UNA PROROMPENTE VERGOGNA
di
Gabriele Scaramuzza
Osservo è la parola con cui si apre “Notturno”, che fa da premessa al
libro; articolato poi in quattro capitoli e in poche pagine conclusive
“Risvegli”). Osservo può esser presa
come una delle parole-chiave del libro: il bimbo (Matteo) osserva il nonno, il
nonno trascrive in un taccuino le proprie osservazioni sul bambino, che potrà leggerle
solo più tardi. Il taccuino del nonno occupa l’intero primo capitolo, dal
titolo suggestivo “La pedagogia delle piccole cose”. Presto, e tanto più
fattosi adolescente, Matteo a sua volta osserva, e in un momento cruciale della
vicenda annota di sé: “Continuavo a guardarli con gli occhi di un osservatore
estraneo”. Osserva, fino a che l’osservazione sfocia nella volontà di scrivere
questo libro. Che è una narrazione, ha un inizio promettente e una fine raccapricciante,
trascorre tra personaggi ed eventi divaricati eppure uniti nel loro incontro -
e trascina nella lettura.
Realtà
diverse eppure unite da una patina che si stende su tutto. Patina: un tono che
pervade lo scritto, e a modo suo risponde a interrogativi cui la lettura
costringe: perché una storia, perché questa
storia; perché raccontarla. Sono domande che sempre ogni lettura mi pone. Dalla
risposta, più spesso implicita che esplicita, dipende la voglia di continuare,
o la decisione di smettere.
Incentivo
alla lettura è la voglia di conoscere meglio l’autore, che in parte conferma
quanto già intuito in lui; e l’ipotesi è che non poco di lui traspaia dalla
figura di Matteo, protagonista-narratore. Ma soprattutto prendono temi, tanti,
in cui ci si riconosce, tanto più i toni che intridono la scrittura, e aiutano
a penetrare - psicologicamente, sociologicamente - ambienti e persone; e a
parlarne. “Patina” è (genericamente, certo) un tono “utopico” (non utopistico):
qualità umane in cui mi identifico, e in ogni buona lettura (o visione, o
ascolto) che “mi prende” traspaiono. Dove non è mai questione di qualità
letterarie, di valori estetico-artistici soltanto; ma - attraverso ed entro di
essi - esistenziali.
Osservo, si è detto. “Ma non mi
limito a osservare. Sollecito il lavoro dell’immaginazione” (leggiamo in “Risvegli”),
alimentata però da frammenti di realtà tenuti vivi nella memoria. Nell’immaginario
si profilano i tratti incerti e sfuggenti di volti “che chiedono di continuare
a vivere grazie alla scrittura, prima, e allo sguardo di chi legge, dopo”. È
difficile separare “mondo narrato e mondo vissuto”: “lampi del ricordo”, vissuti,
sempre irrompono anche nella scrittura più serrata su di sé. Fantasia e realtà,
e anche osservazione e fantasia, si intrecciano più di quanto si pensi.
“Se
si raccontano storie è anche perché un giorno, richiudendo un libro, il lettore
possa dire: qualcuno è passato di qui e ha lasciato una traccia” in grado di
“sollecitare la memoria nel corso degli anni”. Ma sappiamo che il sempre che
auspichiamo è un nostro limitato sempre. Il libro si conclude con parole: “Il
tempo è il respiro lungo dell’universo: un soffio gelido in cui si dissolvono
le storie che viviamo e quelle che ci ostiniamo a scrivere”. Ben detto, e
quanto mai “vero”.
L’osservare
non si estingue nella fantasia: indica un aggancio con la “realtà” che si
mantiene, ineliminabile. Così la “patina” reca tracce dell’autore così come
l’ho conosciuto. Anche in questo Io e Mr
Parky - quanto a tracce di realtà che vi si rapprendono, conoscitività,
biografismo persino direi - non è così lontano da questi Sentimenti di prorompente vergogna. Se il primo è un dialogo con la
propria malattia, un modo di farvi fronte e di rispondervi, anche il secondo è
un modo di confrontarsi con realtà anche solo indirettamente incombenti nella
propria storia.
Termine
chiave è poi vergogna, nelle varie
tonalità in cui si presenta; nella copertina è accompagnato dal termine
“prorompente”. Con esso il titolo assume un andamento ossimorico: la lenta
macerazione della vergogna, il suo esitante insinuarsi, mal tollera impeti e subitaneità.
La spiegazione che mi aspettavo dall’ultimo omonimo paragrafo del primo capitolo
è in realtà limitata al caso del signor Gino, alla sua vergogna “allo stato
puro”, che dà luogo a riflessioni imprescindibili; ma lascia in ombra la
ricchezza di sensi e di occorrenze con cui la vergogna emerge dal libro.
Proseguendo
in questa sommaria disanima della vergogna, c’è la vergogna che si prova per
qualcosa che si è fatto e si vive come imperdonabile: è il caso del signor
Gino, o di Stefano che agisce verso Robertino in un modo di cui si vergogna (e
non è consueto farlo); modo che genera uno screzio, cui l’ascolto della musica
pone rimedio. Si dà poi la vergogna “per quel che dicono gli altri”, o per la propria
immagine nello specchio, vista con sguardi altrui. Sguardi che (leggiamo in
seguito) “sentiva bruciare sulla propria pelle, perché gli occhi degli altri,
si sa, sono strumenti infernali per generare vergogna”.
