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martedì 4 agosto 2020

RETROSPETTIVA
di Franco Astengo


In questi giorni del quarantennale dall’efferata strage di Bologna del 2 agosto 1980 abbiamo letto molte interessanti ricostruzioni storiche alimentate anche da nuove rivelazioni recentemente apparse sulla stampa.
 Ci troviamo però davanti a molte ricostruzioni e a poca analisi politica.
 In una visione del tutto personale e sicuramente opinabile provo allora a riassumere alcuni punti di analisi sull’intreccio verificatosi tra movimenti, dinamiche politiche, terrorismo e/o lotta armata relativi tra gli anni ‘60 e quelli ‘80.
1). L’unico episodio di terrorismo/lotta armata che ha inciso davvero sul quadro politico è stato l’affaire Moro. Fornisco molto credito all’ipotesi che la soluzione finale sia stata concordata tra Mosca e Washington ai fini “status quo”. Da aggiungere che la faglia “fermezza versus trattativa” è risultata frattura di fondo nel sistema politico italiano, quasi a livello di quella “intervento/non intervento” nella Prima guerra mondiale. L’obiettivo non era tanto quella di arrestare la “terza fase” morotea esistita solo nella fantasia di qualcuno e comunque priva di corrispondenza con una disponibilità del PCI. Lo scopo dell’affaire Moro era invece quello di bloccare il consolidarsi del sistema a “bipartitismo imperfetto” uscito dalle elezioni del 1976. “Bipartitismo imperfetto” che data la natura interclassista ormai assunta dal PCI (inevitabile con 12 milioni di voti) avrebbe subito spinte forti a trasformarsi in “bipartitismo perfetto” (l’esempio dell’esito delle amministrative 1975 era lì sotto gli occhi) nonostante i ritardi del PCI ad assumere una posizione alternativista nel quadro della visione “compromesso storico” del fronte popolare. Era fondamentale, per quella strategia, che il PCI rimanesse confinato volontariamente nella riserva indiana della “conventio ad excludendum”. Quindi occorreva rompere il quadro del bipolarismo e l’affaire Moro sarebbe servito ad aprire una dinamica diversa nel sistema politico poi realizzata con l’assunzione da parte del PSI di una posizione di distacco dal quadro della solidarietà nazionale. Distacco avvenuto all’interno di una ricerca (teoricamente giusta) di un proprio spazio di autonomia. Così, sia i 35 giorni alla FIAT e la vicenda della scala mobile ebbero soltanto una valenza di testimonianza difensiva. E così non poteva non essere non disponendo, quel movimento, di un corrispettivo di alternativa sul piano politico e di governo.;
2). Questo primo punto indicava già che, almeno per conto mio, non è esistita una strategia terroristica ma diverse fasi del fenomeno, tutte assai complesse da analizzare. Per un certo periodo, da Vallarino Gancia in poi credo che le BR abbiano fatto le BR seguendo il fraintendimento leniniano del provocare la reazione dello Stato e della borghesia per suscitare la rivoluzione popolare. Non si comprende diversamente l’affastellamento di bersagli l’uno diverso dall’altro, alcuni dei quali la cui scelta rimane francamente incomprensibile. Da ricordare, inoltre, la pluralità di sigle (NAP, Prima Linea, Unità Comuniste Combattenti): lo schema però ero lo stesso, fraintendere che le avanguardie fossero davanti al popolo e che davanti alla reazione borghese ci fosse lo spazio per la rivoluzione proletaria. Era tutta un’illusione (nemmeno troppo manovrata, anzi quasi per niente, dai servizi) ma per un certo periodo fu inteso così;
3). Non è neppure così sicuro che piazza della Fontana abbia arrestato il movimento. Il movimento era già in forte declino, firmato il contratto dei meccanici, arrestato il processo di unità sindacale, incombente Reggio Calabria (anche in questo caso clamorosamente equivocato dalla solita Lotta Continua - capace di scambiare perfino la rivoluzione iraniana fatta da bigotti ayatollah per l’anticamera del socialismo. Lotta Continua è stata l’organizzazione madre di molti dei nostri mali). In quel periodo si stavano formando i gruppi nel segno delle storiche divisioni del movimento comunista anni’20 - ’30 e sulla base di una dinamica da “spirito di scissione” aperta, fin dal 1966, con il Pcd’I linea rossa e linea nera. Lo smarrimento era tale che “il Manifesto” tentò addirittura un’avventura con Potere Operaio e ci si stava dirigendo verso la deriva elettoralistica del 1972 che coinvolse una buona quota di gruppi dai maoisti a Stella Rossa. Piazza Fontana rimane, almeno per conto mio, un tassello della strategia golpista degli anni’60. Più “Piano Solo” insomma, che attacco al movimento. Strategia golpista che si innescava in una forte tensione “legge e ordine” che albergava nel sistema soprattutto all’interno del PSDI e del PRI (La Malfa per la pena di morte, poi le leggi Reale, il Saragat del “mostro”) non tanto nella DC;
4). Bologna ’80: non stento a credere all’idea della P2 e al milione di Gelli ai NAR, che perseguivano una strategia similare alle BR limitandosi al capitolo “reazione”. La P2 non intendeva muoversi su di una strategia “golpista”, piuttosto come scritto nel documento di Rinascita Nazionale creare le condizioni di un “restringimento della democrazia” che poi si sarebbe gradualmente avviato come in effetti accadde anche se nel quadro, per lo più imprevisto (e imprevedibile) dei primi anni’90. In ogni caso nell’estate del 1980 il sistema era già in crisi verticale, come in crisi verticale era il bipolarismo a livello internazionale con il declino evidente dell’URSS. Quindi una strage terribile quasi “a babbo morto” con il sistema alla deriva e che con chi, all’interno del sistema, avrebbe potuto provocare uno sconquasso con una dirompente proposta di alternativa già seduto attorno al tavolo della spartizione. La dimostrazione di tutto questo si verificò con le elezioni del 1983 dall’incontro delle Frattocchie (e dall’intervento di Craxi al congresso di Milano del PCI, se non ricordo male il XVI) fino alla formazione del governo da parte dello stesso segretario socialista. Parturiunt montes...
Tutto questo tentativo di ragionamento che ho fin qui sviluppato è stato malamente misurato attorno al tema degli esiti di quella fase sulle dinamiche politiche e non sul piano della ricostruzione storica.
Da quella stagione culminata poi nella caduta del Muro, in Tangentopoli, nel trattato di Maastricht, nella dismissione dell’intervento pubblico in economia, nel divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, nella crescita del peso dei mezzi di comunicazione di massa, si determinò il crollo del sistema dei partiti e la compressione progressiva del sistema politico fino all’inasprirsi della personalizzazione, dell’imporsi del conflitto d’interessi, dell’esaltazione della governabilità nel nome del populismo di destra e ai danni della rappresentanza con la mortificazione delle assemblee elettive, della trasformazione nell’uso dell’autonomia del politico fino alla situazione attuale nella quale la stessa “democrazia del pubblico” si è trasformata in “democrazia recitativa”. Democrazia recitativa attraverso il cui metodo si è addirittura gestita la più grave emergenza sanitaria della storia d’Italia e d’Europa degli ultimi 200 anni e che sta sostituendosi a quella “rappresentativa” enucleando così i punti strategici per un mutamento complessivo della forma di governo e della democrazia parlamentare che potrebbe risultare ancor più pericoloso.