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mercoledì 16 settembre 2020

TEMPORALITÀ E LIMITI
di Fulvio Papi


Questa riflessione, che forse sembrerà severa, vuole essere solo un contributo alla comprensione di alcuni problemi di ordine generale che la pandemia ha aperto e che hanno a che vedere con il tema fondamentale del senso che informa la nostra vita spesso senza che alle sue radici (la parola è di Primo Levi) prestiamo una importante attenzione. Un modo per riconoscere e distinguere nel tracciato storico le differenti identità è senz’altro quella di riconoscere in quale forma di temporalità i vari soggetti considerano la propria identità. Questo rapporto può addirittura mutare nel corso della propria vita adulta, ed è relativo al patrimonio di sapere di cui può disporre, dato che la temporalizzazione della propria vita è una relazione diretta con quella che, più o meno chiaramente, siamo disposti a riconoscere come un valore essenziale della vita nella quale ci è accaduto di essere formati. Qualche decina di anni fa è stata considerata, negli ambienti dove la forma simbolica è “di casa”, che si era giunti alla fine dei “grandi racconti”. Si può dire con sicurezza che questa svolta, nell’orizzonte di verità, proprio della filosofia, ha segnato un mutamento molto rilevante negli studi teorici. Tuttavia i “grandi racconti”, addirittura in un’epoca precedente, erano al tramonto, come segnalavano le ricerche sociologiche, anche nel mondo sociale dove appariva netto il declino della “coscienza di classe” in frazioni non trascurabili del mondo operaio. Essa perdeva la sua valorizzazione storica, per assumere, in una dimensione temporale del tutto differente, una dimensione sindacale. È  indubbio che tra le due forme vi fosse una trasformazione del processo di temporalizzazione che era visibile, oltre che in molti altri aspetti, nello stesso comportamento elettorale. Il proprio valore di esistenza e l’elaborazione del proprio desiderio assumevano forme molto differenti rispetto a una propria identità percepita, pure nella produttività, come appartenente a una forma storica. I filosofi potevano dire che era la fine della dialettica, ma non era del tutto corretto, poiché, a livello sociale, si apriva una nuova forma di dialettica tra oggetto e soggetto che consentiva una nuova forma di temporalizzazione: si passava dalla storia come referente ideale a una identità che rivendicava, per il suo proprio valore, il riconoscimento di maggiori diritti in direzione del mercato. 

Opera di Vinicio Verzieri

Non è la stessa cosa in generale, ma certamente non lo è nel proprio processo di temporalizzazione che è parallelo alla concezione della propria libertà.
Sono problemi molti antichi. L’atomismo di Democrito sortiva un determinismo irriducibile nella vita che non poteva essere altro che la realizzazione della stessa legge universale. In questa prospettiva c’era necessariamente solo il tempo dell’atomismo che costituiva nella necessaria accettazione, la sola forma di saggezza. Sappiamo però che in Lucrezio, rispetto all’impianto di Democrito, esiste la teoria del “climamen” che stabilisce nel mondo la dimensione della imprevedibilità, della libertà e quindi di una propria temporalizzazione. La filosofia leggeva un senso della vita che si connetteva con un processo di temporizzazione. Ma un cristiano che sia vissuto nella concezione della “città di Dio” avrebbe avuto certamente un ben diverso processo di temporizzazione: la sua vita, per quanto complessa e indirizzata al valore della conversione, leggeva il suo valore nella temporalizzazione di un’altra vita, come finalità e senso del suo condividere il mondo. E qui naturalmente si apriva una radicale differenza di destini rappresentati dalla considerazione del tempo. Ma se torniamo alla relazione tra temporalizzazione e libertà, è indispensabile domandarci quale sono le concrete temporalizzazioni della libertà? E su questa domanda si aprono tutte le dimensioni teoriche storiche del nostro mondo che è ben più profondo della nostra modernità. Sono quindi consapevole che esse, nei loro diversi significati, potrebbero essere partitamente analizzate, per esempio la temporalità finanziaria delle banche e il tempo fuggevole degli sguardi amorosi, ma qui, com’è ovvio, mi limiterò a tracciare alcuni elementi caratteristici della nostra più vicina e molto difficile esperienza. Comunemente si suole dire che siamo dominati dal denaro, simile al demonio dell’età di mezzo. È una informazione che vale per il suo effetto emotivo e, entro questi limiti, per il suo valore educativo. Sempre semplificando, ora a livello di astrazione concettuale, si può dire che tutta la nostra (occidentali in espansione) forma di riproduzione sociale è condizionata dalla circolazione dl capitale che assume la forma di merce e diviene la condizione del profitto. La stessa efficienza di molte strutture sociali, indispensabili alla nostra vita così com’è organizzata oggi, è considerata come una merce imposta dalle forme del mercato. Essa finisce coll’apparire simile, nella sua innovazione, a quello che fa il trapano degli ospedali di opere della pubblica carità o istituiti dal bilancio pubblico. Senza questa garanzia la propria salute può essere considerata a livello di bene di lusso. 