Vergogna
è anche quella temuta dal nonno, legata al suo forte senso del pudore: vorrebbe
“morire senza provare vergogna”; sente vergogna per la propria immagine di
malato, morente, privato di quella “dignità” cui al massimo tiene. In altro
contesto troviamo “convivere con la vergogna”; esortazione, forse, sulla bocca
del nonno. Incontriamo la vergogna che si prova per gli altri, per il loro modo
di vivere di cui non siamo responsabili ma che ci coinvolge: così la vergogna
di Claudio, che si vive in netta contraddizione col mondo dei suoi: “Claudio
voleva evitare che entrassi in contatto con i suoi genitori perché si
vergognava di loro!”. E a questa sua vergogna si associava un senso di colpa:
“aveva perennemente la percezione di essere in debito con gli altri, come se
dovesse farsi perdonare di essere al mondo. Di qui la sua naturale ritrosia, il
timore di arrecare disturbo, gli improvvisi rossori se gli rivolgevano
inaspettatamente la parola. Ma anche la sua grande generosità”. Claudio è una
figura centrale, la più esemplare anche in ordine al titolo del libro, incarna
in modo accentuato il destino di un’intera dimensione della sensibilità e della
cultura destinata a soccombere in un mondo che a torto speravamo di esserci
lasciati alle spalle; ma che in forme diverse tuttora è in agguato. La vergogna
come riflesso della vergogna che altri provano per nostri modi di essere da loro
fortemente avversati, e che li espongono a recriminazioni altrui, dannose per i
propri affari, per la propria reputazione. Fino alla vergogna che l’autore
sembra mettere in primo piano, o che forse tutte le riassume: “la vergogna è un
sentimento che spesso grazia i colpevoli mentre punisce gli innocenti”. “Spesso”
tuttavia, non sempre: non si deve dimenticare la vergogna come atto d’accusa
verso chi magari non la prova, ma che lo condanna agli occhi di chi l’avverte
scoprendo le sue colpe – come i soldati russi che scoprono Auschwitz.
Ci
sono i luoghi della vergogna: il convitto di Robertino, tratti di vita della
pur lungimirante e generosa signora Gisella - figura a suo modo luminosa,
accanto a quella del nonno, per capacità di penetrazione e per inusitata
larghezza di vedute. Il corridoio buio del liceo, teatro di atti vergognosi; le
scale in cui si incontra vergognoso il signor Gino, la macelleria dei genitori
di Claudio in cui la vergogna esplode nelle sue conseguenze più brutali.
Altra
parola-chiave è “morte”. Appare soprattutto, è vero, nelle pagine in cui il
nipote narra della morte del nonno. Controfigura dell’autore mentre scrive? In piccola
parte direi: in senso proprio (autobiografico forse) lo è il nipote, che
conduce la narrazione e ricorda la sua storia, spalmata in lunghi anni, in cui
centrale è la figura del nonno: alla trascrizione di un suo taccuino è affidata
la prima presentazione del nipote-protagonista. Ma c’è la morte dei vecchi
abbandonati in un ospizio, degli animali macellati che Claudio osserva in
quello che chiama “perimetro della morte annunciata”.
A
essa si collega la “nostalgia del futuro” (è il titolo del secondo paragrafo
del primo capitolo), tra i temi più originali e coinvolgenti del libro;
richiama per converso la benjaminiana “speranza al passato”. È rimpianto per
ciò che non si vivrà, e riguarda prima che altro “il destino delle cose che
continueranno a esistere dopo che avremo lasciato questo mondo”. Condivisibile al
massimo per me è considerare la morte più che nella prospettiva, scontata, del
sopravvivere di persone care, delle domande sulla modalità del loro e nostro
destino, della loro scomparsa; e dell’eventuale continuarsi di una famiglia. Più
che in questo dunque, nella incalcolabile, spettrale sopravvivenza delle cose
che ci circondano, in nostra assenza, sottratte al nostro sguardo.
Ma
termine-chiave infine è, sempre nella mia ottica, “lettura” in sue modalità
varie, che a poco a poco prende piede in Matteo, sulla scia di suoi due precoci
compagni: Robertino (per cui i libri rappresentano tutto quanto non ha ricevuto
dalla vita, come confessa) e Stefano; a questi si aggiunge poi Claudio. Il
mondo della cultura si arricchisce con la musica, simbolizzata “dal suono
struggente del sassofono”, personificata da Elena, dalle sue mani che scorrono
sulla tastiera: un mondo di sensibilità e di valori in cui si riconosce Claudio
e che, violentemente avversato, provocherà il suo suicidio.
I
termini considerati sono cifra delle meditazioni “esistenziali” che percorrono
il libro, per lo più in modo velato. Esplicitamente: “La vita, quella che
viviamo quotidianamente, è stordimento, è, nella sua essenza, pensare ad altro: un’arte che ciascuno
di noi coltiva per esorcizzare l’idea della morte”.
Andrea
Bonomi
Sentimenti di prorompente
vergogna
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