di
Franco Astengo
Franco Astengo |
Schematicamente
proviamo a fare un po’ d’ordine alla vigilia del voto referendario e per le
regionali
1). In Parlamento si è formato uno schieramento di
maggioranza sostanzialmente ricalcante le vecchie tracce del bipolarismo, al
quale molti nel PD hanno cominciato a pensare proponendo un’alleanza
strutturale con il M5S. Bipolarismo che non corrisponde però, come vedremo
meglio, alla situazione reale del Paese. Il partito di maggioranza relativa ha
dimostrato, nel corso di questa legislatura, di non riuscire a svolgere una
funzione “pivotale” sbilanciandosi in due opposte dimensioni di governo
causando così problemi di squilibrio e deficit di legittimazione del sistema;
2). In previsione del
referendum sul taglio della democrazia sarà bene svolgere qualche valutazione
di carattere tecnico, sul piano delle possibili analisi elettorali. La legge
che riduce il numero dei deputati e dei senatori è stata votata alla Camera
dall’88,7% dei presenti. Come giustamente scrive Stefano Folli su “Repubblica”
in questa occasione i voti andranno pesati oltre che contati. In questo senso
il “SI” pronunciato dalla Direzione del PD appare un’operazione molto rischiosa
perché miope, misurata esclusivamente sugli attuali equilibri di governo;
3). Andando per punti: ai
fini di una corretta valutazione dell’esito del voto del 20-21 settembre,
risulterà decisivo considerare la differenza nella partecipazione al voto tra
le Regioni impegnate nel rinnovo del Presidente e del Consiglio e le Regioni
dove, oltre al voto referendario, si avrà soltanto un limitato numero di
rinnovo dei Sindaci e dei Consigli Comunali oppure là dove l’elettorato sarà
chiamato ad esprimersi soltanto sul quesito referendario;
4). Con riferimento alla già
sviluppata annotazione circa l’essersi formato un nuovo bipolarismo nel gioco
maggioranza-minoranza in Parlamento c’è da rilevare, prima di tutto, che nelle
elezioni svolte nel 2010 al riguardo delle 6 regioni nelle quali si voterà in
questa occasione il peso del bipolarismo risultava a quell’epoca assolutamente
preponderante. In quel momento gli aventi diritto al voto nelle 6 regioni in
questione erano 18.145.688. I voti validi furono 11.061.841 pari al 60,96%. Il
centro sinistra ottenne 4.923.806 voti pari al 44,51%. Il centro destra
5.318.349 pari al 48,07%. In totale centro sinistra e centro destra
monopolizzavano il 92,58% dei voti validi, lasciando alle altre formazioni (5
stelle compresi) il 7,42%.
5). Scenario molto
modificato nel 2015. Praticamente invariato il numero totale degli aventi
diritto: 18.193.220. Secco ridimensionamento del totale dei voti validi:
8.915.034 (2.146.807 in meno) pari al 49,00% (-20,05%). Soprattutto modificato radicalmente il quadro
bipolare e non soltanto per l’aumento di suffragi fatto registrare dal M5S. Nel
2015, sempre con riferimento alle 6 regioni in questione, il centrosinistra
scende a 3.376.148 (una perdita di 1.547.658 voti) 37,87% (- 6,64%); il
centrodestra cala a 2.954.447 (- 2.363.902) 33,14% (-14,93%). Il bipolarismo è
stato così rotto non soltanto dalla crescita dei 5 stelle che hanno ottenuto
1.496.415 voti pari al 16,78% ma anche dalle altre liste (nelle quali si
segnalano liste di Forza Italia fuori dal centrodestra e liste di Sinistra
fuori dall’alleanza con il PD) che ottengono 1.088. 024 pari al 12,21%. Da
notare che tutti i presidenti, nel 2015, sono stati eletti perdendo voti
rispetto a quelli ottenuti dai loro predecessori (o da loro stessi)
nell’occasione precedente.
