di
Angelo Gaccione
Il fascino misterioso delle parole
Io sono letteralmente affascinato
dal mistero delle parole, ed è anche per questa importante ragione che sono un
difensore dei dialetti. Le lingue madri dialettali hanno, nel corso del tempo,
operato un ricchissimo procedimento accumulativo, fino a fondere in un unico
vocabolo, intere strutture lessicali. Questa accumulazione è divenuta così
misterica, tanto che il senso stesso ha finito per diventare un rebus. Ed è una
vera fascinosa avventura mettersi sulle tracce di questo rebus per decifrarlo;
e quando la decifrazione avviene, la gioia è immensa: è come avere illuminato
il fondo oscuro di una caverna. Naturalmente so bene che esse, le parole, non
contengono alcun mistero e che la loro oscurità è dovuta alla corruzione che
nel corso del tempo hanno subìto. È quasi certo che molte di esse, con la
perdita del loro uso, diventeranno parole morte e non saranno più in grado di
parlarci. Perché come ha ben detto il professor Santagada nel corso di una
nostra conversazione telefonica, l’indagine deve giungere fino al limite in cui
la parola “ci parla”. È un lavoro paziente, come sanno gli studiosi; ma come
orientarsi se nessuno prima di noi ci ha lasciato almeno i segni di una
possibile mappa? Prendiamo ad esempio una parola misteriosa come questa del
dialetto della mia città, da tempo sparita dalla bocca delle nuove generazioni: ddiccinnidibbari.
Acri, il Borgo di Padìa al tramonto (Foto di Maria Gallo) |
È una parola che va letta sdrucciola, ponendo
l’accento sulla terzultima sillaba, e che ha subìto il processo accumulativo di
cui ho detto più sopra. Per il lettore ignaro è come fosse un termine etrusco,
e non sa da che parte raccapezzarsi. Il discorso vale per la maggior parte
degli stessi abitanti del luogo, e dunque non susciti meraviglia se la sua
“oscurità” è così fitta. Penai anch’io a suo tempo per venirne a capo, fino a quando non appresi da un anziano popolano poco alfabetizzato, che si trattava di
una invocazione. Altro non seppe dirmi. Il fatto che si trattasse di una
invocazione era una debole pista, ma era comunque una pista. In genere noi
invochiamo i santi o i morti, ma qui non c’era traccia né degli uni né degli
altri. Non mi restava che smontare la parola e vedere che cosa nascondesse
nelle singole parti:
ddi – cci – nni – dibbari
ddi = ?
cci = ce
nni = a noi (ne)
dibbari = liberi
Il lemma ce ne liberi, mi presentava la scomposizione
delle singole parti tradotte e ricomposte in lingua italiana; dunque, l’anziano
mio concittadino era nel giusto nel sostenere che si trattava di una
invocazione. Ma quel rafforzativo [ddi] posto a principio della parola
restava oscuro. Che cosa si nascondeva dietro quelle due consonanti dentali accoppiate
a quella semplice vocale [i]? Di chiaro c’era che si trattava di una
invocazione, e dunque doveva essere rivolta a qualcuno. Mancava però il
soggetto. Dove trovarlo non avendo a disposizione che un semplice monosillabo?
Non mi ricordo più come avvenne la folgorazione di trasformare quel semplice
suono, nell’Ente Supremo della tradizione biblica, Dio. Ecco qual era il
soggetto misterioso che si nascondeva in quel banale monosillabo ddì, era
Dio! La parola ora mi parlava, e la frase si svelava nel pieno
del suo luminoso significato: Dio ce ne liberi!
Di questo arcano sono piene le parole delle lingue madri e non
smetteranno di sorprenderci per la loro ricchezza e il loro mimetismo.