di
Franco Astengo
Un articolo dell’ex-segretario della
FIM-CISL Marco Bentivogli (la Repubblica, 14 settembre) pone finalmente
in rilievo un tema praticamente abbandonato nelle more della crisi e nella
confusione che regna sovrana a livello di governo.
Nel
frangente Bentivogli solleva la questione dell’ILVA, denunciandone la
sparizione del tema dal dibattito pubblico e allarga il tiro sollevando alcuni
punti di grande interesse:
1)
Questo paese sta accettando come "normale" 5 anni di cassa
integrazione e il totale silenzio sulla vicenda non solo della siderurgia ma
dell'intero comparto industriale per non disturbare le elezioni regionali;
2) In queste condizioni
importare acciaio e tenere i lavoratori in cassa integrazione è una vergogna;
3) L’Italia ha il 52%
dell’export dal settore metalmeccanico, di cui il pezzo più grosso è fatto di meccanica
strumentale, e subordina le politiche industriali alle elezioni regionali. In
questo modo non si comprende bene come il tema dello sviluppo industriale sia
obliato nel quadro dei presunti progetti di rilancio dedicati al programma
europeo relativo all’emergenza sanitaria.
4) Va bene mettere assieme
tutti i progetti su green e digitale ma non si può mettere in secondo piano
l’idea del rilancio sostenibile della siderurgia, così come l’elaborazione di
un piano complessivo di rilancio industriale.
5) I progetti riguardanti le
infrastrutture, proprio in relazione al già citato discorso europeo, debbono
essere legati prioritariamente alla prospettiva di sviluppo industriale e non
far parte di progetti gonfiati semplicemente da propositi di gigantismo propagandistico.
C’è un virus
che non abbandona il corpo cronicamente debilitato dell’economia italiana:
l’Italia è un paese senza progetto.
Vale
allora la pena ritornare su questi (decisivi) argomenti con alcune
osservazioni.
La
situazione italiana può essere, ancora una volta schematizzata in relazione
alla nostra storia industriale dal dopoguerra in avanti.
Si
tratta di argomentazioni già sostenute in varie sedi ma mai come in questo caso
“repetita juvant”.
Il punto di partenza non può che essere
quello degli anni’70:la fase di avvio dello “scambio politico”, attraverso
l’operazione “privatizzazioni” realizzate in funzione clientelare rispetto alla
politica.
Negli anni’80 le compensazioni delle
perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la
relativa esplosione del debito pubblico e all’inizio degli anni’90, finiti i
soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, l’IRI trasformata in
S.p.a.
L’esito
più grave della fase dello “scambio politico” infatti, si realizzò in una
condizione di totale dismissione del sistema delle partecipazioni statali (IRI
messa in liquidazione il 27 giugno 2000), mentre stavano verificandosi almeno
quattro fenomeni concomitanti:
1) L’imporsi di uno
squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di
qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;
2) La perdita da parte
dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione
industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori
dei quali a Genova si diceva con orgoglio “produciamo cose che l’indomani non
si trovano al supermercato”;
3) A fianco della crescita
esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio
dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica.
Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi
all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto
quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la
conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della
progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo
all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere
correttamente la crisi;
4) Si segnalano infine due
elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali
infrastrutture, ferrovie autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto
soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la
deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla
fragilità strutturale del territorio.
Sono questi riassunti in una dimensione
molto schematica i punti che dovrebbero essere affrontati all’interno di
quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente
abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi.
Concetti di programmazione e intervento
pubblico affrontati in maniera assolutamente confusa da questo governo in
un’ottica che lo stesso articolo di Bentivogli definisce felicemente come
“keynesisimo a fumetti”.
Nel
quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita
“globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione
dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno
pesato ed evidentemente continuano a pesare in maniera esiziale sulle
prospettive dell’economia italiana.