6). La rottura del
bipolarismo (sul cui schema si configura l’attuale assetto parlamentare) uscirà
accentuata dalla votazione del 20-21 settembre. In nessuna regione, infatti, è
prevedibile una forte egemonia di quelli che dovrebbero essere considerati i
principali schieramenti in relazione alla maggioranza e alla minoranza
parlamentare. Una discrasia molto forte che dovrebbe indurre a riflettere sulla
fragilità del sistema politico prima di tutto nel rapporto centro-periferia
(fragilità ben evidenziatasi del resto nella fase dell’emergenza sanitaria) ma
anche e soprattutto all’interno delle forze politiche incapaci evidentemente di
trovare un punto di riferimento e di equilibrio, un loro vero e proprio
baricentro;
7). La crescita della non
partecipazione al voto avvenuta in queste regioni tra il 2010 e il 2015
dovrebbe far riflettere prima di tutto alla scarsa attrazione esercitata
dall’Ente Regione rispetto all’elettorato (nelle stesse regioni alle politiche
del 2018 i voti validi, in crescita, hanno raggiunto il 71% rispetto al totale
degli aventi diritto). Su questa base, considerato lo scarto prevedibile tra
partecipazione alle politiche e partecipazione alle regionali, appare molto
difficile il raggiungimento nel referendum del 50% dei voti validi su tutto il
territorio nazionale. Naturalmente quella quota non è richiesta dalla legge ma
rimane un tetto simbolico importante. Nel 2016, nel referendum costituzionale
del 4 dicembre i votanti erano stati oltre il 59% degli aventi diritto. Nel
2006 oltre il 52%. Per confermare la quasi unanime votazione parlamentare,
considerati nel complesso circa 23 milioni di voti validi (quindi sotto al 50%)
il SI dovrebbe toccare almeno i 20 milioni di voti. Sulla valutazione del
rapporto, nel voto per il SI, tra maggioranza e minoranza parlamentare saranno
preziosi i raffronti dei voti ottenuti dalla liste nelle elezioni regionali.
Beninteso, tutti i dati fin qui esposti e/o ipotizzati hanno valore come
indicatori di linee di tendenza;
8). Nella sostanza si
possono trarre queste indicazioni conclusive: a) il bipolarismo parlamentare
messo su da PD e M5S non corrisponderà al voto espresso nelle 6 regioni in
questione, palesando così un ulteriore evidente punto di frattura nel sistema.
Si tratterà di un segnale non tanto di debolezza del governo ma di crisi nella
legittimazione del sistema stesso, in particolare se si accompagnerà con un
calo di voti in cifra assoluta per il centro destra che pure si presenta in una
dimensione più compatta; b) nel referendum è in gioco l’assetto costituzionale.
Per difenderlo, nonostante il grave vulnus che la vittoria del SI potrebbe
arrecargli, è necessario che il NO ottenga comunque un risultato molto
rilevante superiore alla quota di partenza stabilita sulla base della votazione
parlamentare (nell’ipotesi di 23 milioni di voti all’incirca 3 milioni).
9). È necessario non
confondere: va tenuta ben distinta la questione del governo e quella
costituzionale. La base di voti che otterrà il NO dovrà rappresentare il punto
di partenza per un’azione politica non soltanto di difesa della Costituzione ma
di sua affermazione soprattutto nella capacità di pieno ripristino della forma
di governo parlamentare, oggi messa fortemente in discussione nell’insieme
degli schieramenti parlamentari e, in particolare, da destra. È necessario far
capire al meglio che il NO non deve tradursi direttamente in un voto contro il
Governo ma deve essere inteso come l’espressione libera di un voto per la
Costituzione. Un voto che necessariamente deve collocarsi ben oltre l’esito
immediato del confronto fra forze politiche. Forze politiche che tutte assieme,
considerata quella che sarà la percentuale dei voti validi e l’ulteriore
squilibrio tra formule parlamentari e dislocazione nelle espressioni di
consenso popolare, si trovano in forte difficoltà di legittimazione. Soltanto
una forte affermazione costituzionale rappresentata dal “NO” potrà
rappresentare un punto di riferimento di recupero di legittimazione,
credibilità, autorevolezza per il sistema parlamentare: il No servirà
soprattutto a questo se all’indomani del voto saremo capaci di fornire una
seria prospettiva politica all’indicazione data da elettrici ed elettori come
non avvenne, invece, all'indomani dell'affermazione nel referendum
costituzionale del 4 dicembre 2016.