Opera di Vinicio Verzieri

La forma rigorosamente privata (a livello rigorosamente legale, di fatto) della circolazione del denaro costruisce la figura dominante del consumatore come altre prassi storiche hanno costruito altre figure con la loro aura etica: il signore, l’uomo d’arme, il servo della gleba con una trasformazione progressiva ma ineguale nelle diverse zone del mondo, ciascuna figura con una sua interpretazione temporale che, nel loro incontro, costituiscono la figura astratta e, insieme pragmatica, del tempo sociale dove vi è il posto per il povero e per chi, con parole del Veblen degli anni Trenta, appartiene alla classe agiata. Nel nostro mondo l’accessione diversa ai consumi è la forma di gran lunga più percepibile della propria libertà e quindi del senso della propria temporalità. Il potenziamento della propria identità spesso è misurato dal potenziamento dei consumi che tuttavia non riguarda per lo più i ceti meno provveduti ai quali resta la strategia della propria sopravvivenza. Nell’insieme della società la mitologia del consumismo (facilitata dalla velocità di circolazione del capitale) è stata dominante, tuttavia è innegabile che vi sono stati e vi sono elementi non indifferenti di rifiuto e di dissidenza. E non vi è dubbio che tra gli uni e gli altri vi sia una radicale differenza della loro temporalità che è poi un differente modo di essere al mondo.

Opera di Vinicio Verzieri

La situazione sociale che in questi mesi è stata dominata dalla pandemia, è stata in certo senso un’occasione per misurare i livelli di criticità. Trascuro, ingiustamente, l’elogio sociale che va tributato a tutti coloro che nell’emergenza, sono stati di valoroso soccorso o, anche solo di rigorosa realizzazione delle regole necessarie. Tuttavia non va trascurato il fatto che, soprattutto in tempi e luoghi di vacanza, il comportamento sociale non è sempre stato come avrebbe dovuto essere. Il “vacuum” ha favorito la prevalenza in molti casi della concezione della libertà personale come forma sociale del proprio desiderio che deve essere tutelato come diritto. Mentre il lavoro istituisce, in un modo o in un altro, una regola comportamentale, la vacanza sembra “restituire”, non solo nell’opzione, ma talora nel diritto la sequenza desiderio individualistico, libertà, deresponsabilizzazione, garanzia della propria libertà. Di solito questi criteri sono sostenuti con argomentazioni molto più semplici, ed è per questo che non solo la scuola, ma la prassi della cittadinanza deve divenire centro di grande attenzione. L’educazione a una buona cittadinanza ha a che vedere anche, e più di quanto non si pensi, con il tema essenziale nella vita della propria forma di temporalità. Essa non è assoluta: del Freud degli anni Trenta sappiamo che il desiderio, per un bene comune, va disciplinato, per non usare la parola corretta che è represso dal suono ormai inquietante. È inutile fare anguste chiacchiere sulla rinascita di un umanesimo che, a sua volta era un importante campo ideologico di un particolare costume civile e politico. L’analisi economica richiederebbe uno specifico e competente impegno. Qui mi limito a dire che le “regole” del prof. Monti assomigliano alle decisioni che può assumere una ragionevole programmazione. Oggi mi pare decisivo il problema della comunicazione sociale. Anche evitando inopportuni (e qualche volta ridicoli) atteggiamenti solonici, vorrei suggerire che le televisioni - in banale concorrenza - non hanno svolto quel servizio di verità (e non di contingente opportunità) che ci avrebbe creato qualche problema, ma avrebbe dato una più corretta misura di essere nel mondo. In prospettiva una più facile difesa dalle tragedie sociali. Valeva la pena di divulgare che la natura dei virus è all’origine della vita e in continua trasformazione con la quale possiamo convivere e, in qualche circostanza, no. Contrariamente all’opinione che siamo, almeno da questo punto di vista, “immuni”, era bene spiegare qual è il rapporto, come fu, come si trasformò, com’è, tra noi “civili” e gli orizzonti naturali. Un esempio quasi infantile: i fiumi che escono dai propri argini non sono un a “disgrazia”, mentre è certo un errore vendere come zone fabbricabili terreni che naturalmente il fiume può allagare in tempo di piena. È un esempio da poco, ma se ne possono fare centinaia che derivano da una visione totalitaria dell’essere come merce. 


Scultura di Giuseppe Denti

Il “modus in rebus” non è appartenuto alla nostra storia. Dal virus alle catastrofi naturali è tutto un mondo che dobbiamo abitare con una intelligenza e una previsione che non devono essere oscurate dalla razionalità tecnologica. Direi, per quanto riguarda la comunicazione, che occorre essere essenziali e veritieri al di là della “notizia”. Lascerei perdere l’eccesso di commenti a queste gravi situazioni, alla chiacchiera incompetente e competitiva di protagonisti della visibilità. Uno stile diverso e possibile educa a vivere la propria temporalità al di là di un infinito oggi e del nostro tormentato desiderio, ben oltre il quadro edipico, come confidano talora i professionisti dell’analisi. E agli uomini politici facciamo presente che la cittadinanza non è uno scambio utile tra chi la dà e chi la prende, non è il riconoscimento di ogni desiderio personale o di gruppo come un diritto, ma la ricerca comune di un bene collettivo. Se così non fosse potremmo rileggere l’ottavo libro della Repubblica di Platone dove si spiega la decadenza della democrazia.