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martedì 14 luglio 2020

SPIGOLATURE
di Angelo Gaccione


Il fascino misterioso delle parole

Io sono letteralmente affascinato dal mistero delle parole, ed è anche per questa importante ragione che sono un difensore dei dialetti. Le lingue madri dialettali hanno, nel corso del tempo, operato un ricchissimo procedimento accumulativo, fino a fondere in un unico vocabolo, intere strutture lessicali. Questa accumulazione è divenuta così misterica, tanto che il senso stesso ha finito per diventare un rebus. Ed è una vera fascinosa avventura mettersi sulle tracce di questo rebus per decifrarlo; e quando la decifrazione avviene, la gioia è immensa: è come avere illuminato il fondo oscuro di una caverna. Naturalmente so bene che esse, le parole, non contengono alcun mistero e che la loro oscurità è dovuta alla corruzione che nel corso del tempo hanno subìto. È quasi certo che molte di esse, con la perdita del loro uso, diventeranno parole morte e non saranno più in grado di parlarci. Perché come ha ben detto il professor Santagada nel corso di una nostra conversazione telefonica, l’indagine deve giungere fino al limite in cui la parola “ci parla”. È un lavoro paziente, come sanno gli studiosi; ma come orientarsi se nessuno prima di noi ci ha lasciato almeno i segni di una possibile mappa? Prendiamo ad esempio una parola misteriosa come questa del dialetto della mia città, da tempo sparita dalla bocca delle nuove generazioni: ddiccinnidibbari

Acri, il Borgo di Padìa al tramonto
(Foto di Maria Gallo)

È una parola che va letta sdrucciola, ponendo l’accento sulla terzultima sillaba, e che ha subìto il processo accumulativo di cui ho detto più sopra. Per il lettore ignaro è come fosse un termine etrusco, e non sa da che parte raccapezzarsi. Il discorso vale per la maggior parte degli stessi abitanti del luogo, e dunque non susciti meraviglia se la sua “oscurità” è così fitta. Penai anch’io a suo tempo per venirne a capo, fino a quando non appresi da un anziano popolano poco alfabetizzato, che si trattava di una invocazione. Altro non seppe dirmi. Il fatto che si trattasse di una invocazione era una debole pista, ma era comunque una pista. In genere noi invochiamo i santi o i morti, ma qui non c’era traccia né degli uni né degli altri. Non mi restava che smontare la parola e vedere che cosa nascondesse nelle singole parti:

ddi – cci – nni – dibbari

ddi = ?

cci = ce

nni = a noi (ne)

dibbari = liberi

Il lemma ce ne liberi, mi presentava la scomposizione delle singole parti tradotte e ricomposte in lingua italiana; dunque, l’anziano mio concittadino era nel giusto nel sostenere che si trattava di una invocazione. Ma quel rafforzativo [ddi] posto a principio della parola restava oscuro. Che cosa si nascondeva dietro quelle due consonanti dentali accoppiate a quella semplice vocale [i]? Di chiaro c’era che si trattava di una invocazione, e dunque doveva essere rivolta a qualcuno. Mancava però il soggetto. Dove trovarlo non avendo a disposizione che un semplice monosillabo? Non mi ricordo più come avvenne la folgorazione di trasformare quel semplice suono, nell’Ente Supremo della tradizione biblica, Dio. Ecco qual era il soggetto misterioso che si nascondeva in quel banale monosillabo ddì, era Dio! La parola ora mi parlava, e la frase si svelava nel pieno del suo luminoso significato: Dio ce ne liberi!
Di questo arcano sono piene le parole delle lingue madri e non smetteranno di sorprenderci per la loro ricchezza e il loro mimetismo.