Pagine

mercoledì 9 settembre 2020

Parole e Lingua
IL CIVISMO
di Nicola Santagada


Nel mondo pastorale il legare, così come il mancare, ha più significati. Il legame tra madre e figlio è auspicabile perché proficuo, ma il legare, come in una morsa, la creatura prima della nascita, è estremamente pericoloso. C’è, ancora, il legare che indica la realizzazione della creatura e c’è il legare, nel senso di non dimenticare i torti subiti, che porta all’odio e alla vendetta. I greci, nel dire πόλις πόλεως (polis), si avvalsero della stessa radice, che dette luogo a πολύς (polùs), πολλή πολύ: molto, numeroso e, comunque, usando la metafora del grembo materno, dissero che la dispersione (il flusso gravidico, come crescita disordinata) genera il legare dei tanti, per la realizzazione di ciò che manca, che, qui, indica quello di cui si ha bisogno; quindi è l’unione solidale dei cittadini, che determina la creazione e la realizzazione di tutto ciò che serve nella vita. Pertanto, il soddisfacimento dei bisogni (quello che manca) si consegue con il legame, che rappresenta il fare, come capacità inventiva e realizzativa, oltre che di pastori e contadini, di artisti e artigiani. Allora, la differenziazione di ruoli e di funzioni, come anche l’affiorare del sentimento di solidarietà, così come lo scambio di attività e prestazioni, costituirono le basi del processo di formazione delle città. Aristotele riconosceva all’animale-uomo tre qualità esclusive: vivere in comunità, avvalersi della ragione e della parola, saper distinguere il giusto dall’ingiusto e, quindi, il bene dal male.  C’è da rilevare che i greci coniarono prima polis e, poi, πολιτής (polités), che è colui che la città mette al mondo e che i tanti πολιτάι sono il collante della polis. Da polis furono dedotti la πολιτεία (politéia): la forma di governo, ma, soprattutto, il πολιτικός (politicòs), che è anche chi fa politica, ma è, al primo posto, il cittadino che si lega agli altri cittadini, diventando un essere civile e determinando un rapporto di solidarietà.  I latini per indicare città coniarono urbs urbis, che indica che il bisogno ha determinato la vita associata, contrapposta a rus ruris, che indica che la laboriosità consente di provvedere al soddisfacimento dei bisogni. Da urbe furono dedotti il particolare modo di vivere (urbano), urbanizzare e, in epoca moderna: urbanesimo. Mentre da rus/rur si formarono rurale, che è ciò che è proprio di chi vive nei campi, rustico, che non solo esprime rudezza ma anche semplicità e genuinità di vita, e, infine, rusticano. I latini avevano coniato cibus, ad indicare ciò che è indispensabile alla creatura in divenire. Poi, dalla radice cib, o similare, da scrivere con grafia greca: χιβ (la cui traduzione è: va a generare il passare, che indica il periodo della gestazione) coniarono civis civis, che è colui che nel processo formativo lega, determinando la creazione di quanto necessita alla creatura in formazione. Nel concetto di civis civis, il pastore latino esprime il superamento dell’individualismo esasperato ed egoistico dell’uomo di natura, in quanto il cittadino è colui che, legando, determina un modo di vivere solidale per vincere il bisogno. Allora, il cittadino è colui che, avendo superato la condizione dell’essere che vive secondo natura: homo homini lupus, può diventare: homo homini deus. Questo sentimento si estrinseca meglio in: civico, che è il modo di essere del cittadino, che riguarda il modo di rapportarsi dei cittadini, in civile, che rappresenta la semplicità, la moderazione, la gentilezza, l’affabilità, la socievolezza del cittadino, che sono i valori di cui si sostanzia la civiltà. I moderni da civico hanno dedotto civismo, in cui l’utile e l’interesse della comunità prevale sull’utile e l’interesse personali. C’è anche una guerra civile, molto deprecabile ed assurda, tra cittadini, come in contrapposizione allo ius naturale c’è lo ius civile. Poi, non è da sottacere che da civis fu dedotta civitas, che, oltre ad indicare ciò che generano i cittadini, rappresentò i diritti di cittadinanza di cui gode il civis romanus. Gli italici coniarono paese, per indicare essenzialmente il luogo di nascita, in cui si dispiega la propria attività e a cui si è affettivamente legati. La perifrasi di παίς παιδός servì, invece, ai greci per indicare la creatura che, nascendo, resta legata alla madre per poter crescere felice, giocando e godendo degli affetti.  I latini, poi, che avevano la mentalità dei militari, tradussero burgus: piazzaforte, che rappresenta il grembo inviolabile, impenetrabile, in quanto tutto chiuso, che si erge come una rupe o come la rocca (arx) del Campidoglio. La traduzione letterale di borgo è: il luogo dove trascorro il periodo del venir meno, che, come ho già detto, per i latini fu il castello, mentre, per gli italici, il borgo rappresentò come una sorta di opificio, in quanto il grembo è il luogo del fare, il luogo, dove, per realizzare la creatura, occorrono tutte le arti, anche come tecniche operative, e tutti i mestieri.   Da borgo, divenuto, nel Medioevo, una sorta di appendice della città, furono dedotti borghese, colui che si dedica al secondario e al terziario, e la borghesia come classe sociale, mentre, in un secondo momento, indicò i valori di vita di una determinata classe sociale.