997) a Un mattino d’inverno (2019)
la mia visione dell’amore si sia naturalmente trasformata, tutti i miei romanzi
si nutrono di una paradossale visione romantica dell’amore, che io chiamo il
mio romanticismo senza illusioni. Come me, i miei narratori sono lucidi
sognatori che si appassionano, ma non riescono a non pensare che quella
passione prima o poi finirà e non sempre sono in grado di abbandonarsi al
presente. Per loro al desiderio di amore e di passione si associa anche un
bisogno più profondo di oblio.
C. Durante i loro brevi soggiorni o i
lunghi viaggi nella penisola italiana, gli scrittori francesi spesso hanno
elaborato descrizioni e racconti disseminati di impressioni: Lamartinein Meditazioni evoca le
sue “sensazioni”; Zola, nel suo romanzo Roma,
dimostra di essere un acuto osservatore, nonché uno dei primi ad aver
analizzato la cultura italiana; Sade fa iniziare Viaggio in Italia con un’attenta
disamina delle varie realtà italiane; Chateaubriand scorge la sua
Bretagna natale nelle cascate di Tivoli e, di fronte alle tombe della Via
Appia, riflette sullo stato di smarrimento in cui versano le civiltà; in Roma, Napoli e Firenze Stendhal
racconta di aver provato un’ebbrezza simile a una sorta di “follia”, che
successivamente verrà definita sindrome di Stendhal. Grazie ai racconti dei
suoi viaggi in opere come Il Corricolo, Le Speronare o Une année à Florence, Dumas
(padre) è considerato il primo grande resocontista francese di viaggi. Questo
interesse degli scrittori francesi per l’Italia è proseguito fino al XX secolo.
Venezia è al centro di Alla ricerca
del tempo perduto di Marcel Proust ed è la
principale fonte di ispirazione per Henri de Régnier e
Maurice Barrès. In LesItaliens d’aujourd’hui,
René Bazin descrive i quartieri poveri di Napoli. Questa città
sembra essere la culla di vari intellettuali francesi. Anche tu sei
appassionato dell’Italia e soprattutto di “Napule”, come dicono a gran voce i
napoletani. Questa passione per Napoli ti ha fornito spunti di
riflessione? In qualche modo, è passata attraverso la tua scrittura? Come
spieghi questa forza che ha Napoli e che le altre città sembrano non avere?
Philippe Vilain |
V. Dal Romanticismo con i Grand Tour alla fine del XVIII secolo, gli scrittori francesi sono sempre stati attratti dall’Italia. Potrei continuare la tua lista con nomi di scrittori contemporanei che hanno seguito le tracce dei loro illustri predecessori, come Dominique Fernandez, Patrick Modiano, Annie Ernaux, Philippe Sollers, ecc. L’Italia ci ammalia e ci impressiona perché ci fa entrare nella bellezza, proiettandoci in una sorta di oblio temporale. Per quanto mi riguarda, pur apprezzando molte città italiane, come la sobria Torino, non mi sento cittadino di nessuna, se non di Napoli. Solo di Napoli, che per me non è soltanto una città, è molto di più. È la città in cui mi sono sentito subito a casa e dove mi sono poi trasferito. Come scriveva Stendhal, il più italiano tra gli scrittori francesi, “la vera patria è quella dove si incontrano più persone che ti assomigliano”. Se questo è vero, allora la mia patria è Napoli, perché i napoletani sono le persone che mi assomigliano di più, quelli con cui la mia anima fraternizza. Porto Napoli nel cuore, come se fosse un amore, una passione forte. I napoletani fanno parte della mia anima, come se fossero miei fratelli. Quello che mi piace di più di Napoli è la sua autenticità. Questa città non cerca di compiacere nessuno, ma mostra il suo splendore al suo stato naturale, senza alcuna ostentazione urbana, senza sottomettersi culturalmente alle logiche della globalizzazione: Napoli conserva il suo carattere, la sua passione, la sua esclusività, le sue peculiarità (si parla tanto napoletano quanto italiano) e la sua forte personalità, che se non ti vampirizza ti respinge. Napoli non vuole essere amata, né diventare qualcos’altro, anche se, in effetti è caratterizzata da una diversità intrinseca. Potremmo dire che “Napoli è un’altra cosa”. Inoltre, sotto molti aspetti, Napoli potrebbe non essere considerata una città italiana. I napoletani si sentono giustamente abbandonati. Ultimamente molte cose mi hanno fatto indignare, come ad esempio, il disprezzo che la gente prova per questa città, il facile moralismo della serie Gomorra e l’autore commerciale Saviano che riduce una città alla delinquenza e ai sentimenti negativi. Ma Napoli sa rinascere sempre dalle ceneri, perché possiede una grande nobiltà d’animo. È una città in cui uomini e donne esprimono amore, tolleranza, aiuto reciproco e solidarietà, l’esatto opposto di tutti gli stereotipi negativi che molti le attribuiscono. A Napoli non si scende a compromessi quando si parla di ospitalità umana e infatti, in opposizione al governo locale, molti migranti sono stati accolti. Nonostante le difficoltà economiche, non volevamo essere complici di una strage, non volevamo assistere a “un bagno di sangue”, come ha ben espresso con ammirevole forza poetica Luigi de Magistris durante il suo discorso all’Institut français il 14 luglio 2018. Napoli ha un forte senso di umanità. Forse è “l’ultima speranza dell’umanità”, come diceva Luciano de Crescenzo, regista di Così parlò Bellavista. Nel mio libro, Mille couleurs de Naples, ho voluto rendere omaggio a Napoli, la mia città d’adozione, restituendole il posto che le spetta nel cuore delle persone.